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Marco Castello: “Facevo il cameriere, ma senza creare impazzivo. Uso pop, meme e TikTok per salvare le radici siciliane”

Marco Castello ha pubblicato “Quaglia sovversiva” in cui continua il suo pop anticapitalista. In questa intervista si parla di Rosalía, ma anche di essere indipendenti, radici siciliane, di meme, TikTok e creatività: “Non abbiamo voluto aderire alle dinamiche aziendali della discografia italiana: brutte, obsolete, fatte male”.
A cura di Francesco Raiola
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Marco Castello
Marco Castello

Ascoltando "Pompe", la canzone che apre il nuovo album di Marco Castello, "Quaglia sovversiva" – Ortigia, la terra da cui proviene, significa "quaglia", appunto -, mi è venuta in mente "La vita agra" di Luciano Bianciardi. Partendo dalla tragedia mineraria di Ribolla (GR) del maggio 1954, lo scrittore porta il protagonista a Milano per vendicare i minatori morti ma finisce fagocitato dal sistema. La storia di quest'album, però, è quella di chi pensa di potercela ancora fare, di chi non è disilluso rispetto alla vittoria del neoliberismo. È un album "anti-coloniale", ma in senso contemporaneo, che è pieno di esplosioni, reali e metaforiche. ma anche musicali. È un album che, come i precedenti dell'artista siciliano, esplode nel pop, che usa melodia e armonia come armi per arrivare a tutti. Ribalta l'idea di pop come leggero, o meglio, lo usa come cavallo di Troia. E per quanto Castello provi a spiegare che l'urgenza di ciò che dice ha avuto effetti sulla resa tecnica – lo dice con l'orgoglio di chi può decidere da solo come muoversi essendo in tutto e per tutto indipendente – chi ascolterà quest'album non noterà, per esempio, il livello basso della voce. Piuttosto apprezzerà ancora di più un guerriero del pop che comincia questa intervista guardando concentrato su un disegno: "È il disegno della locandina della presentazione di martedì". A proposito di "do it youself". Perfetto, intanto da oggi tutti possono ascoltare questo album nuovo che abbiamo provato a farci raccontare, perdendo la via, prendendo strade e stradine, perché Castello – tra identità, delusioni, dialetto siciliano – racconta un mondo che è molto più grande delle gabbie del pop.

"Dare fuoco a questo manicomio", "Esploderà, schiacciato dalla mole incandescente di una nuvola di male tumpulate, il regno Yankee", "Sei brace spegnendo scoppierai". In quest'album c’è tutto un campo semantico legato all’esplosione. 

Questo disco prende forma come sfogo ai miei impulsi violenti (ride, ndr). Il linguaggio delle esplosioni nasce da lì: metaforicamente, intendo.

Anche musicalmente alcuni pezzi esplodono: “Chiuviti, non chiuviti”, per esempio ha un giro di basso esplosivo. Ma anche nei testi: contro il capitale, contro la disparità ricchi/poveri, contro il colonialismo, l'Impero.

Questo album forse è quello in cui questa rabbia è più "‘ncaccarrata".

Come lo scrivo?

N-C-A-C-C-A-R-R A-T-A, ma con l'apostrofo prima della "n".

Dimostri che il pop — che spesso viene visto come qualcosa di leggero — può essere usato in un altro modo.

Il pop è parte del sistema, assolutamente. Essendo popolare, è stato capitalizzato proprio per la sua natura di massa. Io non sono uno che si prende in giro dicendo "mi oppongo al sistema facendo parte di una nicchia”: penso che l’essere popolari e avere un seguito renda più efficace qualunque messaggio. Infatti mi infastidisce quando proprio gli artisti più capitalizzati, più commerciali, più sfruttati dai grandi marchi, rappresentativi delle tendenze globali… si appropriano delle istanze di chi quel sistema non lo sopporta.

A chi pensi?

L'ho pensato con Bad Bunny, con Rosalía. Penso che la nuova fase del capitalismo sia proprio questa: a differenza del capitalismo “boomer” dei nostri genitori — che semplicemente teneva lontane certe cose, etichettandole con cose tipo "questi sono comunisti", come faceva Berlusconi dando dei "poveri comunisti" agli oppositori — quello di oggi ha imparato a inglobare tutto. Oggi il capitalismo dice: "Dobbiamo prenderci anche questi comunisti, dobbiamo travestirci da poveri comunisti per vendere anche a loro i nostri prodotti".

