
Una volta prima di entrare al Comicon un amico mi disse che non avrei fatto una lunga fila perché c’erano i varchi… "i varchi…” e non trovava la parola, dopodiché risolse “per quelli come voi”. Voleva dire varco-disabili ma non sapeva se dirlo, perché essendo nostro amico gli era difficile distinguerci dalla nostra univocità, il mio essere Valeria, il tuo essere Giacomo, e metterci in una comunità a parte, diversa dalla sua, con un intero varco a parte. È ancora una volta la storia dell’io e del noi. Il noi da cui si parte è importante: è importante uscire dalla propria comunità parlante per poi tornare con un dono nuovo, una parola, un’interpretazione, una possibilità, un dubbio. Il linguaggio è importante.
Venticinque anni fa studiai Lingua dei segni all’ENS di Napoli. Ce ne sono in tutta Italia, era l’acronimo per Ente Nazionale Sordomuti. C’era anche un segno per dire sordomuto: un indice della mano che rapidamente tocca orecchio e bocca. Ma, mentre io studiavo lì, i tempi cambiavano, le comunità diventavano consapevoli, più velocemente delle targhe appese alle porte delle sedi ospitanti, e così mi spiegarono: i sordomuti non esistono: esistono i sordi, bisogna dire sordi, io imparai. Non si dice non-udenti perché è ad excludendum. Imparai.
Noi siamo solo ciò che siamo, io sono Valeria e tu sei Giacomo, ma poi a un certo punto siamo anche parte di comunità più ampie, siamo cittadini, o napoletani, o disabili, o sordi. Ci vuole tantissimo tempo per riconoscersi e quindi poi andiamo fieri di quell’essersi riconosciuti, o forse no, è una porzione di essere che ci provoca sofferenza e ne faremmo a meno, ma anche lì: siamo noi a doverlo decidere. Fatevi dire da chi si sente chiamato in causa come vuol essere chiamato, fatevi dire da chi si sente discriminato dove sta la discriminazione.
Non è poco, lo so: richiede gioia di condivisione e reciprocità, apertura, ma è questo quello che si chiede quando si è puntigliosi con la lingua, quando si cercano vocali finali che includano invece di escludere. All’ultimo Salone del libro ho presentato un saggio di Maya de Leo che ha nel sottotitolo la dicitura LGBT+. Io quel + non lo conoscevo, ho dovuto studiare, alla fine ho pensato che non fosse un’aggiunta, ma una chiave che permette di aprirsi il più possibile, così da accogliere il più possibile.
Ho imparato solo da qualche anno che posso dire personagge, se parlo di Jane Eyre e Madame Bovary, che posso dire poete se parlo di Alda Merini e Patrizia Cavalli, e mi sembra opportuno, perché sono cresciuta studiando su antologie scolastiche in cui per ogni diciannove scrittori c’era una Catherine Mansfield, e io pensavo: sarà dunque così difficile scrivere racconti per una donna? E poi mi piace un sacco perché mi sembra che la lingua sia come la vita: sempre in movimento, capace di recepire le metamorfosi e seguirle, in uno scambio virtuoso tra significante e significato, mi pare cioè – come titola un testo di Beulah Parker del 1962 – che “my language is me”.
