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Sotto il teatro romano di Sibari scoperti due templi arcaici e una domus con i resti di un grosso pesce decapitato

Gli ultimi ritrovamenti in Calabria nel cosiddetto Parco del Cavallo gettano nuova luce sulla storia della Sibaritide e dell’intera Magna Grecia.
A cura di Claudia Procentese
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Teatro romano di Sibari
Teatro romano di Sibari

L’ultima campagna scavo a Sibari nel cuore della Calabria magnogreca, conclusasi appena quindici giorni fa, ha rivelato una sequenza stratigrafica complessa ed inattesa nell’area dell’emiciclo-teatro dell’antica Copia Thurii. Perché quando parliamo di Sibari lo sguardo va a tutta la vasta area archeologica di Sybaris-Thurii-Copiae, città sovrapposte i cui confini, però, si incrociano e confondono lasciando visibili le tracce della loro reciproca influenza. Le nuove indagini sono state condotte in profondità nel cosiddetto Parco del Cavallo, per meglio dire l’area centrale aperta al pubblico che deve il suo nome alla scoperta delle zampe e della coda di un cavallo in bronzo. I moderni mezzi della ricerca sul campo hanno consentito di ripercorrere oltre cinque secoli di storia: dalle tracce di un esteso complesso architettonico attribuibile alla fase arcaica di Sybaris, fino al teatro di età romana, passando per la fase urbana di Thurii.

Le scoperte offrono altresì un contributo aggiornato al dibattito sulla localizzazione e sull’evoluzione delle antiche città della Magna Grecia, diventando una risposta, fondata su una rigorosa metodologia archeologica, alla domanda "Scusi, da che parte per Sibari e Thurii?" che ha colorito le recenti cronache locali. Ma archeologia non significa solo scavo. Quello nel Parco archeologico di Sibari è affiancato ad un capillare lavoro di sistemazione dei depositi archeologici, nei quali si sta procedendo, grazie ai fondi PNRR, alla digitalizzazione sistematica di quasi ventiduemila cassette di reperti accumulatesi nel corso di oltre cinquant’anni di scavi. Materiali in larga parte mai pubblicati, a volte mai nemmeno lavati e puliti, e completamente ignoti non solo al pubblico, ma anche alla comunità scientifica.

Al momento sono al lavoro, tra depositi e scavi, undici archeologi, coordinati dal professore Michele Silani e dalla professoressa Giuseppina Renda dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli e diretti dal professore Carlo Rescigno, della Scuola Superiore Meridionale, e dal direttore dei Parchi archeologici di Sibari e Crotone, Filippo Demma. Le collaborazioni includono anche la Fondazione Scuola del Patrimonio, la Scuola IMT di Lucca, le università europee di Bochum e Berna, l’Accademia Danese a Roma, l’università americana di Princeton e quella canadese Mount Alison University.

Saranno resi noti domani i risultati preliminari di quest’ultima missione archeologica in terra calabra, presentati dagli archeologi Raffaele Palma e Marco Pallonetti, responsabili delle attività di scavo e documentazione. A Fanpage.it è lo stesso Demma a parlarne in esclusiva.

Direttore Demma, domani verranno presentati i risultati dell’ultima campagna scavo appena conclusa nell’emiciclo-teatro di Parco del Cavallo a Sibari, ci vuole anticipare quali sono le novità?

Il saggio, chiuso due settimane fa, ha rivelato una stratigrafia sorprendente. Nella parte inferiore delle fondazioni del muro esterno del teatro sono apparsi numerosi blocchi interi e non scalpellati, che appartengono ad almeno quattro diversi fregi di ordine sia dorico che ionico, attribuiti ad almeno due edifici diversi.

Quindi si tratta di un reimpiego?

Sì, il muro, in cui i grossi blocchi sono stati riutilizzati, fu realizzato in piena età romana ma tagliando il selciato di una strada precedente, ovvero di uno “stenopòs”, una stretta via laterale, realizzato in età classica e più volte ripavimentato fino alla fine del III secolo a.C., quindi chiaramente attribuibile alla fase della colonia panellenica di Thurii, successiva alla “polis” di Sibari.

In che senso edifici diversi?

Due, ma potrebbero essere anche quattro, costruiti intorno alla metà del VI secolo a. C. e distrutti a causa di un incendio.

Che funzione avevano?

