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Fabri Fibra: “Il rap di oggi è tutto vestiti e vita da club. I miei album sono stati l’11 settembre della musica”

Fabri Fibra ha pubblicato Che gusto c’è, la nuova canzone con Tredici Pietro che è anche il primo singolo del prossimo album Mentre Los Angeles brucia. Fanpage lo ha intervistato sulla carriera, la sua musica, l’ansia del successo, il nuovo rap, ma anche Sfera Ebbasta e la condanna per diffamazione ai danni di Valerio Scanu.
A cura di Francesco Raiola
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Fabri Fibra – ph Karim El Maktafi
Fabri Fibra – ph Karim El Maktafi

Quando Fabri Fibra parla sembra quasi diffidente, almeno all'inizio della conversazione, si guarda in giro, si prende il tempo che gli serve, risponde lentamente, pesando ogni parola, ogni pensiero. Non ci siamo mai incontrati, intervistare il rapper non è una delle cose più semplici al mondo, benché negli anni il suo rapporto con la stampa sia cambiato (pur non risparmiando mai qualche critica). Questo periodo è pieno di cose per lui, c'è stato il secondo 64 Bars, il 20 giugno uscirà il nuovo album, Mentre Los Angeles brucia, nei prossimi mesi c'è il tour (che parte il 7 luglio dal Circo Massimo di Roma) e, soprattutto, oggi è uscito il primo singolo, Che gusto c'è che vede il feat di Tredici Pietro, una canzone che è un po' il seguito di Propaganda, con lo stesso team di scrittura composto da Davide Petrella e Zef. Nella mezz'ora che abbiamo avuto a disposizione, Fibra si è pian piano sciolto, parlando di una carriera che lo ha visto, primo di tutti, come l'uomo nel mirino, per citarlo. E il rapper non si è tirato indietro su niente, che fosse la difficoltà di andare avanti con la musica, l'ansia che il successo provoca, le aspettative, le critiche e la sentenza che lo ha visto condannato a pagare 70 mila euro a Valerio Scanu per diffamazione. E la risposta è sorprendente. Ma partiamo dall'inizio, in ogni senso.

Fai parte della prima generazione di rapper, quella di cui ci si chiedeva cosa avrebbero fatto a 50 anni. Cosa succede a 50 anni? Come ci sei arrivato?

In realtà non ci ho mai pensato, nel senso che questa cosa la faccio, mi prende veramente tutto e sento anche la cognizione del tempo che passa: sono due anni che sono in studio per il disco, ma non mi sembrano due anni, adesso sono uscito dallo studio con l'album e sono passati due cazzo di anni e quindi sono due anni più grande. E così va avanti tutto, cioè con questa musica racconto cose che sento, che provo, che mi capitano, l'ho sempre fatto da quando c'ho 17 anni e non è mai uguale perché credo che, tra l'altro, il rap in Italia non sia stato mai così grande.

Una cosa inimmaginabile fino a qualche anno fa. Cosa è successo?

Non pensavo che questa musica avrebbe preso così tanto spazio, vincendo su tutto il resto, ma è successo perché probabilmente è la musica che rispecchia di più i tempi che viviamo. È una musica che sa essere sia molto inclusiva che molto esclusiva, a volte anche molto di destra, talvolta emotiva e indipendente, a volte quasi imperiale. Io mi ci ritrovo dentro e ogni volta, quando mi capita che qualcosa funziona, provo a capire che impatto può avere là fuori.

Quando dici di destra intendi tutta la parte capitalista, consumistica, i soldi etc? 

Sì, di successo, di esibizione del lusso.

Come nasce il feat con Tredici Pietro?

Mi piace collaborare con altri artisti e in particolare  con artisti con cui non ho mai lavorato. Mi piaceva l'idea di lavorare con Tredici Pietro perché fa parte della nuova generazione, è uno dei nuovi nomi della scena del rap italiano che ancora non ha avuto il suo momento, ma è perché non è facile. Però se lo merita perché è bravo, è ispirato, ha talento, ma tutto questo a volte non basta.

Come mai?

Perché soprattutto nella scena rap devi ritrovarti al momento giusto, col pezzo giusto, nel posto giusto, spesso anche con l'outfit giusto, quindi è difficilissimo e quindi credo che in questo pezzo lui ci stia benissimo, abbiamo creato qualcosa di veramente rap italiano.

A proposito di come cambia il rap penso a come tu, come Marra, affrontiate il tema del lavoro. Lo fai in questo pezzo quando rappi: "Tasso fisso, mutui, rate, è la vita che ci prende a fucilate (…) Gente che sfila, chi fa la fila senza una lira, lo diceva anche Bukowski: a lavorare soffri, Post Office" e mi viene in mente quando lo facevi in Rap in guerra. Mi interessa questo filo conduttore che è molto conscious.

