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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Cuore rotto di Tiziano Ferro

Il nuovo singolo di Tiziano Ferro si inserisce perfettamente nella scia nostalgica del recupero degli anni Zero, che lui ha dominato con il suo pop “di livello mondiale”, come si sarebbe detto e come si scriveva ai tempi.
A cura di Federico Pucci
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Forse ti sarai accorto che nel ciclo infinito di riscoperte nostalgiche e recuperi di annate trascorse ci troviamo attualmente nel pieno di un recupero degli anni Zero. Uno degli album più apprezzati dell’estate negli Stati Uniti è a firma dei Deftones, che per tanti giovani ascoltatori di oggi sono contemporanei e attuali nel 2025 come lo erano nel 2001 per il sottoscritto. La voga parecchio superficiale chiamata “indie sleaze”, che in parte è stata evocata nella comunicazione dell’ultimo album delle HAIM, pesca ugualmente dal primo decennio del secolo 21. Anche la brat summer del 2024 portava su di sé molti segni di questo malanno che nel giro di qualche stagione rimpiazzerà l’attualmente popolarissima “nostalgia ‘90”, e così si riaffacciano amarcord di EDM e iTunes, di dance punk e PlayStation 2. Ma finora ti ho citato fenomeni esteri: e noi cosa abbiamo da rimpiangere dei nostri anni Zero? “Cosa racconteremo ai figli che non avremo”, per citare il poeta? Non moltissimo: le classifiche nostrane pullulavano di musica internazionale spesso di qualità discutibile. E comunque anche i Blue hanno un disco in arrivo a gennaio e due date a novembre 2026 al Forum di Milano, unica metropoli dell’Europa continentale che ha concesso un bis agli epigoni degli epigoni delle boy band: tanta è la fame di quel decennio che si sta accumulando, come potevamo cogliere già fra le righe dell’ultimo singolo di ANNA. Ma non dobbiamo provare vergogna di tutto quello che abbiamo ascoltato allora (per chi c’era): tra un movimento indipendente che alzava la testa e si presentava unito come un fronte a Sanremo e un hip-hop italiano che faceva un salto quantico nel presente, c’era spazio anche per un nuovo pop. Un pop “di livello mondiale”, come si sarebbe detto e come si scriveva ai tempi. Quello di Tiziano Ferro, che oggi con il suo nuovo singolo Cuore rotto sembra volersi riallacciare a quella fase storica proprio mentre apre una nuova pagina della sua storia.

Sono anni che un pezzo di pubblico si aspettava da Tiziano Ferro un ritorno alla forma iniziale, quella di artista capace di domare con la voce un beat ballabile, nudo e crudo. Dopo molte e meritate fortune che hanno accompagnato le sue evoluzioni nei primi 15 anni di carriera, progressivamente quell’istinto per il ballabile triste e graffiante era andato un po’ svanendo, come è normale che succeda nella crescita di un artista. Nel 2019 Buona (Cattiva) Sorte aveva lasciato trasparire qualcosa del vecchio Tiziano, ma gli ultimi due album avevano altre pagine da scrivere, pagine di introspezione e confessione, passerelle nel canone dei crooner italiani e momenti anche smaccatamente pop. E non è detto che questi elementi ormai distintivi dell’artista verranno a mancare nel suo nuovo capitolo discografico, quello che inizia ora dentro la casa di Sugar dopo oltre 20 anni nella sfera major EMI/Universal. Ma per adesso Cuore rotto fa sognare i nostalgici, quelli che da un pezzo avrebbero voluto recuperare certi tocchi di Rosso relativo e 111, un sound in parti uguali sexy, arrabbiato e ferito, che la produzione di Marz, Zef e Marco Sonzini sembra restituire. Ma per fare questo passo serve una fiducia cieca nel groove di batteria, e questa Tiziano la sfoggia da principio con la scansione ritmica del primo verso: “Avevo bisogno di te”. Quando, pochi secondi dopo, sentiamo una successione praticamente identica della cassa, possiamo intuire che questa sintonia è tornata. E a questo punto siamo già stati presi all’amo dall’hook del brano.