Sono almeno due edifici monumentali, forse due templi, uno dorico e l’altro ionico, che in epoca arcaica si trovavano nell’area più tardi occupata dal teatro: un importante complesso architettonico che ha fatto pensare all’agorà della città greca. Alcuni elementi conservano bellissime tracce di colore blu e rosso, mentre altri tre, dallo stesso complesso, rinvenuti nel secolo scorso ed oggi al museo, portano evidenti segni di bruciato, verosimilmente dovuti ad una distruzione violenta.

Dunque, dopo più di cinque secoli i resti di questi edifici sono stati riutilizzati dai Romani nelle murature del teatro?

Sì, ma abbiamo scoperto anche altro.

Cosa?

Lungo lo “stenopòs” precedente, tagliato per poter costruire il teatro, è venuto alla luce un ambiente, forse parte di una estesa “domus”, le cui tracce sono leggibili in più punti al di sotto del monumento e riferibili alla fase repubblicana dell’antica Copia. La vita di questa casa si sviluppa nel corso del II secolo a.C., fino all’abbandono, forse per un evento traumatico, alla fine del I secolo a.C. Nell’ambiente adiacente alla strada sono stati rinvenuti numerose conchiglie, frutti di mare se vogliamo, e la lisca di un grosso pesce, un tonno o una ricciola, con le vertebre ancora in connessione, ma privato di netto della testa, che non si è ritrovata.

Avanzi di cibo?

Né il pesce né le conchiglie mostrano tracce di impiego alimentare, come la sfilettatura o la cottura. Possiamo forse pensare ad una dispensa, o ad una cucina, frettolosamente abbandonata lasciando intatte le provviste, ma ci dobbiamo ancora lavorare.

Cosa è successo dopo?

L’inizio dell’età imperiale vede su questo sito prima la rasatura di tutte le strutture di epoca precedente e poi, per l’appunto, lo scavo per le fondazioni del teatro. Queste ultime devono aver intercettato gli edifici arcaici già parzialmente distrutti e, perciò, spogliati per essere usati come materiale da costruzione. I blocchi reimpiegati nella sezione della struttura che poi sarebbe stata interrata, vennero lasciati integri, e così li abbiamo trovati. Invece i blocchi reimpiegati nell’elevato del muro furono scalpellati e lisciati. Inoltre, i frammenti decorativi tagliati via, furono in parte riadoperati per dare vita ad un’altra inattesa e straordinaria evidenza.

Quale?

Questi pezzi di decorazione, ridotti a schegge, sono stati mischiati a sabbia e terra argillosa per creare un livello di battuto che fu in pratica la pavimentazione del cantiere per la costruzione del teatro. E su questo regolarissimo piano abbiamo trovato molti reperti che ci consentono di ricostruire la vita stessa del cantiere e dei suoi operai.

Sta parlando di oggetti?

Sì, dalla piccola fornacella in cotto utilizzata forse per rifare il filo agli strumenti da taglio, alle buche di palo per l’alloggio delle impalcature. Non mancano alcune monete, evidentemente perse dagli operai. Ci troviamo di fronte ad un compendio di informazioni tecniche e socioeconomiche che, una volta studiate, ci aiuteranno a capire meglio il monumento, non ancora approfonditamente pubblicato, e la vita di chi lo ha costruito.

Resti di pesci nel Parco Archeologico di Sibari
Resti di pesci nel Parco Archeologico di Sibari

Per sintetizzare, alla luce dei nuovi dati, qual è l’importanza di questi ritrovamenti? Cosa aggiungono alla storia di Sibari?

Le ricerche attuali hanno rintracciato una serie di edifici mai conosciuti finora, dando consistenza monumentale all’antica Sibari che prima era attestata quasi esclusivamente da reperti mobili. Per la prima volta abbiamo sequenze complete che ci consentono di leggere materialmente la sovrapposizione delle strutture delle tre città di Sibari, poi di Thurii e infine di Copia, datando ciascuna di esse con la certezza di uno scavo stratigrafico condotto con metodologia scientifica. L’esame degli elementi reimpiegati nel teatro ci fornirà le informazioni sugli edifici monumentali che esistevano al di sotto di esso. Capiremo di più sulla vita dei primi coloni latini che arrivarono a Copia nel II secolo a.C. e del loro rapporto con la “polis” di Thurii che li accolse e che essi trasformarono dal punto di vista urbanistico e politico.

Dal piccolo dettaglio si ricostruisce la grande storia?

