“A Gaza è stato commesso un genocidio culturale”: parla l’ex ministro della Cultura palestinese Atef Abu Saif

"Quando la perdita è generale, quasi non la senti. Quando tutti perdono la famiglia e la casa, smetti di contare le tue perdite personali. A volte dimentico di aver perso mio padre in questa guerra, la persona a me più cara". A parlare è Atef Abu Saif, scrittore ed ex Ministro della Cultura palestinese, che a Fanpage.it racconta gli 85 giorni trascorsi a Gaza all'inizio della guerra, la perdita personale e collettiva, e quella che definisce una "guerra contro la memoria" palestinese. Lo incontriamo nella storica libreria Mascali di Siracusa, in occasione del suo tour in Sicilia di presentazione del suo libro Vite appese.
Lei è rimasto a Gaza durante le prime fasi del genocidio. Quanto tempo è stato lì e quando è riuscito a uscire?
"Sono rimasto a Gaza 85 giorni. In realtà vivevo a Gaza, ma all'epoca il mio lavoro di Ministro della Cultura era diviso tra Gaza e Ramallah. Andavo lì ogni giovedì e ripartivo la domenica. La guerra è scoppiata il 7 ottobre. Nessuno se lo aspettava. Era un giorno normalissimo. Alle 5 del mattino stavo nuotando sulla spiaggia, pensavo fosse l'ultima settimana d'estate. Poi è scoppiata la guerra. Avrei potuto andarmene all'inizio, come hanno fatto molti funzionari, ma ho deciso di restare. Ero lì con mio figlio. Dopo tre mesi, però, avevo diversi incontri di lavoro al Cairo e ad Amman con i ministri della cultura arabi, così sono dovuto partire. Gli egiziani hanno facilitato la mia uscita attraverso il valico, che all'epoca era aperto per alcuni casi con coordinamento speciale. Ma in quegli 85 giorni ho perso mio padre, la mia casa, mia suocera, mia nipote. In quei tre mesi mi sono spostato da Jabalia a Gaza City, dove dormivo nella "press house" (la sede della stampa, ndr). Quando l'hanno distrutta, mi sono trasferito a Khan Younis per dieci giorni. Poi ho dovuto montare la mia tenda sulla sabbia di Rafah, e ho vissuto lì per circa 40 giorni prima di andarmene".
Come si elabora un lutto personale di questa portata quando si inserisce nel trauma collettivo del popolo palestinese?
"Quando la perdita è generale, quasi non la senti. Quando tutti perdono la famiglia e la casa, smetti di contare le tue perdite personali. A volte dimentico di aver perso mio padre in questa guerra, la persona a me più cara. Lo dimentico perché quando guardi al trauma generale, la tua perdita sembra piccola. Ma è contraddittorio. Per ognuno, il proprio padre, figlio o moglie è la persona più cara. Ho vissuto tutte le guerre di Gaza. Sono nato durante la guerra del 1973. Ho vissuto la Prima e la Seconda Intifada, le incursioni del 2004 e del 2007, e poi le guerre del 2008, 2009, 2012, 2014, 2018. Ma nessuno si aspettava una guerra con questa quantità di distruzione e uccisioni. E nessuno si aspettava che durasse così a lungo. Questa è quella che chiamano la "tristezza posticipata" (postponed sorrow). Quando la guerra finirà e torneremo nei luoghi dove sorgevano le nostre case, allora inizieremo a pensare a noi stessi. Troveremo la casa vuota. Niente padre, niente figlio. Una delle cose più tristi per me è che ho paura di tornare a Gaza perché non ho più amici. Tutti i miei amici sono stati uccisi. Non sto scherzando. Se avevo 50 amici cari, 35 di loro sono morti. Li ho contati l'altro giorno. Anche i luoghi che frequentavo, i caffè, sono tutti scomparsi. Ma poi ti dici che non sei solo. Tutti sono come te".
Come ex Ministro della Cultura, come definisce il termine "genocidio culturale" nel contesto di ciò che sta accadendo a Gaza?
"Dico sempre che Israele e il sionismo stanno conducendo tre guerre contro il popolo palestinese: la guerra contro la terra, per prendere più terra possibile; la guerra contro le persone per uccidere più palestinesi possibile, meno arabi ci sono, meglio è; ma la terza guerra, per me, è la più pericolosa: la guerra contro la nostra narrativa e la nostra memoria. Cosa collega le persone alla terra? I monumenti. La memoria, la storia. Quindi, distruggi tutto ciò che li collega. Allora ottieni uno spazio vuoto. Senza ricordi, senza racconti, senza storia, senza monumenti, senza musei, senza biblioteche. E se anche poche persone sopravvivono, non sono più connesse alla terra. Il genocidio culturale è questo: l'intenzione di eliminare tutti i monumenti culturali del Paese".
