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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Ilan Pappè: “In Palestina genocidio e pulizia etnica. L’Europa razzista ignora i bambini morti perché sono arabi”

Ilan Pappé ha pubblicato La fine di Israele e a Fanpage ha parlato del genocidio a Gaza e della pulizia etnica in Cisgiordania, raccontando il fallimento della comunità internazionale e del razzismo dell’Europa.
A cura di Francesco Raiola
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Ilan Pappé e immagini di bambini gazawi in cerca di cibo (Getty)
Ilan Pappé e immagini di bambini gazawi in cerca di cibo (Getty)
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Il titolo dell'ultimo libro dello storico israeliano Ilan Pappé, uno dei massimi studiosi della questione israelo-palestinese, "La fine di Israele" (Fazi editore) potrebbe sembrare provocatoria, ma non lo è. Nella misura in cui lo storico analizza come lo Stato israeliano stia andando verso la sua fine come lo conosciamo adesso, scontrandosi contro un0atteggiamento violento che non stenta a definire genocida. Il sottotitolo, infatti, recita: "La fine del sionismo e la pace possibile in Palestina" e in questi giorni, nonostante l'accordo di pace di Trump, non è facile guardare a quello che accade con ottimismo, con gli insegnamenti del passato, migliaia di morti palestinesi, la colonizzazione illegale della Cisgiordania e una cecità della comunità internazionale che anche di fronte a oltre 70 mila morti in due anni trova sempre una giustificazione, preferendo attaccare azioni simboliche come quelle della Flotilla che ha cercato di rompere il blocco marittimo nelle acque antistanti Gaza piuttosto che prendere iniziative serie contro il governo Netanyahu (in cui ci sono anche politici estremisti come Ben-Gvir e Smotrich). Ilan Pappé prova ad analizzare il fallimento di ciò che è avvenuto fino a oggi, reso quasi peggio dall'attacco terroristico del 7 ottobre 2023, nella seconda parte, invece prova a delineare sette piccole rivoluzioni cognitive e sociali che bisognerebbe mettere in pratica per poi pensare a un vero processo di pace, fino alla terza parte che immagina una visione futura di pace e speranza. Qui l'intervista allo storico (fatta prima dell'accordo di cessate il fuoco siglato nella notte)

Professore, cosa intende quando parla della fine di Israele?

Quello che intendo è che ci troviamo in un processo storico di cui dobbiamo prendere atto. Può piacerci o meno ma non possiamo ignorare il fatto che lo Stato israeliano, nella sua fase attuale, non è ben visto da moltissime persone nel mondo. È visto come uno Stato razzista, alcuni direbbero persino fascista, sicuramente uno Stato molto aggressivo che negli ultimi due anni ha commesso un genocidio e non molti gli Stati che sono accusati di genocidio ai nostri giorni. È uno Paese che sta commettendo una pulizia etnica in Cisgiordania, una vera minaccia per i suoi vicini e ha già occupato una parte della Siria e del Libano. Allo stesso tempo, è uno Stato che ha enormi problemi sociali interni e c'è un problema di fondo: è ancora uno Stato europeo che cerca di stare all'interno del mondo arabo e contro di esso.

Quindi cosa pensa che succederà in futuro e cosa può fare la Politica?

Non posso sapere esattamente come andrà a finire, posso solo dire che questo non può continuare. Molti sottolineano come, oggi, politici come Trump e Meloni sostengano Israele, ed è vero, infatti non sto dicendo che un cambiamento accadrà domani, ma i politici di oggi non sono necessariamente quelli di domani. E se, a differenza del passato, Israele dipende dai partiti populisti di destra per essere legittimo, questo è molto problematico.

Perché?

Perché se un Presidente progressista venisse eletto negli Usa o in altri Paesi europei le sanzioni potrebbero essere una parte molto importante delle relazioni tra Europa e Israele. E cose simili possono accadere anche nel mondo arabo. Nel libro esprimo la speranza che quello che c'è oggi possa essere sostituito da qualcosa di meglio. Sono preoccupato che possa anche portare al caos e alla violenza, ma uno Stato non può finire, un regime sì. Non sono un profeta, non posso dirlo con esattezza, ma vedo il crollo. Conosco gli ebrei, sono ebreo, e non credo che Israele sia uno stato ebraico, penso che sia uno stato sionista e razzista. Non è la stessa cosa.

