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Gianni Togni: “Oggi non mi pubblicherebbero l’album di Luna. È difficile essere diversi, per questo amo Lucio Corsi”

Gianni Togni racconta il restauro del suo disco del 1980 tra ricordi, tecnica e nuove scoperte: “Non guardo al passato, ma continuo a imparare dal suono”. E sui Pooh che lo tennero con loro tre anni dice: “Mi hanno insegnato la precisione”.
A cura di Federico Pucci
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Gianni Togni
Gianni Togni

Un disco emblematico degli anni '80, contenente uno dei successi più amati della canzone pop italiana, è tornato fra noi come non è mai stato sentito prima. Letteralmente. Si tratta di …e in quel momento, entrando in un teatro vuoto, un pomeriggio vestito di bianco, mi tolgo la giacca, accendo le luci e sul palco m'invento… di Gianni Togni, pubblicato alcune settimane fa in un cofanetto contenente il vinile e un CD con quattro versioni alternative e la traduzione spagnola di Luna, la hit che avrebbe cementato il nome del musicista romano e il (lungo) titolo del suo secondo album nella storia del nostro pop. "È stato un lavoro di restauro complesso e molto più lungo di quanto mi aspettassi. Io non guardo molto al passato, però questa è stata un'occasione molto bella per imparare a fare qualcosa di nuovo", mi spiega il musicista in una conversazione condensata di seguito a proposito di memoria e nostalgia, riscritture e tempi andati che ritornano.

C’era qualcosa da correggere nei nastri originali?

Le chitarre di Roberto Puleo, purtroppo, avevano un suono nasale dovuto a un errore tecnico. C’erano diversi rumori di fondo e rientri. E un rullante registrato molto male, per il quale abbiamo dovuto cercare in tutti i nastri un suono venuto bene, e replicarlo nel resto del disco. Sono stati tolti anche gli echi della voce, il che ha dato più spazio agli archi e al pianoforte. Ma sempre nel rispetto dell’originale, che non è stato stravolto. Riascoltare fianco a fianco il nastro e il remaster mi ha riportato indietro nel tempo: è una fotografia di come venivano registrati i dischi allora.

In che senso?

Dobbiamo ricordare che quello era il primo disco dell’ingegnere del suono che lavorò con noi. C’era tanta inesperienza, com’è naturale. E poi anche se avessi voluto cambiare qualcosa in corso d’opera, non avrei potuto: il produttore era il capo della situazione, in quel caso Giancarlo Lucariello, e io dovevo limitarmi a suonare e cantare. Al limite a riscrivere se notavo che mancava qualcosa a una canzone. Oggi un artista ha molto più input sul prodotto finale, se vuole, e questo è bello.

È nata così anche la decisione di inserire quattro versioni alternative di brani come Maggie e Pomeriggio maledetto?

Una volta si dovevano registrare più parti, perché se poi ci ripensavi e magari volevi aggiungere nell’arrangiamento una parte orchestrale, era complesso trasportarla in post-produzione. Quindi si fissavano sul nastro molte più parti di quelle che ascoltiamo nel disco finito. Nel mio caso c’erano tante parti di orchestra che erano state mutate nel mix finale. E così ho usato quelle parti che nelle otto canzoni ho invece mantenuto in modo fedele. Volevo dare l’idea di un mondo fatto in altro modo, ma anche dare una veste più raccolta e delicata a quelle canzoni, privandole della ritmica.

Scavando tra i nastri hai scoperto qualcosa di inatteso?

Togliendo la batteria a Maggie mi sono accorto che il brano accelera leggermente, e finisce di almeno 10 bpm più veloce. Non ci avevo mai fatto caso in tutti questi anni. Registravamo senza click ed era il batterista a dare il tempo, quindi i pezzi di una volta potevano fluttuare leggermente. Ma questo gli dava anche più vitalità.

