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Dopo Ubi – Intesa è il turno di Montepaschi? Ecco le altre banche pronte a passare di mano

Dopo il matrimonio a sorpresa tra Intesa San Paolo e Ubi Banca, il risiko delle banche potrebbe non fermarsi: nel mirino, quegli istituti usciti con le ossa rotte dalla crisi, da Monte dei Paschi di Siena alla Banca Popolare dell’Emilia – Romagna. Un indizio? Le norme fiscali recentemente approvate dal governo: che spingono le piccole banche nella pancia dei grandi colossi.
A cura di Barbara D'Amico
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La clamorosa mossa con cui Intesa Sanpaolo ha annunciato nella notte tra il 17 eil 18 febbraio 2020 la volontà di acquisire Ubi Banca segna un punto di non ritorno nella gestione delle fragilità bancarie italiane. E dice qualcosa di più sul fatto che istituti anche non in ottima salute, ma in fase di ristrutturazione possano entrare presto nel mirino di player più grandi proprio perché l'unico modo di gestire le sofferenze e le perdite è quello di unire le forze (e ridurre contestualmente i costi).

Potrebbe essere questo il caso di Mps, ora in mano statale ma dallo Stato pur sempre non dipendente all'infinito. Proprio nel caso della senese il distacco dal sostegno nazionale è già in atto. È infatti a questa conclusione che si giunge leggendo i dati di bilancio comunicati il 7 febbraio dal Monte dei Paschi di Siena che per il 2019 certifica – senza sorpresa, avendo reso noto quel numero all’inizio di gennaio – una perdita di 1,033 miliardi di euro. Perdita causata, stavolta, non da una gestione maldestra, ma da un effetto collaterale nell’applicazione delle nuove regole fiscali per il sistema bancario e assicurativo sulle cosiddette deferred tax asset o attività fiscali differite. Le stesse che consentivano, fino allo scorso anno, di ottenere crediti di imposta sulle attività per la gestione delle sofferenze bancarie e modificate dal governo nell’ultima legge di bilancio con conseguenze che non riguardano solo l’istituto senese.

Lo spettro delle sofferenze

Al di là del caso specifico, infatti, quello dei prestiti non performanti resta ancora oggi il grande tallone d’Achille degli istituti finanziari, non solo italiani. Come spiegava in una nota del 2015 l’ABI, una delle principali difficoltà per i nostri istituti (durante e dopo la crisi ndr), è stato gestire il pagamento anticipato delle tasse sulle perdite derivanti da crediti e prestiti ormai irrecuperabili. Difficoltà che aveva portato all’adozione di regole per posticipare, differire, legalmente quelle stesse partite attraverso uno speciale regime sulle cosiddette attività fiscali differite, o Dta.

Dal 2010 infatti è stato possibile per le banche tramutare le attività differite in crediti di imposta (in caso di perdite fiscali), deducendo fiscalmente parte delle attività e compensando così le perdite causate dalla svalutazione degli npl.
Ma lo scorso dicembre, quando il governo è in affanno e deve reperire le coperture finanziarie necessarie per licenziare la legge di bilancio, il meccanismo subisce consistenti modifiche. La più importante riguarda proprio la retromarcia sulle deduzioni, con una riduzione drastica delle condizioni per applicare i crediti imposta e il risultato di far emergere perdite teoricamente “digeribili” in un arco di tempo più lungo.

Nel caso dell’istituto senese, infatti, il segno meno non dovrebbe incidere sul percorso di risanamento (l’utile operativo è in crescita del 3,3% rispetto all’anno precedente e in generale i parametri di bilancio sono sotto controllo) ma rallenta il processo di riordino dei conti, quantomeno a livello figurativo, dopo il buco di oltre 4,7 miliardi registrato nel 2011  e che portò allo scorporo dell’istituto. Mps è anche il simbolo di un paradosso: lo stato, che ha nazionalizzato la banca per salvarla, è lo stesso che per non far saltare i propri conti adesso riduce i benefici fiscali su cui si reggevano gli equilibri contabili del sistema bancario. E crea le condizioni per rendere indispensabili concentrazioni, accorpamenti e fusioni.

