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Opinioni

I giovani rischiano di diventare più poveri dei loro genitori, specie in Italia

Un’analisi di McKinsey sulle 25 maggiori economie mondiali scopre che nell’ultimo decennio il numero di lavoratori che hanno visto il reddito stabile o in calo è schizzato al 65%-70%. Solo l’azione fiscale ha in parte limitato i danni in molti paesi, ma non in Italia dove proprio a causa del fisco il 100% dei lavoratori ha visto il proprio reddito calare o restare fermo…
A cura di Luca Spoldi
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Il futuro come una inarrestabile crescita? Dimenticatevelo, se non l’avete già fatto. Secondo un’analisi della società di ricerche McKinsey intitolata “Poorer than their parents. Flat or falling incomes in advanced economies” (Più poveri dei loro genitori. Redditi stabili o in calo nelle economie avanzate), nel decennio tra il 2005 e il 2014 una percentuale tra il 65% e il 70% dei capifamiglia delle principali 25 economie mondiali, ossia un totale tra 540 e 580 milioni di persone, hanno visto il loro reddito reale (salari e guadagni in conto capitale) mantenersi stabili o calare.

Nel decennio precedente, tra il 1993 e il 2005, meno del 2% dei capifamiglia (ossia meno di 10 milioni di persone) si era trovato in questa situazione. Solo il calo del prelievo fiscale o l’incremento di trasferimenti e sussidi statali è riuscito a mitigare almeno in parte il fenomeno, tanto che a livello di reddito disponibile (ossia reddito reale al netto del prelievo fiscale) “solo” tra il 20% e il 25% dei capifamiglia sempre delle 25 maggiori economie mondiali ha visto il suo reddito mantenersi stabile o calare (contro una percentuale comunque inferiore al 2% del decennio precedente).

Così, concludono gli esperti di McKinsey, la generazione dei più giovani ha oggi maggiori probabilità di diventare più povera di quanto non siano i propri genitori, rispetto al rischio che hanno corso questi ultimi: tra tutti i segmenti di popolazione che sono stati colpiti da questi anni di crisi (va ricordato che il decennio in questione è stato pesantemente influenzato dalla crisi economico-finanziaria mondiale apertasi nel 2008, rispetto alla quale il Pil di paesi come l’Italia ancora deve riuscire a recuperare il terreno perso) i più duramente colpiti sono stati quelli dei giovani lavoratori con una modesta educazione, in particolare in Francia, Italia e Stati Uniti.

Non è stata solo la crisi del 2008 a pesare, ma anche il generalizzato calo dei salari, legato alla maggiore competizione sul costo del lavoro innescata dalla globalizzazione, e le tendenze demografiche di lungo termine. In ogni caso se prima del 2008 la crescita del Pil contribuiva per il 18% alla crescita del reddito mediano dei lavoratori, oggi la crescita del Pil, o meglio quel che ne resta, contribuisce per solo il 4% alla crescita del reddito mediano. Come dire che la crescita, da sola, non basta più a garantire un maggior tenore di vita dei lavoratori, in particolare di quelli più giovani e meno istruiti.

Se anche le economie sviluppate tornassero a crescere almeno quanto la loro media storica, superando finalmente la fase di “decrescita infelice” in cui si sono cacciate in quest’ultimo decennio abbondante, almeno un 30%-40% dei lavoratori rischierebbe di non sperimentare alcun incremento di reddito per i prossimi 10 anni avvertono gli esperti, che puntano il dito sulla crescita dell’automazione di molti posti di lavoro, che altro non è che l’altra faccia della medaglia di non riuscire a creare nuovi posti di lavoro in settori meno maturi, naturalmente.

Se poi le economie sviluppate dovessero continuare a crescere ai bassi tassi registrati tra il 2005 e il 2012, tra il 70% e l’80% dei lavoratori vedrebbe il proprio reddito rimanere invariato o calare ulteriormente, il che suona come una condanna di un modello economico che da troppo tempo non riesce più a coniugare la distribuzione ottimale della ricchezza e delle opportunità di accedervi con l’accumulo di capitale. Questi i dati generali, ma guardando ai numeri per paese emerge come nel caso italiano a soffrire di un reddito reale piatto o in calo a fine 2014 rispetto al 2005 sia stato il 97% dei lavoratori, contro una media come detto tra il 65% e il 70% delle 25 principali economie mondiali e contro l’eccezione positiva della Svezia dove solo il 20% dei lavoratori ha sofferto la crisi.

Proprio la Svezia viene additata come esempio di una efficace azione di politica economica da McKinsey: qui, spiegano gli esperti, lo stato si è mosso per mantenere i posti di lavoro, così per la maggioranza della popolazione alla fine del decennio i redditi disponibili erano cresciuti; per contro in Italia, una volta incorporati gli effetti delle politiche fiscali e del welfare, il risultato peggiora, salendo dal già elevatissimo 97% all’astronomico 100%, vale a dire che nessun capofamiglia in Italia ha potuto veder salire il proprio reddito disponibile.

Se qualcuno avesse avuto un dubbio sull’interpretare il dato di cui si discute in questi giorni, quella crescita zero nel secondo trimestre dell’anno che schianta ancora una volta le previsioni di un +0,2%, è servito: non si tratta, come si affannano a chiosare politici e commentatori italiani, dell’effetto-Brexit (che non ha avuto modo di verificarsi, visto che il referendum inglese si è tenuto il 23 giugno, solo 7 giorni prima della chiusura del trimestre), bensì dell’ennesima dimostrazione di come l’economia italiana sia strutturalmente debole, a causa di mancate riforme strutturali a partire da quelle che avrebbero dovuto, e non l’hanno mai fatto, ridurre il cuneo fiscale, favorire gli investimenti e, in ultimo, sostenere i consumi.

Riforme che si attendono da almeno 15 anni e che anche il governo Renzi in questi ultimi 2 anni non ha trovato il modo neppure di mettere in cantiere, preferendo agire sulle politiche del lavoro e attraverso fumosi e poco consistenti “bonus” che poco o nulla hanno spostato sia in termini di investimenti sia di consumi. Errare è umano, perseverare, quando tutte le analisi indicano come e dove si sarebbe dovuto agire, è diabolico, con costi che si ripercuotono sull’intero corpo sociale. Sarebbe ora di prenderne atto ed evitare, al prossimo cambio di inquilino di Palazzo Chigi, di perseverare nell’errore, cancellando ogni residua speranza di evitare alla nostra e alle future generazioni un futuro più povero di un presente già poco confortevole.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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