È il senso dell’archeologia. Che però va sostenuta. Da tre anni a questa parte, i Parchi archeologici di Crotone e Sibari stanno beneficiando dei fondi che la Direzione Generale Musei ha previsto per la ripresa delle ricerche nei Parchi archeologici statali, mediante i quali il professor Massimo Osanna, direttore generale, ha inteso supportare la progettualità che l’Istituto autonomo del Mic diretto da Alessandro Giuli ha messo in campo fin dal mio insediamento. Dai particolari del recente scavo nel Parco del Cavallo sapremo maggiormente sull’alimentazione di chi abitò questi luoghi nell’antichità, in cui il pescato aveva probabilmente una sua importanza, sul loro modo di organizzare un cantiere e di costruire, sulle fasi del teatro e su come le sue trasformazioni nel corso dei secoli hanno influenzato il vivere di comunità. Ma vorrei sottolineare che per nuovi scavi vanno intesi anche quelli del 2023, completamente ignoti al grande pubblico e in via di pubblicazione.

Ci può spiegare meglio?

Nell’autunno di due anni fa abbiamo rintracciato le fondazioni di un poderoso edificio arcaico sotto la “plateia” A, ovvero una delle strade greche in senso nord-sud. Si tratta con ogni evidenza di un tempio, databile certamente alla prima metà del VI secolo a.C., forse già entro il primo quarto, di dimensioni decisamente superiori rispetto al più antico Athenaion di Poseidonia-Paestum, che costituisce il confronto migliore, e molto simile anche alle strutture sacre attestate nella fase più antica dell’agorà di Metaponto, tutti edifici di poco più tardi e che sembrano aver preso quello sibarita a modello.

Cosa significa questo?

Era un tempio arcaico decisamente imponente per l’epoca in cui fu costruito. Lo studio dei suoi materiali architettonici permetterà di ricostruirne integralmente la facciata posteriore nel nuovo museo del Parco archeologico di Sibari.

Come si è arrivati a questa scoperta?

Una decina di anni fa i lavori per l’installazione delle cosiddette trincee drenanti, diretti da Alessandro D’Alessio, finalizzati a liberare il sito dall’acqua di risalita, hanno recuperato quel che sembrava uno scarico di terrecotte architettoniche che il professore Carlo Rescigno ha studiato, ricomponendo parte del tetto di un edificio. Gli scavi del 2023 hanno ampliato la prospettiva, grazie all’ausilio di due idrovore supplementari. Sono stati condotti su una superficie molto più ampia e, in profondità, fino alla base del deposito. Si è rinvenuto così tutto il resto dello stesso deposito, scavato “all’asciutto”, mettendo stavolta in luce una stratigrafia spettacolare.

In che senso?

Partendo dal basso, è venuta fuori la fondazione dell’edificio, in grossi blocchi di calcare. Quindi, adesso siamo sicuri che le terrecotte recuperate nel 2014 fossero un crollo e non un cumulo di materiali prelevati da qualche altra parte e scaricati lì. I materiali datanti, rinvenuti nelle fosse di fondazione, collocano la costruzione dell’edificio verosimilmente nel primo quarto del VI secolo a.C. Le dimensioni ricostruibili parlano di una struttura larga quasi 9 metri, forse il più grande dei templi arcaici finora attestati nelle colonie achee per questo livello cronologico.

Un monumento grandioso.

Sì. Basti pensare che il già citato e più antico Athenaion di Poseidonia-Paestum, le cui terrecotte sono assolutamente simili a quelle sibarite, non arriva a 6.5 metri di larghezza, mentre edifici di cronologia comparabile a Metaponto e Francavilla marittima a stento superano i 7 metri. Il tetto di questa struttura è direttamente collegato, per tipologia e decorazione, a quelli dei “thesauroi” (edifici destinati ad ospitare le offerte alla divinità ndr) rinvenuti a Olimpia e Delfi ed attribuiti appunto a dediche di Sibari nei grandi santuari della madrepatria. Ma c’è di più.

Cosa?

Lo scavo ha consentito di identificare anche i livelli di distruzione dell’edificio, stratigraficamente collocati entro la fine del VI secolo, pienamente in linea con la cronologia tradizionale per la distruzione della città, che gli storici pongono al 510 a.C. Al contempo, i materiali residuali, recuperati nei livelli di abbandono e crollo, ci parlano di un santuario attivo almeno nel VII secolo, presso il quale aveva luogo anche la produzione di oggetti in ceramica.

