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Opinioni

Lunedì nero per i mercati finanziari mondiali: quali conseguenze per le famiglie italiane?

Mercati finanziari nell’occhio del ciclone, mentre gli investitori cercano di alleggerire le posizioni vendendo gli asset a maggiore rischio o su cui si registravano i più consistenti guadagni da inizio anno. La situazione non è in realtà così negativa per quanto riguarda le ricadute sull’economia reale, ma come italiani ed europei dovremmo iniziare a interrogarci su quale futuro vogliamo costruire, per non correre il rischio di un pericoloso ritorno al passato…
A cura di Luca Spoldi
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Giornata da dimenticare per le borse: dopo che Wall Street aveva chiuso in ribasso del 3,5% la seduta di venerdì scorso (oggi il listino americano rischia di fare peggio, avendo aperto con cali tra il 5% del Dow Jones e l’8,7% del tecnologico Nasdaq), stamane in Asia Shanghai è crollata di un altro 8,5% e Shenzen del 7,7%, Hong Kong ha chiuso a -5,73% ed anche Tokyo ha visto l’indice Nikkei225 cadere a poco più di 18.540 yen, con un calo del 4,61%. A fare paura ai listini continuano ad essere le incerte prospettive dei mercati cinesi, dopo che anche la svalutazione dello yuan (ma pure la disposizione che consente ai fondi pensione, per la prima volta dalla loro costituzione, di investire anche in borsa) non è servita a rassicurare gli investitori, che ora si attendono quanto meno un ulteriore allentamento delle politiche creditizie, in particolare con un taglio dei coefficienti di riserva obbligatoria per le banche, nel tentativo di attutire la caduta delle quotazioni.

In Europa non va meglio: complici i timori di una frenata delle esportazioni europee in Asia a partire dall’autunno (oltre che all’immediata reazione alla brutta riapertura della borsa di New York), anche sulle borse del vecchio continente proseguono le vendite che colpiscono indistintamente tutti i titoli e settori a partire da quelli più liquidi e che meglio avevano performato da inizio anno tanto che l’indice Stoxx600 a metà seduta vedeva solo tre componenti evitare il rosso e si avviava a segnare la peggiore performance giornaliera dal 2008, mentre il listino di Francoforte viene segnalato ormai pronto ad entrare tecnicamente in una fase “orso” (di prolungato ribasso delle quotazioni) dopo essere rimasto per mesi il migliore listino in Europa. Da parte sua Piazza Affari, che dopo un’apertura in calo del 4% aveva tentato in mattinata di ridurre le perdite attorno al 2,5%, torna a cadere e vede l’indice principale, Ftse Mib, perdere fino al 7,2% nel primo pomeriggio.

Dai massimi di aprile gli indici europei sono ormai distanti mediamente un 15%, con 13 dei 18 listini che hanno già perso oltre il 10% tra volumi che in questi ultimi giorni sono tornati a salire dopo una prime metà di agosto vissuto tra scambi rarefatti e per questo poco significativi. Accanto al calo delle borse prosegue anche il crollo delle quotazioni petrolifere: in questo caso non spaventa tanto la tenuta della domanda (che anzi, sia pure molto lentamente, continua a crescere a livello mondiale) quanto l’eccesso di offerta. Mentre l’Opec continua nel complesso a estrarre ben oltre il tetto fissato ufficialmente in 30 milioni di barili di petrolio al giorno, anche gli Stati Uniti hanno smesso di rallentare la produzione e sono tornati a riattivare, anche se solo marginalmente, impianti di trivellazione. Risultato: l’offerta di petrolio è abbondante come non mai e tale rimarrà per alcune settimane se non mesi, mentre le quotazioni dell’oro nero sono tornate a livelli che non si vedevano dalla crisi del 2008-2009, con il Wti texano a dollari al barile e il Brent del Mare del Nord a dollari.

Al di là dei titoli sensazionalistici di quotidiani e telegiornali, quali effetti potrà produrre questa violenta correzione al ribasso dei mercati e delle quotazioni delle materie prime anche per le famiglie italiane? In prima battuta l’effetto è certamente negativo, perché un calo delle quotazioni di borsa deprime il valore di azioni, fondi comuni e gestioni patrimoniali, riducendo la ricchezza di tutti coloro che erano esposti su tali mercati. Inoltre l’aumento dei timori degli investitori comporta un incremento del premio per il rischio e questo tende ad ampliare nuovamente lo spread tra Btp e Bund (che infatti è risalito attorno all’1,37% sulla scadenza decennale), il che significa quotazioni stabili o in calo anche per i titoli di stato italiani, cosa che se da una parte comporta un lieve rialzo del rendimento ottenibile da chi investe adesso in Bot o Btp, dall’altra comporta una perdita in conto capitale da parte di chi aveva già investito su tali titoli.