Come avviene nella musica?

Prendo l’esempio di Bad Bunny — per carità, disco spettacolare — ma mi data enorme fastidio vedere influencer italiani ed esperti del settore che lo erigevano a paladino contro l'overtourism, contro la colonizzazione culturale degli Stati Uniti. Quando Bad Bunny posa per le multinazionali ed è parte dello stesso sistema che suona negli alberghi che privatizzano le spiagge dei paesi meno sviluppati. Per questo dico che il pop, secondo me, dovrebbe essere usato per aprire davvero qualcosa, non per mascherare ciò che è.

Quindi non trovi nulla di autentico in quei messaggi?

Qualcosa di autentico sì. La mia critica è verso la costruzione finta. È un po’ come se il padrone desse consigli ai servi su come fargli la rivoluzione. Qualcosa non torna. Restare integri è la cosa più difficile che c'è, io stesso mi faccio mille paranoie, specialmente adesso che mi espongo di più.

Melodie e armonie sono le tue armi per far arrivare un messaggio a più persone possibile. Lo fai fino a prestarti alla memificazione e a TikTok: è questo il tuo compromesso?

È il linguaggio più efficace in questo momento. È parte della globalizzazione in cui – pur odiando il concetto – sono finito pure io: sono figlio dell’americanizzazione dell’Occidente, dei Pink Floyd e dei Deep Purple che ascoltavano i miei genitori. L’Occidente, per come lo intendiamo oggi, era qualcosa che non aveva nulla a che fare con le nostre radici mediterranee in quel periodo, e noi siamo figli di questa distanza. Molto più in Sicilia che a Napoli: abbiamo perso la nostra lingua, le nostre tradizioni. I miei genitori non conoscono praticamente nulla della musica siciliana; non abbiamo i nostri Murolo, i nostri Pino Daniele, i nostri Massimo Troisi. Mancano veri riferimenti culturali del territorio, è tutto acquisito dall’esterno. Il meme, il linguaggio con cui parlo, è chiaramente il frutto di tutto questo. Ed è anche per questo che mi piace sfruttarlo per riportare un po’ d’acqua alle radici locali.

Quindi lavori come quelli di Cesare Basile e Alfio Antico non riescono a sfondare quel muro?

Sono tentativi importantissimi, ma non hanno attecchito in maniera pop come in altre regioni come la Campania. In Sicilia manca un movimento identitario forte. Se dico Rosa Balistreri molti non sanno chi sia. A Napoli se dici "Pino Daniele" lo conoscono tutti. Io vorrei sfasciare questa cosa: se si può lì, si può anche da noi. Dico sempre: invece di lamentarsi del pop, dei meme, dei giovani, bisogna usare le tendenze per salvare le radici.

L’album è la colonna sonora di un film che non esiste. Ce lo spieghi?

Sì, un film immaginario ambientato in un’isola che somiglia a Ortigia, a Siracusa, a tutta la Sicilia. Tutti i pezzi cuciono una trama: dal preambolo che è "Pompe" fino al finale di "Scoglio volante", ovvero dell’isola che si rompe il caz*o, prende il volo e se ne va. È una storia che ho immaginato, che solo dai pezzi non è totalmente intuibile ma si sente. Chissà che un giorno il film non esca davvero.

Quali colonne sonore ami?

Da sempre ascolto colonne sonore di film che non ho visto. Con Piero Piccioni, per esempio: ascoltavo la musica di "Amore mio aiutami" senza aver mai visto il film, ma immaginavo le scene. Da lì l’idea: fare musica che racconti un film che non si vede.

L'album comincia con "Benzinai, grande sogno di moltissimi, per le grandi mazzette e l’odore". Cominciamo subito facendoci un nemico, in perfetto stile Castello.

Sono sempre stato sinceramente affascinato dalla figura del benzinaio: mi sembrava un lavoro bellissimo, pieno di soldi e con l’odore di benzina che mi piaceva. Il massimo della fatica era quel gesto lì. Poi ho scoperto che era un sentimento condiviso.

E quando hai capito che, invece, la creatività era fondamentale per vivere?

Quando ho fatto un lavoro che non la comprendeva.

Quale?

