Israele-Palestina, Kamel: “Uccidere civili non risolve il problema, non c’è soluzione militare a un problema politico”

Lorenzo Kamel è professore di Storia Internazionale all'Università di Torino e insegna Storia del Mediterraneo alla Luiss di Roma e da anni è uno dei più noti e stimati studiosi della questione iraelo-palestinese. Il suo ultimo libro, pubblicato d Einaudi, risponde a 37 domande sul conflitto tra Israele e Palestina, ma non pensate a un instant book. Il libro di Kamel affronta alcune questioni nevralgiche e lo fa dall'alto di anni e anni di studi, ma soprattutto senza rinunciare al metodo storico e alle fonti, come specifica lui stesso nell'introduzione in cui spiega perché ha detto sì alla proposta dell'editore pur essendo scettico su questa tipologia di contenuti. Il suo Terra contesa. Israele, Palestina e il peso della storia, inoltre, è un classico per chi voglia approcciare alla questione e per questo motivo abbiamo deciso di aggiungere a quelle a cui risponde nel libro qualche domanda sia sull'attualità (come la decisione di Netanyahu di occupare Gaza) che sulla Storia.
Cosa significa ciò che ha deciso il governo israeliano?
Il “controllo temporaneo” della striscia di Gaza deciso dal governo israeliano ricorda il "controllo temporaneo" della Cisgiordania. Nel 1967 le autorità israeliane chiarirono che l’occupazione era “temporanea” e, per i 58 anni successivi, hanno agito come se lo fosse. Anche la "Legge sulle proprietà degli assenti", approvata dalla Knesset nel 1950, aveva in teoria un carattere “temporaneo”. Il “controllo temporaneo” di Gaza è propedeutico all’implementazione di alcuni punti già contenuti nel "Piano di soggiogamento" presentato nel 2017 dall’attuale ministro Bezalel Smotrich: un piano finalizzato, in primo luogo, all’espulsione di massa dei palestinesi. Anche se Hamas lasciasse ora Gaza—in linea con il piano egiziano rifiutato da Netanyahu—e gli ostaggi venissero rilasciati oggi, il primo ministro israeliano ha chiarito in maniera ufficiale che le espulsioni di massa sono la "precondizione per la fine della guerra".
Alcuni sembrano giustificare la condizione vissuta dai palestinesi. Come lo spiega?
Si parla di frequente, giustamente, di "diritto all’autodifesa". Ma solo per una parte: la potenza occupante. Viene sovente sottolineato che alcune fazioni palestinesi "minacciano di cancellare Israele", ma chi lo fa non sembra mostrare lo stesso disagio se ciò accade—a parti inverse—ai più alti livelli politici e, per limitarsi a un esempio, quando i soldati israeliani cantano “non ci sono civili innocenti a Gaza”. Chi è mosso da forme più o meno velate di odio verso i palestinesi si abbevera di questo: la normalizzazione del diritto di opprimere e dei doppi standard. Le persone integre e coerenti, al contrario, si oppongono a tutti gli estremismi e i fanatismi con uguale determinazione, impegnandosi a trovare un messaggio-ponte che permetta a questi due popoli di vivere fianco a fianco sulla stessa terra.
L’odio verso "gli altri" è rintracciabile in entrambi i popoli?
La negazione e la disumanizzazione degli "altri" è ben visibile tanto tra i palestinesi quanto tra gli israeliani. La pluridecennale presenza di un esercito occupante e di milioni di civili sotto occupazione militare è invece una condizione vissuta, rispettivamente, solo da una delle due parti in causa.
La strategia del governo israeliano risulterà vincente?