Resti trovati nel Parco Archeologico di Sibari
Resti trovati nel Parco Archeologico di Sibari

Insomma, un significativo spaccato stratigrafico che, attraverso la filigrana delle tracce materiali, ci racconta l’intera storia del sito.

Messa in serie con ciò che, archeologicamente, si sa dell’antica Sibari, questa scoperta è illuminante. E apre la strada ad altre ipotesi. Infatti, i materiali recuperati in alcuni pozzetti drenanti, realizzati nel 2014 per tentare di risolvere il problema dell’innalzamento della falda acquifera dovuto alla subsidenza, consentono di supporre la presenza di un quarto edificio sacro, sempre sotto la “plateia”, un po’ più a nord di questo. Si tratta di contesti ancora inediti, che stiamo studiando proprio in queste settimane nell’ambito di un altro progetto di ricerca finanziato con i fondi PNRR.

Ma cosa si sapeva finora di questi templi di Sibari?

Già l’archeologo Umberto Zanotti Bianco negli anni Trenta del secolo scorso e poi i colleghi Paola Zancani Montuoro e Dieter Mertens all’inizio degli anni Settanta avevano notato, tra i materiali dei pochi saggi in profondità praticati nell’area del teatro romano, la presenza di frammenti scultorei e di modanature pertinenti alla decorazione di diversi edifici in calcare, collocabili alla metà del VI secolo a.C.

Che tipo di decorazione?

Ho già accennato che nella parte bassa delle murature del teatro numerosi sono i blocchi di calcare rilavorati e reimpiegati. Ebbene, alcuni di questi portano tracce di bassorilievi. Come si accennava, tre grossi blocchi, parzialmente scalpellati e con una decorazione che riproduce una processione di figure femminili, furono recuperati ed esposti in museo. Dagli strati più profondi provenivano invece statuette votive e ceramica miniaturistica, la stessa ritrovata anche oggi, a confermare l’idea che siamo nell’area di un antico santuario sibarita.

A proposito del fenomeno della subsidenza, a che punto è l’abbassamento lento e graduale del suolo?

Il sito è tenuto all’asciutto da un imponente sistema di wellpoint: dieci grosse pompe idrovore attive h24 che mantengono le acque di falda al di sotto del livello di guardia e senza le quali le strade della città romana sarebbero sommerse per almeno un metro. Situazione idrogeologica che ha guadagnato al sito il fantasioso appellativo di Atlantide della Magna Grecia, un tocco di colore naif, che ovviamente non ha alcuna base storica, ma che alla fine non guasta.

Un’ultima domanda. Qualche studioso mette in dubbio la localizzazione di Sybaris, ritenendo che l’antica città non possa essere racchiusa nei soli cinque ettari del Parco del Cavallo, lei da archeologo cosa ne pensa?

Davvero non so a cosa corrisponda questa smania di ricollocare le antiche città di Sybaris e Thurii lontano dal posto in cui sono state rinvenute. Forse campanilismo, forse l’idea che il proprio paese sia più importante se ospita i resti della città che se invece conserva quelli della necropoli o di una villa romana. Una mentalità un po’ grossier e totalmente aliena dallo spirito storico della Sibaritide, che è sempre stata una terra in cui i coloni antichi hanno occupato tutto lo spazio disponibile e si sono sentiti parte di un’unica realtà politica, che abitassero al centro cittadino o in una fattoria di campagna. Anche Thurii è stata oggetto di diversi spostamenti, tutti privi di qualunque fondamento scientifico, dal momento che non solo i nostri scavi, ma già quelli dei primi anni Duemila, avevano trovato consistenti tracce dell’insediamento di età classica. Vuole qualche esempio?

Certo, ci dica.

Una missione greca, guidata dal professore Michalis Petropoulos, ha scavato e pubblicato un tratto delle mura tardo-classiche della polis di Thurii, individuandone chiaramente le torri, nell’area di Casabianca; il prof. Emanuele Greco ha scavato e pubblicato strutture sacre collocabili in piena fase turina; la stessa porta nord di Copia è in parte fondata sul selciato del più antico impianto urbano di Turi. Ma lo “studio” degli appassionati locali è spesso selettivo e legge quello che vuole leggere, scegliendo le cose che tornano con le proprie teorie.

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