Più che conscious è la realtà. Se non avessi questa chance della musica la realtà cosa propone? Non è bellissimo, nel senso… non voglio sminuire il lavoro ordinario, però è pesante soprattutto per persone come me che non sono proprio adatte a timbrare il cartellino perché sono state costruite male, io sono stato costruito male.

In che senso?

Ci ho provato, ma non ci riesco, forse perché ho l'esigenza di mettermi alla prova creativamente, o forse perché sono molto egocentrico da pensare che se vado su un palcoscenico ho qualcosa da raccontare. C'è questo lato molto disturbato di me che mi impedisce poi di conformarmi a un lavoro normale.

Ci hai provato?

Sì, ci ho provato e sono stato costretto a uniformarmi per anni perché con la musica non funzionava. E ho cercato di smettere di fare musica perché a volte è anche peggio di un lavoro ordinario.

Parli di ansia?

Non solo, quello che ti porta come insicurezza, impegno mentale, insonnia, l'ansia che qualcosa andrà male, è terribile.

E perché ha senso farlo, allora?

Perché dall'altra parte tutto questo ti fa sentire vivo, mentre con un lavoro ordinario non riuscivo a esprimermi, poi non so esattamente cosa cazzo avrei da esprimere, però non era quello il mio posto. Questa cosa ritorna spesso perché non do affatto per scontato la musica, soprattutto perché quella che faccio non è una musica italiana. Il rap non lo è, l'hip-hop è una formula tradotta dall'America, che è il paese delle opportunità, mentre l'Italia le opportunità te le toglie. Ecco perché l'hip hop, il rap italiano fanno sempre fatica a essere decodificati dagli italiani, perché è un genere musicale che non ha regole, mentre in Italia viviamo incastrati dalle regole.

Avere un catalogo di canzoni famose, potersi permettere lunghi periodi di stop, ti scarica un po' quest'ansia da dosso oppure c'è sempre la questione del dover dimostrare di essere quello che sei?

MI fai questa domanda perché mi guardi dall'esterno, ma io sarei un malato di mente se dicessi "Ma sono Fibra, posso prendermela con calma", sarei un folle.

Però avrai coscienza dello status che hai conquistato, no?

Sì, però il catalogo vive se continui a farla la musica, se no muore. Quando vedevo questa cosa dall'esterno, ovvero i primi rapper italiani fare i dischi pensavo: "Vorrei fare un disco, un live e poi potrei anche morire", mi sembrava un traguardo così grosso… Non immaginavo l'abisso che ti si apre nel momento in cui parte la competizione, cioè fai un live, ma subito ti dicono "Eh, ma l'altro ha fatto un live più grande". Oppure fai un disco e ti diranno: "Eh, ma potresti vendere di più". Fai un singolo, però ti dicono "Il disco ne dovrebbe avere tre". Non c'è fine all'abisso davanti al quale ti ritrovi e sei messo costantemente a confronto. Però da artista hai l'illusione della competizione, quindi dici "Ok, mi metto alla prova" fino a quando non prendi coscienza di questa cosa e allora realizzi che il vuoto è incolmabile e tu devi soltanto fare il meglio che puoi fare ed essere contento di questo.

E riesci a esserne contento, oggi?

Oggi ho fatto l'undicesimo disco, sono contento perché non potevo far di meglio. Sono consapevole che ci saranno artisti che essendo al primo o al secondo disco hanno più attesa, più hype, quindi avranno più successo perché sono nella bolla della novità, e sono consapevole che ci saranno cantanti italiani che venderanno di più perché cantano e non rappano e gli italiani lo preferiscono. Però mi allaccio a quello che hai detto tu, e mi dico: "Ok, sono Fabri Fibra" ma non nel senso figo, lo dico in negativo, come a dire: "Accontentati di quello che hai, perché fino a ieri lavoravi in una cazzo di azienda mentre oggi sei in Sony, fai la musica per una multinazionale, fai il rap italiano, cosa che non è scontata e riesci a dire delle cose".

E hai un pubblico a cui dirlo…

Il fatto che io possa e riesca a dire delle cose in un disco che poi saranno anche ascoltate da un tot di persone sembra una cosa scontata, ma è il successo più grande. Poi il catalogo, i live, il nome, non me ne frega niente perché appena smetti sparisce tutto.

Fabri Fibra e Tredici Pietro
Fabri Fibra e Tredici Pietro

Però perdonami ma a questo punto devo citarti e farti egotrip, perché cantavi "Il quindicenne ascolta Fibra e dice chi è che non dice Gang e nemmeno eskere", eppure hai ancora il 64 Bars più ascoltato…

Perché effettivamente è così, è vero, il quindicenne dice "Fibra chi è?". Il rap oggi è grossissimo in Italia, ma non è esattamente il rap che faccio io.