Si può e si deve combattere il terrorismo in ogni sua forma e manifestazione. Ma non sarà un'invasione militare e dei bombardamenti, peraltro in larghissima parte su bambini e civili inermi, a eliminare il concetto di resistenza violenta all’occupazione, all’oppressione strutturale, alla sigillatura della striscia di Gaza e alla perdurante negazione dell’autodeterminazione di uno di questi due popoli. Mi lasci aggiungere che non esiste, né esisteva, alcun rischio di cancellazione di Israele, una potenza nucleare, l’unica nella regione mediorientale, sostenuta da quasi tutto l’Occidente. Per converso, l’obliterazione e la “conversione messianica” dei pezzi di terra che restano, o restavano, in mano ai palestinesi non rappresentano un rischio, bensì una tangibile realtà in atto da molto tempo.

Hamas definisce la scelta del governo israeliano "un crimine di guerra". Quali sono le principali responsabilità di Hamas, oltre all’attacco del 7 ottobre?
Hamas non è nelle condizioni di impartire lezioni a nessuno. Il fallimento della sua leadership è sotto gli occhi di tutti, palestinesi in primis. I crimini del 7 ottobre – compreso il rapimento di 250 persone, tra cui alcuni neonati e bambini – rappresentano il punto più alto di un epocale fallimento, morale e politico. Ciò premesso, il 51% della popolazione della striscia di Gaza ha meno di 18 anni: quando Hamas vinse le elezioni, nel 2006, più della metà degli abitanti non era neanche nata. In quelle elezioni Hamas prese il 45% dei voti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza.
Come ci riuscì?
Ci riuscì, in primo luogo, perché si presentò come l’alternativa ad al-Fatah, ritenuta, non a torto, profondamente corrotta. Inoltre, tra la fine di settembre e il 6 ottobre 2023, un sondaggio condotto da Arab Barometer in Cisgiordania e Gaza mostrava che solo il 29% degli abitanti della striscia di Gaza sosteneva Hamas. La larga maggioranza degli interpellati criticava in modo netto la leadership inaffidabile e le condizioni di povertà dovute anche alle politiche di Hamas. Non solo: una maggioranza altrettanto ampia si era espressa a favore dell’autodeterminazione di entrambi i popoli e contro le ideologie promosse da Hamas.
Quali sono le origini di Hamas?
Servirebbe molto più spazio. Qui basti accennare che Hamas è nata nel 1987, 20 anni dopo l’inizio dell’occupazione israeliana di Gaza. Nel 1948 quelli che sarebbero divenuti i suoi tre principali fondatori erano dei bambini, compresi tra gli 1 e i 12 anni, appartenenti a famiglie brutalizzate e poi deportate da città dell’odierno Israele verso la cosiddetta striscia di Gaza. Giusto e sacrosanto condannare i crimini Hamas, meno corretto è pensare che venga da Marte o che sia un prodotto intrinseco della “mentalità palestinese”.
Se oggi venissero fatte delle elezioni in Palestina, chi vincerebbe?
È difficile dirlo e, in una tale devastazione, organizzare delle elezioni, o condurre dei sondaggi, è assai arduo e poco attendibile. Voglio però ricordare che l’ultima volta che i palestinesi erano vicini alle elezioni nazionali, nel 2021, Netanyahu arrestò i candidati in Cisgiordania e inviò il suo capo dello Shin Bet per fare pressioni su Abu Mazen affinché le annullasse. Era lo specchio di una vecchia strategia articolata in tre elementi: 1. Silurare ogni possibilità di accordo 2. Sostenere gli elementi più estremisti. 3. Minare le condizioni affinché possa diventare necessario fornire concessioni al tuo nemico.
Qual è condizione dei palestinesi in Cisgiordania?
La Cisgiordania rappresenta l’unica area al mondo in cui milioni di civili sono soggetti a tribunali militari da oltre 50 anni: stando a fonti ufficiali israeliane, il tasso di condanne per i palestinesi in questi tribunali è pari al 99,74 percento. Secondo il diritto internazionale, la facoltà di perseguire civili in tribunali militari può essere contemplata solo ed esclusivamente su base temporanea. Sempre in Cisgiordania, i giovani palestinesi, compresi quanti hanno tra i 12 e i 15 anni di età, vengono processati in un tribunale militare minorile, con lo stesso personale e le medesime stanze utilizzate per gli adulti: si tratta dell’unico “tribunale militare minorile” al mondo.