Cosa pensa che il 7 ottobre abbia cambiato nella storia di questo conflitto?

Per certi versi non ha cambiato molto, è stato solo uno shock molto forte per un sistema che era già molto debole. È come un terremoto che ha colpito un edificio che stava già tremando. Quindi, da un lato, ha accelerato il processo di disintegrazione dei problemi, dall'altro lato, però, è molto significativo perché ha riportato la Palestina al centro delle preoccupazioni internazionali dopo che la guerra in Ucraina l'aveva completamente messa da parte. E ha anche fatto qualcosa di molto più importante.

Ovvero?

L'intero atteggiamento dell'Occidente nei confronti di Israele e Gaza apre la questione di cosa sia la giustizia internazionale e quale sia il futuro della politica nel mondo. Penso che gli ultimi due anni a Gaza porterebbero a riaprire la questione di cosa sia il diritto internazionale, cosa siano i valori universali, cosa sia la cooperazione globale.

Lei usa spesso l'espressione, "come storico". Si è sentito attaccato per la sua posizione negli ultimi anni? Alcuni le danno del partigiano.

Tutti gli storici sono di parte. Bernard Russell diceva che tutti gli storici hanno un'opinione e quelli che affermano di non averne una sono quelli con l'opinione più ferma, quindi nessuno scrive la Storia in maniera oggettiva. Questo non significa che non dobbiamo assicurarci che i fatti vengano esaminati, basando la nostra analisi su documenti, su fonti, dobbiamo impegnarci affinché ciò accada.

Qual è, quindi, il ruolo dello storico nel presente?

L'unica cosa che puoi fare lo storico, sia per il presente che per il futuro, è fornire un contesto. Per esempio, possono spiegare cosa intendeva il Segretario Generale delle Nazioni Unite Gutierres quando ha detto: "Ho condannato l'attacco di Hamas, ma voglio che la gente ricordi che questa cosa non è nata dal nulla". È necessario che gli storici spieghino cosa significa: che non significa giustificare l'attacco di Hamas, ma spiegare perché è accaduto. Ovviamente la Storia non è l'unico modo per capire cosa non va nel presente e cosa potrebbe accadere in futuro, ma è un modo costruttivo di farlo, contribuisce all'analisi della realtà nel presente e alla riflessione sul futuro.

Cosa intende quando dice che qualunque processo di pace non può non fare i conti con Hamas?

Hamas è molto più di un semplice movimento a Gaza. Come tutti i movimenti di liberazione arabi, quello palestinese ha le tre correnti che li caratterizzano: la sinistra, il centro e l'Islam politico. Quando la sinistra e il centro non hanno portato alla liberazione, la gente ha dato una possibilità ai gruppi politici islamici e quando questi falliscono, la gente torna a sinistra e al centro. L'idea che l'Islam sia una parte importante della politica, della società e della vita sarà sempre parte del mondo arabo e la Palestina è nel mondo arabo, non è in Europa. E tutte le persone coinvolte nella politica, nella vita intellettuale, nel mondo arabo, lo capiscono.

Si parla di Due popoli, Due stati, ma lei sostiene che è un'idea non più applicabile.

Non credo che sia più una soluzione rilevante, innanzitutto per ragioni pratiche: ci sono 800.000 coloni ebrei in Cisgiordania e alcuni di loro vivono in grandi città. Quindi è impossibile riuscire a vedere, cartina alla mano, dove sarà lo stato palestinese. Guardo la mappa e non credo che ci sia abbastanza spazio geografico per un vero Stato palestinese. Inoltre, servirebbe avere un partito politico in Israele che creda davvero nei due stati e al momento non esiste. Poi non è nemmeno morale, secondo me.

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Quale sarebbe il problema morale della soluzione?