Eppure a ben vedere la situazione non è esclusivamente negativa: la bolla che si sta sgonfiando sui listini cinesi aveva fatto salire sostanzialmente senza motivo nel primo semestre dell’anno le quotazioni del 60% abbondante; il denaro mantenuto a costo zero dalle banche centrali occidentali continua a spingere gli investitori verso investimenti a rischio (forse anche più del necessario) ma rende anche più accessibile il debito a lungo termine (come i mutui per l'acquisto di un immobile); l’energia abbondante e a basso prezzo rende conveniente produrre anche se la domanda latita; le varie riforme varate persino in Italia hanno abbassato il costo di fattori come il lavoro e dovrebbero in futuro sostenere la l’offerta di lavoro. Sempre che, ovviamente, il Pil riparta. Questo resta il vero tasto dolente,

Tra l’andamento ciclico della politica monetaria americana (che non ha bisogno ormai di essere così espansiva come doveva essere cinque o sei anni fa), il graduale rallentamento della crescita dei mercati emergenti (per loro natura per di più molto sensibili agli afflussi e deflussi di capitali sui mercati finanziari), le politiche di austerity che l’Europa (su pressione tedesca) ha continuato a mantenere in essere, ottusamente, la crescita è scomparsa dai radar italiani e si è indebolita persino in altre aree di Eurolandia tradizionalmente solide come Francia e, in parte, Germania. Se come automobilisti (ma anche come imprenditori, viste le ricedute sui costi di trasporto in genere) non possiamo che essere contenti di rivedere la benzina a 1,581 (prezzo medio della benzina verde self service rilevato da IlSole24Ore il 24 agosto, ma con minimi di 1,539 in Emilia Romagna), come contribuenti possiamo e forse dobbiamo chiedere che senso abbia continuare a svenarci per rimanere virtuosamente ancorati a parametri pensati per un’economia europea che, unita nella moneta, resta divisa nella politica fiscale e pertanto non riesce a procedere unita neppure a livello propriamente economico.

C’è un ulteriore problema che dovrebbe stare a cuore alle famiglie italiane (e agli europei in genere) prima e più che l’andamento volatile delle quotazioni di azioni, titoli di stato e materie prime. Per realizzare l’unione politico-fiscale che renda l’Eurozona una confederazione di stati e consenta di superare il guado in cui ci troviamo da anni impantanati, con tutti i problemi che questo ha portato, occorrerebbe, storicamente (valgano gli esempi degli Usa e della Confederazione Elvetica), poter costituire una federazione tra stati di grandezza simile, economicamente e demograficamente parlando. Ma in Eurolandia, esclusa la Gran Bretagna, la sola Germania (con un’appendice politicamente debole ma mediaticamente strategica come la Francia) ha il potere di condizionare le scelte di tutta la politica economica continentale. Al momento l’effetto è in parte mitigato dall’attivismo della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi (non a caso costantemente sotto attacco da parte della stampa tedesca), ma se vogliamo realmente dare vita a un’ipotesi di “Stati Uniti Europei” questo non potrà più bastare.

Sarebbe il caso di riflettere ora come possiamo lavorare a un’ipotesi unitaria che è certamente meglio (sia storicamente sia razionalmente) di un “ritorno al passato”, con barriere, valuta nazionali, classi politiche autoreferenziali per paese e differenze linguistiche e culturali che tornerebbero ad allargarsi anziché ad affievolirsi, ma che potrebbe esigere un passaggio intermedio nel senso di un maggior federalismo all'interno dei singoli stati nazionali (la Baviera non saprebbe condizionare l'Europa quanto la Germania, la sola Scozia non potrebbe imporre gli stessi dictat della Gran Bretagna, la Lombardia non varrebbe l'Italia intera e così via), non sempre e non ovunque agevole da attuare. Non farlo significa vivere costantemente esposti a “esogene” come i mercati emergenti, il prezzo del petrolio, la tensione tra Russia e Occidente, lo scenario politico medio orientale e via discorrendo. Peccato che di questo si parli poco o nulla sui media mainstream italiani ed europei, pronti a seguire la corrente con titoli ad effetto ogni volta che un mercato mostra improvvisi cali o repentine risalite, senza mai cercare di capire i motivi alla base di tali movimenti e le eventuali politiche che possano stabilizzare sia i mercati finanziari sia, soprattutto, il sottostante scenario macroeconomico reale.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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