Lorenzo Kamel e la copertina del suo ultimo libri[/
Dove finiscono gli aiuti internazionali destinati ai palestinesi?
La Corte internazionale di giustizia (CIG) ha sottolineato, in un parere consultivo reso pubblico in data 19 luglio 2024, che l’occupazione del territorio palestinese – Cisgiordania con Gerusalemme est e Gaza – è illegale e deve immediatamente cessare, sottolineando altresì che le autorità israeliane discriminano i palestinesi – sottraendo illegalmente le loro risorse naturali – e violano l’art. 3 della convenzione contro le discriminazioni razziali, che richiama l’apartheid, un termine esplicitamente usato dalla Corte.
Ha inoltre chiarito che ai palestinesi spettano restituzioni, risarcimenti e compensazioni per i 57 anni di occupazione illegale. Come documentato dalla ong israeliana B'Tselem, circa “il 94%” dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania è trasportato in Israele. A questo si aggiunga che, nelle parole dell'economista israeliano Shir Hever, – il quale ha scomposto le cifre riguardanti aiuti umanitari, aiuti dall’estero e costi dell’occupazione – “almeno il 72% degli aiuti internazionali” destinati ai palestinesi finisce nell’economia israeliana. Il contesto o vale sempre, o non vale mai.
Cosa intende?
Se per discutere di ciò che è avvenuto nella striscia di Gaza dall’8 ottobre 2023 in poi si deve al contempo necessariamente parlare dei crimini compiuti da Hamas il 7 ottobre, ne deve conseguire che per discutere dei crimini del 7 ottobre sia necessario al contempo parlare del contesto vissuto dalla “controparte”. Ad esempio, della pluridecennale occupazione dei territori palestinesi, del fatto che tra il 10 gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 sono stati uccisi 6407 palestinesi e 308 israeliani, delle migliaia di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane senza accuse né processi, del "pogrom di Huwara" del febbraio 2023, oppure, tra molto altro, dei dati ufficiali forniti dall’Unicef, che in data 18 settembre 2023 sottolineava che i primi 9 mesi dello scorso anno erano stati quelli con il maggior numero di bambini palestinesi uccisi nella Cisgiordania occupata, quantomeno da quando l’Unicef stessa ha iniziato a registrare questo tipo di dati. Questo è ciò a cui mi riferisco quando dico che il contesto o vale sempre – e penso sia l’opzione auspicabile – o non vale mai. Studiarlo non deve essere inteso come un modo per condonare i crimini compiuti dai palestinesi o dagli israeliani, bensì come uno strumento per andare alle radici delle questioni e fare luce sul contesto che ancora oggi fa loro da sfondo.
Tornando al presente, Netanyahu ha sostenuto che, una volta occupata l’intera striscia di Gaza, Israele cederà il controllo a “forze arabe”. Che ruolo potrebbe avere un Paese come l’Egitto?
Dobbiamo distinguere il regime egiziano, che rappresenta poco più di sé stesso, dal popolo egiziano. L’Egitto, che dal 1979 è il secondo maggiore beneficiario dei finanziamenti militari esteri americani, è governato da uno dei regimi più brutali della regione. Ciononostante, viene percepito da molti paesi occidentali come uno strumento utile per mantenere "la stabilità della regione". Il popolo egiziano rappresenta una risorsa in questo conflitto, ma non può esprimere né plasmare alcuna soluzione politica. Gli Stati Uniti hanno notevolmente accelerato le vendite di armi all'Egitto negli ultimi due anni e non c’è alcuna possibilità che Il Cairo possa avere un ruolo significativo finché rimarrà pienamente dipendente da attori esterni, e potrà essere ricattato da essi.