Non dimentichiamo che tu stesso eri giovanissimo durante quelle sessioni del ‘78-79, poco più che ventenne. Ma qualche esperienza l’avevi già fatta.

Prima c’era stato il Folkstudio Giovani, dove potevo suonare solo la domenica pomeriggio perché minorenne. Erano state esperienze fondamentali: non c’era X Factor per farsi scoprire, allora, e quindi o andavi al parchetto con una chitarra, oppure il Folkstudio per essere notato, perché anche la domenica pomeriggio venivano ad ascoltarti quelli che avevano qualche anno in più e che si interessavano, come Locasciulli o Zenobi.

Poi arrivò il primo disco, nel 1975: In una simile circostanza, che purtroppo non è disponibile in streaming!

Quando ho fatto quell’album ero talmente piccolo che mio padre dovette scrivermi una giustificazione per il liceo, perché dovetti stare via un mese per registrare. Un’altra esperienza indimenticabile, con grandi jazzisti: Patrizia Scascitelli al piano, Bruno Biriaco alla batteria, Carlo Siliotto al violino, Mandrake alle percussioni e molti altri. Tutti musicisti importanti.

Quindi nel 1977 arrivano i Pooh che ti chiedono di aprire i loro concerti. Come andò?

Mi contattarono per sostituire l’artista di apertura che era stato scelto in origine, e aveva avuto la febbre o qualcosa del genere. Dovevo fare solo tre concerti, sono rimasto con loro per tre anni. Quando videro che il pubblico gradiva la mia musica, mi tennero e da loro ho imparato tanto: come si sta su un palcoscenico, prima di tutto. Anche la loro precisione: con i Pooh ogni cosa deve essere al suo posto. È stata una lezione importantissima. Furono tre anni di formazione: con loro ricordo che vidi il mio primo musical, mentre eravamo in tournée negli Stati Uniti. Non sapevo che anni dopo ne avrei scritti anche io, di musical.

A quel periodo risale anche il famoso disco perduto, che poi hai scovato e pubblicato nel 2016 con il titolo Canzoni ritrovate.

Quando i Pooh mi ingaggiarono per i loro concerti, mi misi a scrivere 6-7 pezzi nuovi per avere del repertorio più adatto a quel tour, dal momento che la musica del mio primo album era troppo "freak" e sperimentale. E così poi decidemmo di provare a registrarlo, con Red Canzian alla produzione: erano state delle sessioni bellissime, con Claudio Fabi agli arrangiamenti che si presentava sempre in studio con il suo cane. Fece in tempo anche a uscire il singolo Ma tu non ci sei più. Ma prima che tutto fosse concluso la casa discografica Produttori Associati fallì.

Fu almeno un’esperienza formativa?

Imparai a comporre in modo diverso. Io ascoltavo tanto folk e prog, e invece per quel disco scegliemmo un’altra direzione. Che mi insegnò prima di tutto a non ripetere mai lo stesso disco due volte, cosa che ho mantenuto nel resto della mia carriera.

La cover dell’album di Gianni Togni “…e in quel momento…"
La cover dell’album di Gianni Togni “…e in quel momento…"

Si nota già nel disco successivo, …e in quel momento, entrando in un teatro vuoto… molto differente dall’esordio del ‘75.

In quel disco ho cercato di racchiudere un mondo che avevo intorno, sia da un punto di vista musicale, sia dal punto di vista dei testi con Guido Morra. Musicalmente c’è una varietà molto grande: potevi sentire i Queen, Elton John, i Supertramp, David Bowie, i Genesis che erano diventati più pop e i Fairport Convention, fino a Stevie Wonder. E nei testi c’era il racconto di un momento di passaggio, soprattutto a Roma, dopo anni complicati per noi ragazzi, in cui gli schieramenti erano due e la battaglia politica era dura specie per gli studenti come me all’epoca. Però era allo stesso tempo una vita in cui si passavano serate insieme per parlare di poesia ma anche di stupidaggini. Nelle canzoni volevo che trasparissero anche le diverse estrazioni culturali dei nostri gruppi: per esempio, per Maggie ci siamo ispirati a una ragazza che era figlia di figli dei fiori. C’erano differenze tra noi, che il mondo digitale forse ha un po’ appiattito.