E che rap è?

È una scena che sostituisce costantemente la scena precedente. È fatta di elementi che si incastrano tra di loro, che passano dal social allo streaming, alla moda, alle marche, all'abbigliamento, allo stile di vita, al club, è un castello di carta, togli una di queste cose e crolla tutto. Quindi nel momento in cui io entro nel 64 Bars, in cui c'è gente di 25 anni che fa questa cosa, e a 25 anni puoi permetterti di dire delle cose che poi a 45-50 non puoi più dire, è difficile che il venticinquenne si identifichi in quello che dico. Dice: "Fibra chi è?". Però poi se ascolta il mio 64 Bars e la magia della musica capisce che c'è una motivazione forte nelle mie rime che in qualche modo lo coinvolge in ciò che canto.

Quindi vale ancora la barra "Noi veniamo dal buio ed è lì che torneremo"? Se ho capito bene è la cosa che ti spinge ad andare avanti e lavorare sulla creatività, no?

Sì, non vorrei essere pessimista, però… Vedi, queste sono delle frasi che nel rap di oggi non sono cool.

Perché oggi devi essere figo.

Esatto, nel rap di oggi devi essere figo e devi avere lo swag. Quando scrissi quella barra il rap italiano non esisteva, era nullo. La scrissi come artista, non come uomo, perché se avessi parlato semplicemente della condizione umana sarebbe stato scontato.

Fammi capire meglio.

Mi hai citato una barra di un periodo in cui io avevo capito che col rap italiano avrei avuto più attenzione se avessi detto cose autodistruttive, perché venivo dagli anni 90 in cui il rap era molto autoesaltazione, celebrazione più che denuncia sociale. Io lì avevo fatto una denuncia personale, cioè avevo detto: "Il rap italiano è finito, ora dove andiamo?", era tutto così quel disco (Mr. Simpatia, ndr). Poi andando avanti mi rendo conto che ci sono delle cose che posso dire, ma non posso più dirle come le avrei dette due anni fa, perché è cambiato il sound, è cambiato il linguaggio.

Tipo?

Beh, le rime di oggi sono tipo: "Sono rock, ma non faccio rock", sono le più semplici possibile, non si sente il bisogno di spiegare, si dà per scontato che tutti sappiano cos'è il rap di oggi. Dieci anni fa con una frase così ci avrei fatto una strofa di 16 misure, descrivendo che faccio il rock perché è il genere di rottura, però non sono come i Guns N' Roses e poi avrei fatto la rima su Axl Rose, mentre oggi non gliene frega niente, cioè dicono quello che è e passano oltre.

Mi fai tornare a bomba su Che gusto c'è, quando dici: "Siamo tutti cantanti ma non ci sono le canzoni" che mi pare qualcosa che ha a che fare con quello che stavi dicendo, no?

Sì, sento molta gente che fa i dischi ma non li scrive perché oramai la musica e l'industria italiana sono un'opportunità di guadagno. Lo sono sempre state, ma oggi è particolarmente viva la questione. È facile costruire una canzone che venda, oggi, ma quando dico questa frase: "Siamo tutti cantanti, ma non ci sono canzoni" è perché una canzone è tale se la scrivi tu perché hai l'esigenza di dire qualcosa, non quando dici qualcosa che va di moda là fuori. Quella è una formula, è la formula del successo, che è più facile. Oggi ci sono così tanti talent che le canzoni sono un po' artefatte.

A questo punto non posso non chiederti, visto che viviamo in un mondo anche in cui tutti hanno bisogno di essere cantautori, tutti hanno bisogno di firmare le proprie canzoni anche se non le scrivono…

Questo l'hai detto tu, eh! (Ride, ndr)

Me ne assumo la responsabilità. Di te, però, non possiamo dubitare che la co-scrittura sia veramente fatta in due, come succede con Davide Petrella in Che gusto c'è. Com'è stato, negli anni, imparare a lavorare con altre persone?

Guarda, questo è il mio undicesimo disco, a un certo punto ho iniziato a volermi mettere alla prova, a stare in studio con i più grossi del game perché essere forte da solo è come non esserlo e quindi volevo allargare il raggio d'azione. Se io riesco a fare il rap con i nomi più grossi del pop, allargo il rap e gli do spessore. Quindi se porto le mie strofe scritte da me in studio con i nomi più grossi in classifica, nomi che vincono a Sanremo, allora vuol dire che sto andando bene, che sto migliorando e questo per me è importante. Comunque a parte questo considero Davide Petrella il fottuto numero uno di quel mondo, è mostruoso, mi piace molto lavorare con lui.