Come veniva percepita dai palestinesi l’amministrazione egiziana della Striscia di Gaza dal 1948 al 1967?
Circa mille anni fa il geografo Al–Muqaddasi visitò Gaza e ne descrisse la bellezza. Durante uno dei suoi viaggi gli fu chiesto se fosse egiziano, e lui rispose: "No, sono palestinese". Questa fonte primaria, tra molte altre, ci ricorda che i palestinesi non sono solo “arabi”, così come i sudafricani, gli scozzesi, gli statunitensi e i neozelandesi non sono semplicemente "inglesi", o "angli". Non sorprende quindi che durante l’amministrazione egiziana della striscia di Gaza i palestinesi percepissero tale presenza come un’inaccettabile occupazione della loro terra. A maggior ragione se si considera che le autorità egiziane dell’epoca impedirono ai palestinesi di acquisire la cittadinanza egiziana e li privarono dei loro diritti fondamentali. I palestinesi sapevano che le autorità israeliane erano responsabili per le violenze da loro subite nel 1948, ma erano altrettanto consapevoli che l’Egitto non rappresentava una soluzione: sapevano che per essere liberi dovevano essere sovrani sulla loro terra.
Pochi giorni fa il ministro Abodi, parlando della partita Italia–Israele del prossimo 14 ottobre, ha sostenuto che “a differenza della Russia, Israele è un Paese aggredito". Cosa ne pensa?
Non entro nella polemica. Mi limito a far presente che servono competenze, anche linguistiche e di carattere storico e politico, per discutere di questi temi. Quando la Russia ha occupato la Crimea, giustificando ciò anche con motivi legati alla propria sicurezza, l'Unione Europea ha subito imposto sanzioni. Nulla di ciò è avvenuto in relazione all’occupazione della Cisgiordania, o del Golan. Al contrario, l’Unione Europea è il primo partner commerciale dello Stato di Israele. Ricordo anche il contenuto della Risoluzione 476 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: “l’acquisizione di territorio con la forza è inammissibile […] la necessità impellente di porre fine alla prolungata occupazione dei territori arabi occupati da Israele nel 1967, compresa Gerusalemme”. Questa risoluzione, del 1980, era una semplice richiesta di ritiro, senza alcun riferimento a condizioni o precondizioni. Gli strumenti c’erano, ma molti hanno preferito non vedere.
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Come si presentava Gaza uno o due secoli fa?
Nel 1859 il missionario americano William M. Thomson notò che “la prima volta che arrivai in questa regione fui piacevolmente sorpreso di non trovarmi dinnanzi a un paese piatto e arido […]. Il paese è incantevole e non meno fertile della parte migliore della valle del Mississipi”. Trent’anni più tardi il console britannico a Gerusalemme John Dickson si soffermò sull’area adiacente a Gaza, che secondo la sua testimonianza era “soggetta a coltivazione, con raccolti di grano e orzo curati dagli arabi [crops of wheat and barley being raised by the Arabs]”. Abbiamo numerose fonti anche legate alle aree limitrofe. “Non saprei dire”, notò ad esempio un altro console britannico a Gerusalemme, James Finn, “dove in tutta la Terra Santa ho visto una così eccellente agricolutura di grano, olive e frutteti come qui ad Ashdod", dove ancora nel 1945 la città era abitata da 4620 arabo-palestinesi e 290 ebrei. "I campi", concluse Finn, "farebbero onore all’agricoltura inglese [The fields would do credit the English farming]”.
Un cessate il fuoco è ancora a portata di mano?