Offrirebbe una soluzione per il 20% della Palestina e solo per una parte della popolazione palestinese. È come curarti la mano quando in realtà soffri di cancro. Per 55 anni hanno detto di essere a favore della soluzione dei due Stati ma non è successo niente.

Perché i palestinesi non hanno abbandonato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, nonostante tutte le sofferenze e la morte che stanno vivendo?

Le persone sono molto legate alla loro terra, alla patria, all'eredità, alla tradizione. È quasi come se pensassero che se li sradichi, la vita non valga la pena di essere vissuta. L'attaccamento alla terra è l'ultima cosa che hanno, perché non hanno il potere di impedire la colonizzazione o l'occupazione. I palestinesi lo chiamano Sumud, termine che possiamo tradurre con resilienza. Non se ne andranno e se saranno costretti a farlo faranno tutto il possibile per tornare. E a questo aggiungerei un'altra cosa.

Prego.

Se lasci Roma e vai a lavorare a New York non senti un senso di ingiustizia, perché è una tua decisione, mentre i palestinesi sono motivati ​​un'altra cosa: non posso vivere nella mia patria a causa di un'ingiustizia. Una cosa è decidere di andarsene perché si vuole una vita migliore o più sicura, un'altra è andarsene perché qualcuno ha creato ingiustamente le condizioni per impedirgli di vivere.

Senta, com'è la vita a Gaza oggi? 

Penso che sia l'inferno in Terra. Non credo che abbiamo mai vissuto un posto simile a Gaza nella storia moderna. Ci sono intere città completamente rase al suolo, il 90% della popolazione vive in tende e altrettante rischiano di morire se vanno a comprare o a ricevere pane o medicine. La maggior parte degli ospedali e delle scuole non c'è più. Immagina una società in cui l'unica cosa che ti rimane è un pezzo di terra e una tenda e dove la gente muore di fame. Sì, forse qua e là ci sono piccole comunità che sono in condizioni migliori, ma la stragrande maggioranza sta vivendo l'inferno.

Eppure vogliono restare o tornare.

È incredibile che resistano ancora e siano resilienti, infatti, anche perché la maggior parte di loro dipende dagli aiuti per mangiare. E allo stesso modo se vuoi cure mediche, dipendi dal sostegno internazionale per gli aiuti medici e dai medici che coraggiosamente si offrono volontari per lavorare. E visto che Israele non permette ai giornalisti di entrare nella Striscia, la gente di Gaza si è trasformata in giornalista di se stessa e su YouTube puoi trovare molti reportage di giovani palestinesi. Le è mai capitato che una bomba di una tonnellata cadesse vicino a lei?

No, per fortuna.

Esatto, a me è capitato una sola volta e mi ha traumatizzato per tutta la vita. Immaginate di viverlo ogni giorno, è psicologicamente distruttivo, gli ultimi due anni sono stati davvero un inferno. Ed è molto importante finirla il prima possibile perché la situazione sta solo peggiorando.

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Abbiamo avuto un nostro collega di Fanpage, Saverio Tommasi, su una delle imbarcazioni della Sumud Flotilla. Cosa ne pensa di questo tipo di azione?

Penso che sia un atto simbolico molto importante perché manda un messaggio alla popolazione di Gaza: non siete stati dimenticati. E ne manda uno anche a Israele: la gente è consapevole che il suo assedio a Gaza è illegale, è un crimine di guerra. Se osservi la composizione delle persone che si uniscono alla Flotilla, poi, noti che provengono da ogni ceto sociale e da tutti i paesi del mondo. Cercano di non cedere all'incomprensibile indifferenza dell'Occidente verso il genocidio, all'indifferenza delle élite politiche. Questa storia rimarrà impressa nella memoria: le società non sono state indifferenti nonostante i politici non stiano facendo nulla di serio al riguardo.

Cosa pensa delle sanzioni americane contro Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati?

