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Parte il Salone del Libro, Nicola Lagioia: “Senza relazioni la pandemia ci ha resi più stupidi”

Dal 14 al 18 ottobre al Lingotto di Torino riparte il Salone Internazionale del Libro di Torino, abbiamo chiesto al Direttore, lo scrittore Nicola Lagioia, cosa si aspetta e come ha organizzato questo ritorno dal vivo di uno dei principali appuntamenti culturali italiani: “Ci siamo fidati del Governo e del piano vaccinale”.
A cura di Francesco Raiola
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Nicola Lagioia (LaPresse)
Nicola Lagioia (LaPresse)

Era il 2019 l'ultima volta che il Salone del Libro aveva previsto la possibilità di incontrarsi di persona. Sono passati due anni che sono sembrati un'eternità: nel 2020 il Salone fu organizzato non in presenza, con incontri trasmessi in streaming, con tutte le problematiche che questa cosa comporta. Per il 2021, però gli organizzatori hanno scelto di fidarsi delle Istituzioni e del piano vaccinale, hanno prediletto la prenotazione online e con l'obbligo di green pass permetteranno un SalTo che cerca di riproporsi con una formula più classica, con la maggior parte degli incontri che saranno di persone e, ovviamente, i caratteristici stand degli editori. Abbiamo chiesto al Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino, lo scrittore Nicola Lagioia (il cui ultimo libro è La città dei vivi, da poco disponibile anche come audiolibro) di raccontarci che cosa è successo e che cosa succederà dal 14 al 18 ottobre al Lingotto dove si alterneranno scrittori come Chimamanda Ngozi Adichie, Valérie Perrin, Javier Cercas e Michel Houellebecq oltre a tantissimi ospiti italiani.

Come va? Sei pronto a questo nuovo Salone?

Sono pronto, spero che tutto questo ci lasci vivi, anche perché dopo questo Salone ne dovremo fare subito un altro a maggio, se pensi che il tempo sano per organizzarlo è 10/15 mesi capisci che dobbiamo fare un'altra corsa. Insomma siamo pronti ma anche emozionati, sono passati due anni dall'ultimo Salone in presenza, con un quadro completamente cambiato.

Come è cambiato rispetto a due anni fa?

Ci sono diversi aspetti, parto da una questione che non riguarda il Salone in senso stretto: l'editoria italiana ci arriva benissimo, rafforzata, perché leggendo i dati dell'AIE in cui c'è un +17%, poi è il motivo anche per cui abbiamo gli stessi editori che avevamo nel 2019, anzi per tre che sono andati via per la questione green pass altri sono arrivati: penso a Shake, che mancava da un sacco di tempo, Atlantide, Chora. E se la situazione dell'editoria è ottima, anche a livello di autori vale la stessa cosa. Fino a pochi mesi fa pensavamo di dover fare un Salone italiano – cosa che ci sarebbe comunque andata benissimo, visto che siamo pieni di autori e autrici interessanti – però con l'apertura delle frontiere siamo riusciti a far arrivare autori da varie parti, ci sarà Michel Houellebecq dalla Francia, Chimamanda Ngozi Adichie dagli Usa, Stella Morris, svedese che ci parlerà del suo compagno Julian Assange, Jessica Bruder di Nomadland, quindi da questo punto di vista va benissimo.

C'è un ma, però, giusto?

Sì, l'eventistica legata ai libri, alla musica, arriva con le ossa rotte, sofferente. In questi due anni noi abbiamo continuato a lavorare abbiamo lavorato a un sacco di progetti, ma sono venuti meno gli incassi dei visitatori e gli spazi che prendono gli editori, per questo non sappiamo come sarà questo Salone sotto questo punto di vista. Mi spiego, abbiamo preso questa decisione 5/6 mesi fa e ricordo questa riunione non facilissima, perché avremmo dovuto decidere per il sì o per il no, rispetto anche alla questione Covid: solo che se avessimo deciso per il sì e la campagna vaccinale non fosse andata avanti sarebbe stato complesso, ci saremmo dovuti molto ridimensionare, però ci siamo detti: ‘Fidiamoci delle Istituzioni'. A quel punto abbiamo anche pensato di non voler fare un Salone ridotto, anzi, questo è un Salone come c'è sempre stato, anche come capienza, perché il Lingotto è una struttura modulabile.

E a livello editoriale su quali linee vi siete mossi?