Un cessate il fuoco, senza un accordo, è qualcosa di molto lontano dalla pace. È una pausa, un conto alla rovescia per il round successivo, vicino o non lontano che sia. Mi lasci anche dire che non c’è una soluzione militare a un problema che è prima di tutto politico. La Storia, anche di quest’ultimo secolo, mostra numerosi esempi di guerre che si sono concluse senza vincitori né vinti: basterebbe citare la guerra di Russo-Giapponese del 1904, quella di Corea nel 1953, il Vietnam nel 1975, le Falkland nel 1982, la guerra Iran-Iraq del 1988, la Bosnia del 1995, solo per fare alcuni esempi. Il concetto di guerra totale, fino alla resa "senza condizioni", è un prodotto proprio della tragica storia delle guerre mondiali, quelle che hanno causato il maggior numero di morti nella storia dell’umanità. Qualche giorno fa rileggevo ciò che scrisse un reporter inviato in Medio Oriente, David Douglas Duncan, nel 1956: "È un’ironia ricorrente della storia – notò -, che le grandi guerre nascano in piccoli luoghi. La Prima Guerra Mondiale ha avuto la sua Sarajevo, la Seconda Guerra Mondiale la sua Danzica. La prossima guerra potrebbe benissimo partire da uno stretto lembo di pianura ondulata e deserto nudo nota come la striscia di Gaza".
Un’ultima domanda sui civili uccisi a Gaza negli ultimi due anni. Quali sono i dati che ritiene più credibili?
L’Alto commissariato dell’ONU per i diritti umani ha documentato—"con 3 fonti indipendenti" per ciascuna vittima—che larga parte delle vittime palestinesi accertate si trovavano all’interno di "edifici residenziali" e che il 44% di esse erano bambini, per lo più tra "i 5 e i 9 anni di età". Per rimanere ai primi 100 giorni post-7 ottobre, sono stati uccisi 250 palestinesi al giorno: più di qualsiasi altro conflitto di questo secolo: Iraq, Ucraina, Siria e Yemen compresi. Nonostante le chiare evidenze, alcuni hanno messo in dubbio la "strage di bambini" che sta avvenendo in quella che secondo l’Ufficio per gli affari umanitari dell’Onu (OCHA) è l’area del mondo con "il maggior numero di bambini amputati nella storia moderna": i "negatori della realtà" sono sempre esistiti e vanno considerati e trattati come tali. Altri hanno giustificato l’uccisione di decine di migliaia di civili – e, stando alle stime prodotte da 99 operatori statunitensi che hanno prestato servizio a Gaza, di un totale di oltre 118.000 persone – sostenendo che ciò è giustificabile alla luce del fatto che essi vengonousati come “scudi umani” da Hamas. Quest’ultimo ha introdotto un nuovo modello ibrido di guerra sotterranea-terrestre, con miliziani che si ritirano rapidamente sotto terra dopo aver ingaggiato le forze israeliane.
Tutto ciò giustifica tutte queste morti e questa distruzione?
La legge internazionale – così come il buon senso – non contempla il diritto di bombardare e radere al suolo interi quartieri ed edifici pieni di civili sulla base della presunta presenza di uno o più terroristi. A ciò si aggiunga che le autorità israeliane hanno nascosto armi e gruppi terroristici all’interno di ospedali e sinagoghe fin da prima della fondazione dello Stato: ciò viene ricordato anche in diverse placche commemorative esposte a Tel Aviv e altre città israeliane. Esistono inoltre decine di video a riprova del fatto che i palestinesi – compresi giovani uomini e bambini – sono sovente utilizzati dai soldati israeliani come scudi umani durante le loro operazioni militari. Mi lasci anche accennare a un'altra cosa.
Prego.
Qualche anno fa ho lavorato per un periodo presso l’IDFA, l’Archivio dell’esercito israeliano a Tel-Hashomer, che è circondato sia da basi militari che da abitazioni civili. La narrazione degli scudi umani, sovente utilizzata per giustificare ciò che sta avvenendo, è utile a normalizzare dei crimini di guerra e a sdoganare un diffuso anti-palestinianismo. Come ho ricordato spesso in questi ultimi anni, l’antisemitismo e l’anti-palestinianismo rappresentano due facce della stessa medaglia: entrambi sono radicati in una profonda ignoranza e in un viscerale odio verso "l’altro".