Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Piazza San Marco di Annalisa e Marco Mengoni

“Bella, ma non ci vivrei” si dice di Venezia. Ma anche un pezzo importante della musica pop, di questi tempi, sembra vivere nello stesso paradosso: formalmente ineccepibile, interpretato con stile, ancorato alla tradizione, forse un po’ leggero di contenuti perché “nessuno ha più tempo”. E Piazza San Marco di Annalisa e Marco Mengoni ha le forze e le debolezze di questo stesso proverbiale paradosso. Il brano porta la firma dei due artisti oltre a quelle di Davide Simonetta (anche produttore con il moniker d.whale) e Alessandro Raina, sodalizio che ha già contribuito a un discreto numero di hit della popstar ligure. In particolare, si può provare a tirare una linea che da Ragazza sola arriva fino al centro della laguna.
Entrambi i brani abbassano il numero di battiti per minuto e provano a farci apprezzare alcune doti della cantante che i beat più danzerecci potrebbero mettere in secondo piano: nel singolo di due anni fa il terzetto creativo costruiva un’illusione temporale che faceva risaltare la scansione millimetrica e l’enunciazione cristallina di Annalisa; oggi, invece, ci invitano ad ammirare le qualità timbriche del suo registro, così più espressivo nelle zone basse del pentagramma.
Qui e là esperti di canto attribuiscono alla cantante un range vocale da mezzo soprano, e non ho nessuna qualifica per andare contro il giudizio di questi vocal coach, perché è vero che dentro quei panni Annalisa esprime una chiarezza e una potenza innegabili. Ma quando visita le note più basse della sua estensione, anche a costo di lasciarsi scappare qualche imperfezione, lì si sente tutta l’umanità di un’interprete troppe volte ingiustamente accusata di essere “fredda” – accusa a cui è non casualmente affezionata la parte più maschilista della critica musicale italiana. Paradossalmente non c’è nulla di “freddo” nel modo in cui dalla gola di Annalisa sono spremute fuori le parole “freddo veramente”, nel principio del brano: dal primissimo verso, insomma, siamo esposti a un canto elegante ma vulnerabile, come se qualcosa fosse leggermente fuori posto. Ma è una messinscena, come tutto nella musica pop, perché la protagonista non è forse mai stata più in controllo delle proprie capacità. E per questo, dobbiamo dare un’occhiata alle tre sezioni che compongono la melodia della strofa.
Prima di tutto assistiamo a una discesa quasi completa lungo la scala di Mi maggiore (la tonalità del brano), che la fa atterrare su un Fa# sotto il Do centrale, dalle parti più sotterranee del suo registro (più contralto che mezzo soprano), suona appropriatamente sforzata per suggerire un’aria di fatica estenuante, quella provata dalla voce narrante flagellata dal vento. Quindi, risaliamo a galla con un’ascesa sulla scala pentatonica maggiore di Mi (“Ma dove finisce”), quella versione concentrata e per questo potentissima della scala di cui abbiamo parlato già altrove. Nella sua quadrata solidità, però, questa scala lascia aperte possibilità infinite di sviluppo, risultando paradossalmente sospesa nel vuoto, ed è questo l’effetto che proviamo quando ritorna per cantarci (giustamente) “quello che non finisce”: come se la protagonista avesse un moto di orgoglio e consapevolezza che non può sfociare da nessuna parte.
Infine, la strofa si chiude con una coda, che risulta particolarmente efficace nella reiterazione e sbatte la porta sulle insinuazioni e i dubbi della voce narrante: "Ti ho visto salutare una ragazza bionda". Con un salto preciso di 10 semitoni ("-zza bion-") la protagonista rifila un colpo all’interlocutore, sì, ma posandosi sulle armonie agrodolci di un accordo in minore, lasciandoci in attesa di una risoluzione che – il nostro orecchio ce l’ha già fatto capire – sarà solo apparente. Nel repertorio armonico del brano, infatti, dominano gli accordi di settima maggiore, quell’estratto di malinconia sul quale ci siamo dilungati già in passato: ogni cosa è offuscata da una tinta fumé di spleen, forse siamo nella stessa Venezia insalubre del racconto di Thomas Mann.
