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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Che gusto c’è di Fabri Fibra e Tredici Pietro

Da qualche settimana una delle canzoni più interessanti uscite tra quelle dell’estate c’è Che gusto c’è, il singolo con cui Fabri Fibra, con la collaborazione di Tredici Pietro ha lanciato l’album Mentre Los Angeles brucia. Ecco perché non possiamo togliercelo dalla testa.
A cura di Federico Pucci
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Fabri Fibra e Tredici Pietro
Fabri Fibra e Tredici Pietro

Se non l’hai notato, l’estate 2025 non è iniziata nel migliore dei modi, e ovunque si gusta un sapore amaro di ritorno al passato. Nel mondo si parla di guerre di civiltà come fosse il 2003, nelle radio italiane si canta come se fosse il 2001, e le temperature sono quelle del Mesozoico (deve essere la promozione del nuovo Jurassic Park). In qualche modo ci siamo acclimatati anche a tutto questo: i tormentoni vanno e vengono, nell’indifferenza generale; e il caldo si sopporta con un altro po’ di aria condizionata (finché avremo soldi per l’energia elettrica). Eppure, qualcosa non quadra e il malcoltento avanza.

Altrimenti, perché tante persone online si sarebbero appassionate al tema dei cosiddetti "finti sold out negli stadi"? A parte per vedere metaforicamente il sangue delle popstar, s’intende – del resto dove si tenevano duemila anni fa gli spettacoli gladiatori? Forse il tema intriga perché sembra svelare una grottesca e orrenda realtà che si nasconde dietro un velo di retorica e marketing, il volto autentico e spaventoso degli artisti. Che, come noi, sembrano non farcela più. E se questi sono i temi che frullano nelle nostre conversazioni, l’artista che può dargli voce con una canzone si chiama Fabri Fibra, che con Che gusto c’è featuring Tredici Pietro sembra aver davvero coniato la hit dell’estate – dove per “hit” si intende (all’inglese) un assassinio. L’assassinio delle nostre aspirazioni.

Che Fabri Fibra sia un rapper che spesso e volentieri usa la parola per mettere in luce le perversioni e le convinzioni della cultura popolare italiana è arcinoto, e non devo essere certo io a ricordarlo: nonostante la sua produzione più autobiografica e meno satirica non sia da meno (basta cercare il suo secondo più grande successo solitario, cioè senza featuring), è stato il modo spietato e divertito con cui ha guardato dentro le viscere del mostro a renderlo un artista realmente iconico, cioè immediatamente associato a questo aspetto al vetriolo della sua poetica – anche talvolta a danno della sua piena espressività artistica, come ha avuto modo di dire in alcune delle interviste rilasciate per la pubblicazione del suo nuovo album Mentre Los Angeles brucia.

Ma il pubblico funziona così: semplifica, riduce, assimila. Specie se l’artista che si ritrova affibbiata l’etichetta di spina del fianco culturale è così bravo a usare le formule dei tormentoni contro i tormentoni stessi, rendendo la critica al sistema una parte del sistema stesso, per amor di paradosso. E così, in un rap italiano in cui Marracash è il king, Fabri Fibra è l’anti-eroe. In questo senso, Che gusto c’è è stata la canzone perfetta per il rientro in scena di Fibra e il lancio del disco: un po’ come in Fenomeno otto anni fa (peraltro canzone in cui prendeva di mira i "figli d’arte"), anche oggi con l’aiuto del rapper Pietro Morandi il marchigiano si ripresenta sulla scena con una canzone “meta”, che nel momento in cui ricerca l’attenzione del pubblico svela anche alcuni dei meccanismi che stimolano quell’attenzione.

Nel mondo ingenuo pre-Covid ancora si poteva scherzare sulle dinamiche autoreferenziali e stantie della televisione e di un sistema mediatico tutto sommato in piedi. Oggi, invece, il discorso deve farsi ancora più primordiale e tenere insieme i fallimenti di una nazione e della sua classe "intellettuale" insieme. Quasi un remake di Vip in trip, per citare un altro singolo di lancio che fece della satira il suo tema, dell’autocritica il suo succo e della memorabilità melodica il suo grimaldello. E davvero sembrano riallacciarsi tanti fili tra i due brani, che giocano entrambi sul contrasto tra l’ambizione e la realtà: ambizione di avere soldi e realtà di non averli; ambizione di essere importanti e realtà di non contare una cicca.