Noi abbiamo una doppia linea: c'è un gruppo editoriale, fatto da scrittori, operatori editoriali – ne fanno parte scrittrici come Valeria Parrella, Loredana Lipperini, Helena Janeczek – che sono quelli che orientano dove il Salone deve andare a livello editoriale, e poi c'è un gruppo operativo – io faccio parte di entrambi – che lavora con più continuità, che recepisce le indicazioni del gruppo editoriale e le trasmette agli editori. Abbiamo cominciato gli incontri con gli editori che per la prima volta abbiamo fatto su Zoom e ci siamo trovati di fronte persone che ci chiedevano se fossimo sicuri che una cosa del genere fosse fattibile, alcuni erano super entusiasti e altri che si ponevano più problemi: il loro problema, più che gli autori, che comunque costano, è lo stand, per cui spendono molti soldi. Alla fine hanno deciso per il sì e questo Salone c'è.

Ci sono ancora altre incognite?

Innanzitutto è a ottobre e non a maggio, quindi bisogna capire se la gente è pronta a cambiare le proprie abitudini, poi c'è il green pass, ma a quello ci stiamo abituando, in più è molto raccomandata la prenotazione online e qui c'è già una differenza grossa rispetto al passato. L'anteprima con Margaret Atwood è andata bene, anche se erano 500 persone, ma al Salone ne arriveranno di più, quindi vedremo come la città reagirà: Torino attraversa un momento complicato, è una città a metà del guado, non è più una delle Capitali industriali del Paese e non è ancora diventata definitivamente un polo culturale, ma in questo senso la città si identifica col Salone, questa cosa qua per il territorio è importante.

Anche a livello di impatto economico, giusto?

C'è una cosa di cui non si parla molto ma è importante: il Salone costa 4 milioni di euro, ma la ricaduta sul territorio è di 30 milioni di euro, perché ci sono alberghi, ristoranti, speriamo che l'alchimia funzioni. Non ha senso fare paragoni col 2019 però è importante ritrovarsi come una specie di comunità. Un'altra cosa di cui sono curioso è vedere come interagiranno adesso persone che fino a prima del Covid venivano da paesi diversi, parlavano lingue diverse e parlavano di cose diverse, ma che adesso hanno un problema comune, il Covid, che è diventato un problema unico: sarà interessante capire che succederà anche da parte degli scrittori.

L'apertura non è mai casuale e immagino non lo sia neanche quest'anno con Adichie, come mai l'idea di aprire con lei?

Avevamo cercato di averla più volte, in passato, ma era sempre sfumata, ora c'è anche l'uscita del suo nuovo libro. Lei è un'autrice sensibile a tutta una serie di temi, quello del femminismo, ambientale, è americana, di origine africane e tutte queste cose hanno fatto sì che decidessimo di farle aprire il Salone. Per la prima volta il comitato del Salone è diventato a maggioranza femminile, abbiamo fatto una inaugurazione con Margaret Atwood e un'apertura con Adichie, quindi il segnale è abbastanza chiaro, da questo punto di vista.

Adichie, Houellebecq e tantissimi grandi nomi, però mi ha colpito la presenza di Nino D'Angelo, che dopo lo sdoganamento di Fofi ha avuto un'altra vita…

Nino D'Angelo è un fenomeno culturale molto importante. Il suo avvicinamento al Salone c'è stato un anno e mezzo fa quando abbiamo cominciato a fare una serie di attività online e nelle città, per tenere il Salone vivo abbiamo simbolicamente riaperto i teatri, trasmettendole online. Quando siamo andati a Napoli abbiamo chiesto, tramite Valeria Parrella e Davide Iodice, a Nino D'Angelo di venire a fare una cosa senza pubblico: ricordo che questa cosa doveva partire alle 18, ma alle 17 già c'era gente fuori… si era sparsa la voce. Insomma, Nino è un fenomeno culturale molto potente, quindi come Salone del Libro ci interessa.

Pensi che la pandemia anche in maniera indiretta abbia avuto influenza nella narrazione, nell'idea narrativa: il non fruire di compagnia, della cultura…

Questa cosa non la so, la si capirà nei prossimi anni, sicuramente lo stare chiusi non sempre fa bene alla narrativa, alla letteratura, la forma romanzo si nutre di vita in continuazione. Una battuta che mi sono ritrovato a fare nei mesi scorsi è che in questo anno e mezzo di pandemia mi sono ritrovato più stupido, perché non esiste soltanto un'intelligenza cognitiva ma anche un'intelligenza relazionale che tu attivi avendo a che fare con gli altri. Quindi a meno che tu non sia Proust, che dopo aver fatto un'abbuffata di vita poi si chiude… sebbene anche lì ci sia stata un'esperienza precedente. È una cosa da cui non si può prescindere, anche la routine di Kafka quando andava a lavorare all'ufficio assicurativo era importante per scrivere i suoi libri, la scrittura è un lavoro solitario ma in cui riversi una serie di esperienze sociali importanti quindi diventa importante anche un'altra cosa: il modo in cui la gente ha cercato di dribblare, aggirare lo stare chiusi in casa, cercare un modo per avere interazioni; è stato interessante il modo in cui ci siamo reinventati la vita sociale sotto Covid.

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