Fabri Fibra – ph Karim El Maktafi
Fabri Fibra – ph Karim El Maktafi

Sei stato il primo artista in major, hai allargato la platea di ascolto ma anche quella di critiche. Com'è non essere più l'uomo nel mirino?

Io questa cosa l'ho voluta, è molto difficile portare avanti quel discorso quando poi non riesci a suonare dal vivo, stiamo parlando di dischi che vivevano in un'epoca in cui non c'era neanche lo streaming, era la fine dell'era del CD, c'era la masterizzazione, quindi cercavo di dire cose di rottura che si infilavano in una terra di mezzo, in un'area grigia della discografia. Quando ho fatto Tradimento, Bugiardo, Mr Simpatia, quelli per me sono stati l'11 settembre della musica italiana.

Addirittura?

Certo, però poi quando hai fatto quello che dovevi fare non puoi avere lo stesso impatto di quando hanno capito il tuo linguaggio. A quel punto sarei stato banale a continuare quella formula, così ho cercato di elevare tutto il discorso per portare questa musica in major, in radio, nelle piazze, nei locali e logicamente dovevo anche cambiare linguaggio. Ho detto veramente tanto in quei dischi, al punto che avevo esaurito i nemici, cazzo! Avevo attaccato tutti.

E quando i nemici sono finiti cosa è successo?

Ho iniziato a fare dei dischi di introspezione, pur continuando a trovare stimolante fare qualcosa che non avevo ancora fatto e che gli altri non facevano, perché lì c'erano cose da dire. Quando ho scritto Mr Simpatia, ricordo che volevo fare un disco che attaccava i punti fermi della società: la famiglia, il lavoro e la religione. Ho continuato a farlo in Tradimento e l’ho spostata molto sulla stampa in Bugiardo. Poi, con il brano In Italia ho iniziato a criticare molto la società italiana, mi sono sempre buttato a capofitto negli argomenti e poi quando non avevo più nulla da dire mi sono spostato su altro.

Finché non sei arrivato al successo di Stavo pensando a te, no?

Sì, a un certo punto mi dicevo che forse, avendo trattato tutta una serie di cose più spigolose, non avevo mai affrontato qualcosa di sentimentale. È per questo che dietro di me ho lasciato così tanti me da generare una reazione divisiva nei fan, ho lasciato così tanti Fibra che ognuno ne vuole uno: quello rompicoglioni, quello sentimentale, quello introspettivo. Cambio io, cambia il rap, però è sempre rap, mi sarei suicidato se avessi cercato di ripetere sempre la stessa cosa, la stessa formula, anche perché cambiano i suoni, cambia il pubblico, cambia l'industria.

Senti, citi più volte Sfera, è ottimo per la metrica o c'è dell'altro? 

Allora, Sfera finisce nei testi perché è diventato pop, perché è diventato mainstream e io attacco il mainstream da sempre.

Ma il rap non è il nuovo mainstream?

Il rap finisce nel mainstream, certo, però non lo è perché non ha il codice del mainstream, è per questo che non viene capito. Detto ciò, i nomi entrano a far parte della cultura popolare, quindi ci finisce anche Sfera, c'è gente che lo ascolta perché rappresenta una figura di successo e nel testo di Che gusto c'è parlo proprio di questo, degli italiani che sono affascinati dalla figura di successo perché li fa sognare e con Sfera succede questo: partito dai palazzoni adesso si ritrova a essere ascoltato anche da gente che non sa neanche cosa sia la trap.

Hai vissuto le tante fasi della discografia e del rap, quindi ti chiedo: com'è possibile che si è così critici nei confronti del genere, dei testi, come lo eravamo 20/25 anni fa?

La formula della musica italiana è sempre stata quella leggera, la canzone d'amore, che non c'entra niente con lo struggle del rapper. Poi non so di che rap vogliamo parlare, ma generalmente il rap va a infilarsi dove c'è la ferita aperta, mentre la canzone italiana sulla ferita ci mette un bel cerotto a forma di cuore, questa è la grossa differenza, il rap è di rottura.

E per quella rottura tu sei stato condannato per diffamazione in un processo intentato da Valerio Scanu.

Per quanto riguarda la sentenza, ho letto chi dice che questa cosa mina la libertà di espressione. Io penso che sia esattamente il contrario.

Il contrario?

Intanto la sentenza è la sentenza, però penso esattamente il contrario di quello che si dice: l'artista è liberissimo di dire quello che vuole infatti io l'ho detto. Poi ci sono delle cose che puoi dire senza pagare conseguenze e cose che puoi dire pagandole, ma se sei un artista non ti deve interessare. La domanda che faccio io è: tu artista dici quello che vuoi dire o dici solo quello che non ti farà pagare delle conseguenze?

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