Sono cambiati i ragazzi?

Non saprei, sicuramente è cambiato il contesto in cui vivono, si incontrano, agiscono. Conosco tanti ragazzi straordinari, molti che si dedicano al volontariato, chi sceglie studi già con un’idea precisa in mente e non solo l’obiettivo della carriera. Certo esistono anche i ragazzi che si scontrano con il mondo, che non si sentono perfetti, che si chiudono in casa, fuggono dalla realtà o diventano violenti, sono quelli di cui ho parlato nel mio ultimo album Edizione straordinaria. Ma nella Roma di 45 anni fa non mi capitava di incontrare hikikomori, e anche i clochard erano pochi: quello che ci ispirò Luna lo vedemmo nella metropolitana di Milano. Oggi purtroppo ne vedo tantissimi.

Ma che messaggio resta di …e in quel momento, entrando in un teatro vuoto…?

La libertà. Oggi ti farebbero pubblicare un disco con un titolo così lungo? Con un singolo come Luna che ha un testo che sfiora il non-sense? Con pezzi come Giardini in una tazza di tè, così folk psichedelico? O È bello capirci (senza essere uguali) con tutti i suoi movimenti e cambi di passo? E questo usciva con un’etichetta grossa come la CGD.

Non è più possibile oggi essere diversi?

Certamente esistono artisti ancora che osano, come il mio preferito in assoluto di questi anni, Bon Iver. Ma anche in Italia c’è Iosonouncane, che scrive bellissime melodie ma arriva anche a inventare una lingua, come aveva fatto De André. Oppure Lucio Corsi, che mi piace perché non segue le mode e scrive dei bellissimi versi. Sono un po’ fuori dal mondo, però, mentre la divulgazione è tutta concentrata sulla musica che deve piacere ai più giovani. E poi, alla fine, a molti di questi giovani piacciono le nostre cose. Non dico necessariamente le mie, ma sentono i Pink Floyd o i Beatles, e li vedo anche ai concerti che frequento io: ne ho visti tanti dai Sigur Rós per esempio, o da Björk a Bologna, ma anche dai Rolling Stones o da Paul Weller. Il mondo si è un po’ diviso in due.

A proposito di Lucio Corsi, se leggo certi versi del tuo primo disco, come "Lo shampoo non basta per la forfora nel cervello", o "mia madre piangerà se mi ucciderò prima di Carosello", potrei confonderli con versi di Lucio…

È vero! Penso che abbia un modo di concepire la musica vicino al mio.

Insomma, qualcuno che pensa e vive la musica ancora "come una volta" c’è.

Ho sentito questo bellissimo nuovo album di Andrea Laszlo De Simone e mi sembra che certi suoni stiano tornando. Lo stesso ho pensato ascoltando un gruppo americano di cui si sta parlando molto, i Geese. Ci stiamo riavvicinando al passato, e anch'io ne terrò conto sempre con l’idea di non ripetermi, però. I social possono far scoprire ai più giovani anche la musica del passato, vedi cosa succede spesso su TikTok, che non frequento ma dove so che per esempio Kate Bush ha avuto un momento di gloria.

Tu hai avuto un momento di riscoperta grazie a Jovanotti, qualche anno fa. Ma sai che le tue canzoni sono state campionate anche da altri rapper, compreso Cam’Ron in America che ha ripreso il giro di Quartiere?

Non ne avevo idea. Andrò a sentire.

Anche altri momenti magari meriterebbero una riscoperta. Come l’accostamento inusuale di drum machine e batteria in Io e te nel 1981, o nell’83 il piano e voce quasi lo-fi di Pensierini della sera in contrasto con una produzione ad alta definizione.