Penso non solo a Francesca, ma alle sanzioni che l'America ha imposto ai giudici della Corte Internazionale di Giustizia, membri della Corte Penale Internazionale e della Corte Suprema del Brasile. L'America si comporta come un delinquente, eppure il presidente Trump pensa di meritare un Premio Nobel per la Pace. Questo è un comportamento mafioso. Tra l'altro non credo sia nemmeno un'idea americana, ma ci siano lobby israeliane dietro, sono loro ad aver dato a Trump questa idea.

Riguardo a Liliana Segre, senatrice italiana e sopravvissuta al campo che non considera genocidio ciò che sta accadendo a Gaza, Albanese ha affermato: "Nutro un enorme rispetto per lei e per il suo dolore, ma non è la sua opinione, o la sua esperienza personale, a stabilire la verità su ciò che sta accadendo […] c'è chiaramente un condizionamento emotivo che le impedisce di essere imparziale e lucida di fronte a tutto questo". E ha affermato che "se una persona ha una malattia, non si rivolge a un sopravvissuto per una diagnosi, ma a un oncologo". Cosa ne pensa?

Infatti noi siamo andati dall'oncologo, dai medici, per chiedere il loro parere se si tratti di genocidio o meno. Non lo abbiamo chiesto al sopravvissuto, ma ai più grandi nomi del diritto internazionale ed esperti accademici in materia di genocidio. E ognuno di loro ha affermato che, secondo la definizione di genocidio delle Nazioni Unite, e quella degli studiosi accademici, questo è un classico caso di genocidio. Non sono stati i palestinesi a sostenere che si trattasse di genocidio, è stato il sistema giuridico internazionale a sostenerlo.

I bambini sono una parte centrale di questo conflitto: com'è possibile assistere allo sterminio di innocenti e non poter fare niente nemmeno come comunità europea/internazionale?

Penso che ciò avvenga perché i palestinesi sono stati disumanizzati fin dall'inizio del progetto sionista. Non sono trattati come esseri umani normali né come esseri umani alla pari, quindi non c'è compassione per un bambino palestinese mentre ce n'è per un bambino ucraino. Devi essere bianco ed europeo per ottenere la piena compassione: anche questo è orientalismo e razzismo, se un bambino è nero o arabo non è come un bambino biondo. L'Europa è molto razzista e molto ipocrita quando si tratta della sofferenza delle persone, e questo è qualcosa con cui dovrà fare i conti.

Siamo molto concentrati sulla Striscia di Gaza mentre la situazione in Cisgiordania sta peggiorando, il processo di colonizzazione è qualcosa che possiamo vedere ogni giorno.

La crudeltà di Israele verso i palestinesi ha diverse versioni: mentre a Gaza è in atto un genocidio, in Cisgiordania si tratta principalmente di pulizia etnica, che permette ai coloni ebrei di fare i vigilanti e molestare la gente. L'esercito fa quello che vuole, ogni giorno i giovani vengono uccisi, feriti o arrestati. Il mondo, in particolare i media, non è interessato alle piccole tragedie, hanno bisogno di una grande tragedia come quella di Gaza, senza rendersi conto dei singoli morti ogni giorno in Cisgiordania. Quella di Israele è una politica criminale.

“From the river to the sea” è uno slogan che indica chi vuole la scomparsa di Israele oppure è solo un inno di liberazione?

Penso che rappresenti il desiderio di tante milioni di persone che vivono tra il fiume e il mare, che non sono importa siano ebrei o palestinesi, e soffrono per diverse forme di razzismo e apartheid, pulizia etnica e ora anche per il genocidio di Gaza. È solo un impulso naturale a vivere una vita normale come persone libere, qualcosa che è stato negato negli ultimi 100 anni. È uno slogan positivo che dice che qualunque cosa la gente apprezzi in Italia, dovrebbe meritarsela anche in Palestina, spiegando a tutti che i palestinesi non possono godersi la scuola e il lavoro in sicurezza o anche solo vivere in sicurezza nelle loro case. Tutto questo ci sembra normale in Italia ma è impossibile in qualunque parte della Palestina. Per questo penso che sia questo l'essenza di questo slogan.

(Questa intervista – fatta prima dell'accordo di cessate il fuoco – è stata editata per motivi di lunghezza e chiarezza)

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