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Opinioni

Francia, Germania, Cina: sempre più concorrenti stranieri fanno shopping in Italia

Germania e Francia fanno a gara, con la Cina sempre più nel ruolo di terzo incomodo, nell’acquisto di pezzi pregiati del “made in Italy”. E’ ancora possibile favorire una rinascita dello spirito imprenditoriale italiano?
A cura di Luca Spoldi
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Italia terra di conquista? Che il “made in Italy” continui a piacere agli investitori stranieri non è una novità, che chi nel Bel Paese può godere di una rendita trovi sgradevole l’idea di dover sborsare dei soldi per difenderne il controllo neppure, specie se, come insegna il caso Mediaset, si può cercare la sponda del “palazzo” della politica per evitare di finire messi ai margini delle proprie aziende a causa di errori strategici e scarse disponibilità economiche.

Quel che è certo è che tra la Germania e la Francia, i due “pesi massimi dell’Unione europea, è da tempo in atto una sorta di corsa all’ultimo acquisto tricolore. Parlano da tempo tedesco Ducati, MV Agusta, Finanza & Futuro, Ras, Happy Fit, Clay Paky, Italcementi, e decine di piccole e medie imprese, che in questi anni di crisi di domanda hanno finito col divenire preda ideale di concorrenti tedeschi di maggiori dimensioni, attratti dalla possibilità di investire in innovazioni e know how relativamente a basso costo.

Più “vistose” le acquisizioni messe a segno in questi anni da gruppi francesi: da Edison a Galbani, da Eridania a Bulgari, e poi Bottega Veneta, Pomellato, Loro Piana, Bnl, CariParma, Pioneer Asset Management piuttosto che Parmalat, su cui in questi giorni Lactalis, già proprietaria dell’87,74% al termine di un’Opa lanciata a 2,6 euro per azione, ha deciso di lanciare un’Opa sul restante 12,26% non ancora posseduto a 2,8 euro per azione. Contando anche le mosse di Vivendi in Telecom Italia prima e Mediaset poi, fanno capo a investitori francesi oltre 35 miliardi di euro di partecipazioni azionarie a Piazza Affari.

All’orizzonte, poi, si sta già profilando un “terzo incomodo” e non si tratta degli Stati Uniti o della Russia (entrambi peraltro molto attivi in questi anni con nomi come Avio, Sorin, Wind o Isab, solo per citarne i più noti, finiti in mano all’uno o all’altro contendente), ma della Cina che già col “colpo” su Pirelli, passato sotto il controllo di ChemChina a inizio anno, aveva fatto capire di non voler più recitare un ruolo di comprimario, ma da protagonista. Previsione puntualmente rispettata col passaggio sotto controllo cinese non tanto e non solo di squadre di calcio come Inter e Milan, quanto con quello, recentissimo, di Buccellati al gruppo Gangtai.

Lo storico marchio di gioielleria era già passato per il 67% (il 33% era rimasto in mano alla famiglia fondatrice) sotto il controllo del fondo di private equity Clessidra, fondato da Claudio Sposito (scomparso quest’anno). Il passaggio del controllo della stessa Clessidra al gruppo Pesenti (nel frattempo liberatosi di Italcementi, finito lo scorso luglio ai tedeschi di HeidelbergCement dietro pagamento agli stessi Pesenti di 1,666 miliardi di euro per la partecipazione di controllo del 45%) ha poi rimesso Buccellati sul mercato, con l’offerta cinese da 230 milioni per l’85% del marchio del lusso italiano, sulla base di una valutazione più che doppia di quella riconosciuta nel 2013 da Sposito agli stessi Buccellati.

A congiurare contro la possibilità che marchi storici del “made in Italy restino di proprietà di imprenditori italiani, oltre alla scarsità di capitali che ha sempre contraddistinto, almeno in termini relativi, questi ultimi rispetto ai loro concorrenti esteri è anche la difficoltà nell’affrontare il passaggio generazionale (basterebbe pensare a casi di disaccordi familiari clamorosi come quelli di Gucci piuttosto che dello stesso gruppo Caprotti-Esselunga).

L’Italia, schiacciata dal peso di un sistema fiscale opprimente e oppressivo, danneggiata dall’inefficienza di un sistema creditizio dove, si scopre, la maggior parte delle posizioni a rischio sono legate ai soliti, pochi, “grandi nomi”, sempre più incapace di rinnovarsi anche per motivi demografici, rischia così di diventare solo più un mercato in cui i gruppi più dotati di mezzi e di capacità di reinventarsi il business potranno venire a fare shopping. Non c’è da scandalizzarsi se poi anche finanzieri come Vincent Bolloré non si fanno sfuggire l’occasione ogni volta questa si presenta.

Semmai occorrerebbe chiedersi se sia ancora possibile cercare di favorire una rinascita dello spirito imprenditoriale italiano. Ma se non cambierà la classe dirigente (politica, industriale e finanziaria) del paese, se i vecchi rentier non accetteranno di fare un passo indietro e lasciare le leve del comando a nuovi imprenditori (non necessariamente solo i rispettivi rampolli), se l’Italia che è da anni vessata continuamente dall’Italia che non vuol cedere potere non riuscirà  a scrollarsi di dosso questa sovrastruttura improduttiva, sarà veramente difficile sperare che qualcosa possa cambiare in meglio.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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