Il gioco delle imposte anticipate nel crac Pop Bari

Lo strumento delle dta compare infatti tra le misure elaborate dalla Lega per il salvataggio della Popolare di Bari già a maggio 2019 (la banca finirà poi commissariata il 13 dicembre 2019). Una delle ricette messe sul piatto dal ministero dell’Economia, in quel momento guidato da Giovanni Tria, insieme al partito di maggioranza consisteva infatti nel premiare le aggregazioni bancarie realizzate entro il 2020, trasformando in crediti di imposta le attività fiscali differite purché l’attivo di bilancio totale del gruppo bancario neonato non superasse i 30 miliardi di euro. Ma ancor prima che la situazione di Pop Bari precipitasse, e proprio durante i mesi concitati che precedono l'acquisizione di Banca Tercas tra il 20143 e il 2014, le dta sono protagoniste di falsificazioni contabili che hanno un unico scopo: dimostrare a Banca d'Italia e agli azionisti che proprio grazie ai benefici fiscali e ai crediti di imposta, la fusione non solo è possibile ma è una cosa positiva per l'istituto.

Lo chiariscono gli stessi inquirenti nella misura cautelare notificata ad alcuni dei vertici di Bpb il 31 gennaio 2020. "Sulla base delle informazioni in nostro possesso – si legge nel provvedimento –  comprendiamo che il gruppo TERCAS contabilizza al 30 giugno 2013 crediti per imposte anticipate per complessivi € 180m di cui buona parte (€ 157m) potenzialmente trasformabili in credito di imposta", ma come rileveranno poi gli stessi magistrati, si tratta di dati falsi perché Tercas non vanta quei crediti e tantomeno può trasferirli a Bari.

Le conseguenze per le banche italiane

Questo scenario è comunque utile per capire il tipo di partita giocata ancora oggi attorno ai benefici fiscali e il loro peso sui bilanci bancari. Come già anticipato (qui l'inchiesta di Fanpage.it) BpB non farà in tempo a beneficiare delle regole favorevoli. Ma per chi nel frattempo si è fuso o aggregato, e contava proprio sulle vecchie norme per partire con una ristrutturazione dei conti, gli effetti potrebbero essere pesanti. Nel 2019, ad esempio, BPER ha acquistato Unipol Banca, e dalla fusione (qui la delibera del 25 novembre 2019) è nato un unico gruppo che però in pancia ha ora attività sui crediti deteriorati per cui non può spendere i benefici fiscali. E proprio a BPER dovrebbero arrivare adesso tra le 400-500 filiali dall'acquisizione Intesa-Unipol, in un gioco di aggregati che forse premierà il contenimento dei costi ma andrà anche a scapito della forza lavoro.

L’effetto collaterale delle nuove regole sulle dta è infatti l'emersione di flussi di Npl o prestiti non performanti nei bilanci bancari, soprattutto se ceduti o svalutati, con conseguenze che andranno analizzate caso per caso e che, si spera, lo stato abbia tenuto in debita considerazione nel rapporto costi/benefici. Per il caso Intesa-Ubi Banca del resto si ammette chiaramente che la concentrazione permetterebbe di gestire internamente e con minor costi la partita delle sofferenze in pancia agli istituti.  Resta però una domanda:  se la battaglia delle risorse pubbliche e del contenimento dei costi a carico del sistema bancario passa per le regole fiscali, perché non trovare un accordo proprio tra banche e stato almeno sulle tasse?  Stato che è particolarmente efficace nella contrattazione degli accordi per il pagamento di arretrati fiscali,  si tratti di elusione o di vera e propri evasione. Nel 2019 l’Agenzia delle Entrate è riuscita a ottenere 1,2 miliardi di euro – la stessa cifra svalutata in pancia a Mps – dal gruppo Kering (Gucci), e somme per centinaia di milioni di euro sono state puntualmente contrattate con colossi come Google, Amazon, Apple. Persino con banca Mediolanum (79 milioni di euro). Gli strumenti per far quadrare i conti, dunque, non si riducono al taglio lineare dei benefici fiscali. Ma è chiaro che il costo di un dissesto pagato indirettamente dai contribuenti deve essere risultato più pesante di quello sopportabile da una banca. Almeno, fino a prova contraria.

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