Il cameriere in un pub a Siracusa. L’ho fatto con passione, ma dopo un po’ ho capito che senza creare qualcosa, senza un processo di invenzione, sarei impazzito.

E quando hai deciso di provarci davvero con la musica?

Durante quel periodo da cameriere ho iniziato a fare musica pop come la faccio ora. Prima studiavo tromba jazz al conservatorio: volevo diventare il trombettista più forte della Sicilia in 3 anni. Non lo sono diventato: anzi, non ero nemmeno il più forte del mio quartiere. E in più mi ero disamorato dell’ambiente jazz italiano, dove ero stato immerso per anni. Allora mi sono chiesto cosa stessi facendo lì e sono tornato a casa. Il sogno però c’era da sempre, da quando a 12 anni ascoltavo Bob Marley.

E oggi che lo fai?

Oggi penso a mollare e aprirmi una gelateria! (ride, ndr) Ci sono altri casini. Non abbiamo voluto aderire alle dinamiche aziendali della discografia italiana: brutte, obsolete, fatte male. È uno scontro continuo. Siamo a Milano e ci confrontiamo con etichette, producer, promoter: arriviamo da pari, quindi sono contento, ma è faticoso.

Marco Castello in concerto
Marco Castello in concerto

Megghiu Suli, per citare la tua etichetta!

Meglio soli, sì, però soli contro giganti. Finora stiamo vincendo, ma è faticoso.

Parliamo dell’uso dei rumori nell’album: sembra un modo per rendere più vero il racconto, no?

Ho sempre desiderato un album continuo, senza pause. Per farlo, però, servirebbero mezzi più grandi di quelli che posso permettermi. Con Lorenzo Pisoni, il nostro bassista, dicevamo: sarebbe bellissimo registrare all’aperto, riprendere i suoni della Natura. Poi registri e ti ritrovi con ambulanze, traffico, clacson. Allora ho usato i rumori come controracconto: c'è Giorgia, la mia compagna, che parla, mio fratello che fischia al cane, Melo – il cane del disco precedente – che arriva col bastone. Servono a collegare i pezzi, a smorzare la pesantezza dei contenuti, a mettere l’ascoltatore in uno spazio concreto.

Che significato dai alla parola "autenticità"?

È ciò che ti permette di non avere rimpianti. Se una cosa è autentica, non te ne penti. Questo disco non è forte a livello discografico, è il più strano dei tre che sono usciti. A un certo punto ho pensato anche che suonasse male. Ho avuto fretta di farlo uscire perché racconta cose attuali e aspettare mesi avrebbe reso tutto vecchio. Ho sacrificato un po’ la qualità sonora per l’attualità delle cose. Ma sento di averlo fatto in maniera sincera: quindi va bene così.

Parlavi del livello basso delle voci.

Tutti mi dicono "sono basse". A me della voce non frega niente: io suono, ascolto batteria e basso, la voce è solo uno strumento tra gli strumenti. Nel pop di solito troneggia sopra tutto, ma a me non interessa. È l’unica cosa che non cambierei.

Che significa "Vessenali"?

È il modo siracusano di dire Via Arsenale e ha più livelli di significato all'interno del disco. Nel brano i ribelli cercano letteralmente un arsenale: fanno un atto vandalico per attirare l'attenzione dei vigili urbani e rubargli le pistole. C’era l’assonanza con "arsenale", ma Via Arsenale per me era una via bellissima con luci calde, recentemente sostituite da luci fredde e spettrali. E poi c’era "Ciccio Arsenale", un personaggio degli anni ’60, una macchietta cittadina. Me lo ricordavo e volevo dedicargli una canzone.

Quando canti "finalmente meno artisti e più artigiani", vale anche per la musica?

Certo, ci sono tante persone che si autoproclamano artisti, impeccabili e intoccabili, un po’ come gli elfi del Signore degli Anelli. Io mi sento il nano: quello che crea, forgia, che si sporca. Il processo creativo ha a che fare con le sporcizie dell’anima. Viviamo un tempo in cui chiunque può dirsi artista: va bene, per carità, ma servono umiltà e ricerca.

Un nome di un artista-artigiano oggi, oltre a te?

Alfio Antico. Quanto di più distante da certi modelli patinati. Chi parla di cose umane, spesso è più sporco che limpido: e proprio quella sporcizia lo rende più luminoso.

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