Tutto molto bello, forse troppo. Nell’economia di questa spiegazione, infatti, abbiamo saltato alcuni particolari. L’accompagnamento della strofa, un pianoforte ultra riverberato, talmente lontano dalla materia originale da confondersi con i colpi sintetici (facci caso su “chi vuol capire CAPISCE”) al punto da finire per sembrare un gong liquefatto. Elegante e appropriato, sì, ma molto prevedibile. Anche la voce di Annalisa è rivestita di riverbero, in modo forse troppo opulento: la voce narrante sta soffrendo internamente, forse, ma a difenderla dal vento freddo ci sono strati di pelliccia pregiata. Insomma, nella stessa città dove i multimiliardari vanno a sposarsi, “anche i ricchi piangono”, e noi poveretti che in Piazza San Marco andiamo a scattarci selfie imbarazzanti possiamo solo sognare. Ma c’è davvero da sognare?

Il pre-ritornello, forse consapevole di così tanto velluto e seta, prova ad abbassare il tono: "mollami", "acqua tonica", "a-a-a cercasi". Le parole della protagonista, d’un tratto, hanno preso il vaporetto per Mestre, facendosi più quotidiane e popolari. Anche l’ingresso di una seconda voce (in questo caso della stessa Annalisa) ha qualcosa di efficace ma un po’ furbetto: il cosiddetto double tracking, tecnica adorata da Lennon e imposta furbescamente a Cobain, funziona sì, ma in questo caso non sembra comunicare duplicità, soltanto forza. Come un monumento talmente popolare che viene un po’ da ridere quando qualche content creator lo presenta come fosse un angolo nascosto da scoprire – chiunque abbia il TikTok invaso di consigli turistici sa a cosa mi riferisco. Insomma, qualcosa scricchiola nell’impostazione generale: una schiacciata a campo libero che atterra oltre la riga, un gol a porta vuota stampato sul palo, un’eleganza talmente ovvia da stufare. Ma non tutto è perduto.
L’ingresso di Marco Mengoni ci ricorda cosa avevamo apprezzato del brano al primo impatto: l’umanità delle voci. Accanto al timbro squillante e aspro del suo collega, infatti, la voce più cavernosa scelta da Annalisa in questo brano sembra ancora più naturale, come se ballasse con grazia sul confine tra parlato e cantato. I duetti servono proprio a questo: gli artisti scadenti li cercano per pompare i numeri; gli artisti veri e propri li sognano per inserire un prisma nella loro musica e proiettare nuovi colori dal loro fascio di luce. Certo, la radio mangerà in un sol boccone questo incastro di personalità che ha tutto quel che serve per le porzioni lente del palinsesto, lasciando che l’ascoltatore assapori la cadenza melodica e armonica di “arsenico”, forse il punto più gustoso dell’intero brano, e punto di forza del ritornello – già in Ragazza sola le parole sdrucciole avevano beneficiato della voce di Annalisa.
E infatti al momento Piazza San Marco è schizzata subito al secondo posto della classifica earOne. Ma per le abitudini e i gusti del popolo che streamma, forse, quest’eleganza è eccessiva. Non c’è tempo per ammirare le boiserie del Cafè Florian; non c’è una guida sufficientemente puntigliosa (a parte il sottoscritto!) che ti costringa a prestare attenzione al monumento dei Tetrarchi. Si direbbe che mancano anche le risorse per godersi la città, di questi tempi. Al massimo ci si trova in un bacaro per uno spritz, ed è già ora di tornare alla normalità. Del resto, ogni canzone è come una visita lampo, un’esperienza di pochi minuti nei panni di qualcun altro. Ma non tutte le vacanze finiscono bene, e per portare a un livello umano tutta l’opulenza di Piazza San Marco forse non basta un "mollami". Ci vorrebbe, semmai, una macchina del tempo.