Ha menzionato biblioteche e musei. Quali sono state le perdite più significative per il patrimonio culturale palestinese in questi due anni?
"Hanno distrutto biblioteche e librerie. Il centro archivistico di Gaza City, un edificio storico del XIX secolo, è stato bombardato. Hanno usato una bomba incendiaria per appiccare un incendio. Volevano assicurarsi che tutti i documenti, alcuni vecchi di 400 anni, bruciassero. Erano tutti gli atti del comune, la storia economica, culturale e sociale della città. Li hanno bruciati e poi hanno distrutto l'edificio. Lo stesso vale per la Biblioteca Pubblica Generale di Gaza, che è la più grande biblioteca pubblica della Palestina. Conteneva il nostro tesoro nazionale: tutti i nostri archivi culturali pre-Nakba. Avevamo tutte le pubblicazioni storiche, i giornali, le riviste, il vecchio cinema palestinese. Quando l'hanno attaccata, tutta questa storia nazionale è andata perduta. La prima cosa che gli israeliani hanno attaccato il 7 ottobre non sono stati i miliziani di Hamas ma i musei. Il primo bombardamento è stato contro il Museo Al-Qarara. In questa guerra hanno distrutto 12 musei, incluso il Museo del Ricamo Nazionale Palestinese a Rafah, che conteneva abiti femminili vecchi di 600 anni. Perché attaccare una chiesa cattolica? Perché fa parte della storia palestinese. Perché bombardare la tomba del bisnonno del profeta Maometto? O il cimitero romano a Jabalia? O il porto fenicio? O il monastero di Sant'Ilarione, il più antico della storia? Perché vuoi uccidere la storia e tutti gli elementi viventi che la riflettono.
Qual è la connessione tra la cultura palestinese e l'identità palestinese? Perché Israele mirerebbe a distruggerla?
"La cultura è il DNA dell'identità. Anche quando i palestinesi sono in Brasile o in Cile, da sette generazioni, trovi nelle loro case il ricamo o la kufiya. Il progetto sionista ha un enorme problema: non appartiene a questa terra. I ladri prendono ciò che non è loro. Non rubi qualcosa che ti appartiene. Per questo cercano di rubare la nostra cultura: il nostro hummus, i nostri falafel, la nostra dabka (danza tradizionale), i nostri ricami. Cercano di dire che sono "israeliani". L'obiettivo principale è quello di disconnettere i palestinesi dalla loro terra. Eliminare questa connessione e quindi disumanizzare i palestinesi spogliandoli della loro identità, per poter dire: "Non esistono i palestinesi, sono solo arabi". Certo che siamo arabi, e siamo orgogliosi di esserlo. E siamo orgogliosi di essere stati Fenici, o Romani. È la nostra storia. Abbiamo ereditato tutte le civiltà di quel Paese".
Qual è lo stato della comunità culturale a Gaza ora? Crede sia possibile recuperare ciò che è stato perso?
"È molto difficile. Abbiamo bisogno di intervenire su più fronti. Per prima cosa, dobbiamo ricostruire tutti i siti archeologici. Circa 65 siti sono stati distrutti o danneggiati. Poi, abbiamo bisogno di un'indagine internazionale su ciò che è stato rubato. Molte persone hanno riferito di aver visto soldati israeliani portare via statue, colonne, giare fenicie e collezioni archeologiche private. Lo hanno mostrato loro stessi alla Knesset. Infine, dobbiamo ricostruire la vita culturale. Non abbiamo più un solo cinema. Non un singolo teatro. Non una singola biblioteca. Le cinque gallerie d'arte di Gaza sono state totalmente danneggiate; la maggior parte degli studi privati dei pittori a Jabalia e Gaza City sono distrutti. Ma nonostante tutto questo, durante la guerra, la gente di Gaza ha continuato a fare cinema, a fare teatro, a scrivere, a ballare, a organizzare festival. La vita culturale a Gaza è molto vivida e ha sempre sofferto per l'occupazione e l'assedio, ma è sempre riuscita a sopravvivere. È sempre stata una forma di resistenza. Fin dall'inizio del progetto sionista, i palestinesi hanno capito l'importanza della cultura. Hanno iniziato a scrivere canzoni per chiamare alla rivolta, a fare teatro per sensibilizzare. Per questo Israele ha sempre cercato di uccidere gli intellettuali palestinesi, come Ghassan Kanafani. È una guerra contro la nostra cultura".