Vero, in quel caso registrai tutto in diretta, perché non mi piaceva come stava venendo la parte cantata quando la incidevo separatamente e allora l’abbiamo fatto così, e logicamente è più chiuso. Fa quell’effetto da "cameretta" che usa molto in un certo tipo di musica oggi.

In attesa di essere riscoperto su TikTok, ti tieni aggiornato acquistando nuovi vinili?

Il digitale non mi dà soddisfazione, se un disco mi intriga devo sentirlo in vinile. Adesso sto aspettando l’ultimo dei Big Thief e dei Divine Comedy, I negozi di dischi erano luoghi d’incontro: ricordo quando ci incrociavamo con De Gregori nelle cabine per l’ascolto di Consorti, che erano più che altro sgabuzzini. Ancora oggi quando giro per l’Europa vado sempre a cercare negozi di dischi usati, possibilmente in periferia, e sai qual è il mio disco che trovo più spesso? Bersaglio mobile dell’88 che feci con musicisti straordinari come Pino Palladino!

Un altro disco molto differente dai precedenti, per l’appunto. Ma tutte queste svolte le facevi contro la volontà della casa discografica o no? Cioè, dopo il successo di Luna e poi di Giulia o di Per noi innamorati e tutte le altre hit, ti chiedevano di ripeterti?

No, nonostante tutto c’era un’altra mentalità. Ti racconto un aneddoto. Nel 1981 ero a Verona per le prove del mio primo tour nei teatri: allora, il direttore generale della CGD Sandro Delor mi chiese se volevo invitare qualche amico per tenermi compagnia. Gli diedi i nomi e i numeri, e non ricordo più nemmeno quanti di loro fece arrivare da Roma, con viaggio vitto e alloggio pagati, per non farmi stare solo.

Quegli anni furono pieni di soddisfazioni e viaggi all’estero. Qual è stata un’esperienza curiosa e bizzarra che ancora ricordi?

Nel 1982 andai a fare promozione per un mese e mezzo in Giappone. Quando arrivai a Tokyo, in un bellissimo albergo davanti ai Giardini Imperiali, scoprii che la casa discografica locale aveva preso tutte le stanze del mio piano. Avevano gli uffici in città, ma non volevano lasciarmi solo neppure per un attimo.

Oggi, però, non ti fa piacere partecipare alle rievocazioni televisive dei tuoi grandi successi.

Io non ho nessun problema a riprendere quelle canzoni, ci sono molto affezionato e le canto con grande piacere quando mi esibisco dal vivo. Quando ho riaperto il disco ho ritrovato l’amore, l’atmosfera di quell’epoca: è stato bellissimo, e se me lo proponessero lo farei domani con i miei dischi successivi. Ma oggi ho 69 anni e non posso più cantare quelle cose lì, così come non le cantavo man mano che crescevo, cambiando approccio di volta in volta. Già Semplice non c’entra nulla con Luna. Allora in televisione mi piacerebbe anche portare le canzoni nuove: la gente cambierebbe canale se cantassi Un marziano lungo il Tevere?

L’altra grande tua passione è stata il musical. Hai mai pensato di tradurre i personaggi di …e in quel momento, entrando in un teatro vuoto… in una produzione teatrale?

In questo momento sto lavorando a un nuovo musical, ma da tempo sto pensando di portare in scena i personaggi delle mie canzoni. Vorrei però che fosse una cosa diversa da Mamma mia con le canzoni degli ABBA, con tutto il rispetto: immagino un musical che ti dia modo di pensare, che contenga diverse storie che si intrecciano. Perché a me piace raccontare la vita: basta parlare sempre di se stessi. Non so se lo riuscirò mai a fare, ma se ce la farò non sarà solo per cantare le vecchie canzoni.

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