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“Peeping Tom”, il meglio del teatro contemporaneo. Intervista a Gabriela Carrizo

Gabriela Carrizo, Argentina, è una delle coreografe più interessanti del panorama contemporaneo. Siamo entrati nel suo laboratorio alla Biennale Teatro 2013 e le abbiamo domandato del suo personale approccio al teatro e alla danza.
A cura di Luca Iavarone
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Gabriela Carrizo, Argentina, è una delle coreografe più interessanti del panorama contemporaneo. Comincia con i Ballets C de la B di Alain Platel e con la Needcompany di Jan Lauwers, e poi, nel 2000, fonda con Franck Chartier "Peeping Tom", la sua propria compagnia, con sede a Bruxelles, che ha regalato alla Biennale 2013 uno degli spettacoli più poetici, intensi e immaginifici: "32 rue Vandenbranden". La cura maniacale dei dettagli, la tecnica formidabile dei performers e la visione d'insieme scenica estremamente lucida hanno contribuito al successo di questo spettacolo che, probabilmente, al di là delle barriere di genere, è quanto di meglio possa offrire attualmente il teatro contemporaneo.

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Abbiamo avuto modo di fare alcune domande a Gabriela Carrizo, per comprendere meglio il suo lavoro e la sua personale idea di teatro totale. Inoltre abbiamo avuto l'occasione di filmare alcuni momenti del suo laboratorio e di discuterne con lei.

LI: Com'è nata la compagnia?

GC: Mi sono incontrata con Franck Chartier lavorando insieme a Alain Platel, dopo aver realizzato e girato con "Lets op Bach", e abbiamo deciso, anche insieme ad altri performer di Alain, di mettere su una produzione propria. Realizzammo la performance in un camper, avendo provato in parchi e parcheggi visto che il veicolo che usavamo non poteva entrare nei teatri, e lo abbiamo chiamato "Caravana". Era il 2000 e dovevamo dare un nome al gruppo: e così nacque Peeping tom.

 Come impostate il lavoro? Come nascono le scene, le coreografie e qual è il vostro modo di procedere nel processo creativo?

 Prima di tutto partiamo dall'immagine, la scelta di uno spazio dove accadrà la storia, successivamente passiamo alla realizzazione del progetto. Il tema, la storia, i personaggi sono legati a questo luogo. Il processo di creazione è lungo, il materiale nasce da questo processo, dai performers, elaborando ognuno un materiale specifico, tanto fisico quanto teatrale. Il processo è organico, alcuni personaggi si disegnano più rapidamente di altri mentre la storia e la drammaturgia li fa passare da un contesto all'altro, fino a che il montaggio finale e la struttura dell'opera gli dà la loro traiettoria definitiva.

 Visto che fate incursioni anche nel teatro e nel musical, in cosa si discosta il vostro lavoro dal lavoro specifico della danza?

 Noi veniamo dalla danza, il movimento è il nostro linguaggio. La nostra ricerca parte sempre da un punto di vista realistico, di storie ancorate all'umano, alle relazioni. Ci accostiamo così al lavoro di base partendo da quello che al corpo, a questo uomo o donna, succede. Corpi differenti, ballerini o no, di età diverse. A noi piace indagare e arrivare al movimento da altre dimensioni, fisicamente estreme, virtuose, estranee, o a situazioni che si trasformano in qualcosa di fantastico o surrealista. Tanto a livello del movimento come a livello teatrale o attraverso il canto. Non crediamo nelle frontiere. Ci piace cancellare i confini, rimanere nei confini, perché tutto è valido per amalgamare un linguaggio che ci sia proprio, per porci domande e raccontare quello che vogliamo raccontare.

 Ci racconta dal suo punto di vista la genesi dello spettacolo che avete portato alla Biennale?

 Dopo aver realizzato la nostra trilogia famigliare "Le jardin" "Le salon" Le sous sol" desideravamo uno spazio aperto dove perdere i nostri personaggi, confrontare questa nuova e piccola comunità in questa specie di no man's land pieno di solitudine. Cercando di elaborare un linguaggio più cinematografico e entrando nel mondo e nelle visioni di ogni personaggio. Uno dei film di riferimento all'inizio è stato "La balada de Narayama", film giapponese di Inamura. "32 rue vandenbranden" è stato fornire una direzione precisa, persa nella montagna, e come metafora mettere questi personaggi alla ricerca di qualcosa di preciso ma che non riescono mai a nominare né incontrare.

 Com'è stato lavorare con i ragazzi che hanno partecipato al workshop organizzato dalla Biennale?

 L'idea era dividere certi strumenti che servono al processo di creazione e al lavoro fisico che va di pari passo a quello teatrale, soprattutto poter sperimentare, cercare di aprire porte, in ciascuno, anche se è uno sviluppo personale che implica un processo più largo, di più tempo. Questa settimana l'abbiamo vissuta più come un'esperienza ricercando sul tema di Ofelia, la sua pazzia, la sua morte. È stato un salto, un lasciarsi andare… ci siamo fermati in questa soglia che ci separa da questo altro spazio nel quale già non sappiamo, disconosciamo e ci fa paura soprattutto non conoscere noi stessi e perderci.

 Ci anticiperebbe qualcosa sul vostro prossimo lavoro?

 Stiamo iniziando per l'appunto una nuova produzione con Peeping tom che vedrà la luce per la prima volta a metà maggio del 2014, forse la prima parte di una nuova trilogia.

 Quando e dove vi rivedremo in Italia?

Per il momento non ci sono date previste, speriamo di nuovo Venezia!

 

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