Un contrasto che coinvolge tutti, nessuno escluso. Se l’italiano ha il mito della persona ricca e di successo, infatti, molti aspiranti cantanti sono perfetti rappresentanti dello spirito nazionale, secondo quanto dice nella terza strofa Fibra – e quanto sembrano dirci i casi giornalistici dell’estate. La differenza tra le critiche di una volta e quelle di oggi – sembrano rivelarci in modo subliminale il refrain e il beat prodotto da Marz e Zef – è che non c’è più tanto da sghignazzare: prima si fischiettava la "musica dei clown" ma oggi il circo è largo quanto l’intero paese, e se si ride lo si fa con grande amarezza.

Se fai caso al giro del brano (che tra gli autori conta anche una firma esperta come quella del solito Davide Petrella) noterai una sequenza di due accordi minori, un loop piuttosto chiuso e serioso, che contrasta con il passo svelto della base, sicuramente tra i singoli più veloci di Fibra – non che siano accordi minori estranei alla musica leggerissima, e anzi estiva e del resto abbiamo già detto allo sfinimento che la tonalità minore non deve associarsi alla tristezza, semmai a una certa pesantezza. Nonostante il ritmo accelerato, abbiamo lo spazio sufficiente per assaporare questi accordi, suonati regolarmente in levare, cioè sul tempo debole, come si fa tradizionalmente nella musica reggae e ska, e come Fibra ha prediletto in tanti brani anche disparati della sua carriera (Propaganda, Mal di stomaco, Pronti, Partenza, Via!): anche questo uso del ritmo in levare è una spia, che avvisa il pubblico che sta tornando il Fibra di sempre. Ma tra questi larghi spazi, ogni quattro battute sentiamo anche una spinta vigorosa in avanti: te la dà l’accordo che senti quando Tredici Pietro canta “magari esplode”, osservando le luci del cielo. Già, perché mentre Los Angeles brucia, i cieli del Mediterraneo orientale si illuminano da quasi due anni di missili lanciati contro Gaza, e da una settimana anche contro Teheran.

Fabri Fibra e Tredici Pietro
Fabri Fibra e Tredici Pietro

Non che la canzone voglia farci sentire in colpa perché pensiamo alle vacanze degli altri, che osserviamo con invidia negli stessi spazi “sociali” dove veniamo aggiornati con orrore sulle guerre di Israele e del resto del mondo. Semmai, quell’auspicio accelerato da un accordo maggiore ha l’acre gusto di una preghiera pessimista: "Che gusto c’è?", cioè dov’è la gioia, il piacere nel mirare alle ricchezze altrui quando anche il successo dura poco ("non sfondi"), dice il testo sopra una melodia che scivola facilmente sulle ultime note della scala minore su cui è costruito il brano. E in effetti, la melodia del ritornello e l’armonia generale del brano sembrano mostrarci un contrasto insanabile, costruito sulla stessa tonalità ma con un solo tassello di differenza: da una parte l’inciso scivola in basso e non risale quasi mai, come uno scampanellio vagamente funereo scandito sulla scala minore naturale; dall’altra gli accordi usano la scala cosiddetta minore armonica, che introduce una tensione aliena. E ci spinge a ricominciare, con un senso di dipendenza tossica come di chi prova disgusto a nutrirsi di solo voyeurismo social, ma non riesce neppure a smettere.

Nello spazio tra questa piccola dissonanza e l’aspettativa rassicurante del pubblico, che potrebbe quasi essere assuefatto ai messaggi caustici di Fabri Fibra e alle sue canzoni uptempo ma distruttive, si apre la possibilità di un tarlo che scavando nell’orecchio rischia di arrivare più a fondo: "che gusto c’è", ti ritrovi a ripetere, forse sovrappensiero, incidendoti nel cervello un facile slogan che – a ben vedere – è un interrogativo ampio, una domanda retorica che ha come risposta un terrificante nulla. In questo sta la longevità di un artista: saper comunicare qualcosa di familiare continuando a stupire un po’, quanto basta per non diventare superfluo (o prevedibile come un’intelligenza artificiale), anzi elevando ulteriormente la posta in gioco. Come nel finale del videoclip in cui il rapper marchigiano torna nei panni dell’uomo comune, a lavare i piatti, abbandonando quelli da personalità ospite di talk show e aperitivi sui rooftop. Forse anche per noi c’è una via d’uscita, una secchiata d’acqua per spegnere l’incendio, quando ci accorgeremo che siamo sulla stessa disperata barca di folli, che desideriamo invano le stesse cose, e che cantiamo la stessa canzone.

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Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant'anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.
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