“Tum tu-tum tu-tum tum” possiamo scriverlo su un pentagramma e dividerlo in porzioni, ma nell’economia logica di Cuore rotto rappresenta esattamente quello che la metafora del titolo e il contenuto del ritornello vuole suggerire: il suono di un muscolo cardiaco in disarmo, che inciampa. Ma che allo stesso tempo non molla. La fiducia di Ferro nel beat, in questo caso, non è solo una questione tecnica: non è la capacità di surfare sopra la strofa di Centoundici quasi priva di altri strumenti se non la voce e la cassa, e sicuramente armonicamente ristretta, come in un’acrobazia senza rete di protezione; non è solo la confidenza di scavare con le note più basse del suo registro sopra il groove spezzato di Le cose che non dici. Qui questo bisogno di aggrapparsi a un ritmo (che poi è quello prodotto da sé) ha una simile fattura musicale ma una maggiore rilevanza biografica. Ed ecco che un’apparente trovata estetica nasconde qualcosa di più profondo. E anche una novità. Perché, come si diceva, quei sei colpi di cassa non sono soltanto un motivo ricorrente, ma sono la parte più memorabile del brano, il vero e proprio hook.

Esiste una classe ristrettissima di canzoni in cui la batteria possa ritenersi principale responsabile del funzionamento generale del meccanismo. Una di queste è certamente italiana, Stop Bajon di Tullio De Piscopo con la firma di Pino Daniele, ma il resto della lista ha titoli da capogiro: In The Air Tonight di Phil Collins; We Will Rock You dei Queen. Non che manchino ragioni melodiche per aggrapparsi a queste canzoni, tutt’altro; ma il ruolo da protagonista dell’eterno supporter è molto più evidente qui che in qualsiasi fiammeggiante assolo di Buddy Rich. Perché l’orecchio non solo gode nel sentire l’atonale succedersi di botti metallici e di colpi legnosi, non solo si appaga nella loro articolata disposizione metrica, ma attivamente auspica il momento in cui la batteria riempirà un vuoto anticipatorio prima che le voci erompano in coro. Un hook di batteria, insomma, è un grande rischio che Tiziano Ferro e il suo team si prendono con gusto – e anche per questo non si può che augurare loro almeno una frazione del successo dei classici citati finora. Il gusto viene espresso nelle molte maniere in cui i produttori declinano questa molecola di senso musicale, una sorta di arché ritmica che prima esiste nell’inciso del primo verso, quindi si manifesta nel basso della prima metà della strofa, poi nel clangore delle casse della seconda metà, dove sembra di sentire i surdos, le grandi batterie del samba.

Alla base di questa sequenza così accattivante c’è la sincope, quel principio alla base di tanta musica da ballare che anche fra un milione di anni continuerà a esercitare fascino sul nostro orecchio. La sincope, per così dire, è uno spostamento inatteso del centro di gravità ritmica di un accompagnamento musicale o di una melodia: anziché dividere il tempo in unità identiche, la sincope ci fa oscillare avanti e indietro (per questo si parla di “swing”, “dondolìo”), creando microscopiche pause e accelerazioni che mantengono sempre viva l’attenzione. Sarà la nostra tensione continua tra bisogno di familiarità e curiosità per il nuovo che ci spinge verso i ritmi sincopati, ma da qui a saperli incorporare in una musica pop serve un orecchio sopraffino. Per non sembrare in ritardo o in anticipo sul tempo quando si canta sopra un beat sincopato serve una sensibilità particolare, possibilmente cresciuta ascoltando tantissimo R&B, una sorta di memoria muscolare che permette di fluttuare insieme alle ondivaghe suddivisioni del metro: Tiziano Ferro queste doti le ha sempre avute, e Cuore rotto le mette in mostra ancora una volta.

Abituato a una canzone italiana spesso così squadrata, il pubblico nostrano non ha sempre premiato queste finezze. Gli anni Zero sono stati ricchi di eccezioni a questa norma, su tutti proprio Tiziano Ferro. E dopo tre lustri di predominio rap dove spesso si sono tirate linee ritmiche dritte piuttosto che sinuose forse è giunto il momento di riprovare. Certamente il cantautore sa quello che sta facendo: basta guardare il video, ambientato in una villona soleggiata, piena di arredi di pessimo gusto, per sentirsi catapultati nel passato. Il fatto che assomigli alla villa di Le cose che non dici potrebbe non essere un caso. O forse è solo una voglia matta di tornare agli anni Zero che gioca brutti scherzi con la nostra immaginazione.

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