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Claudia Durastanti: “Amo le donne di Missitalia perché sbagliano, non sentono l’obbligo della cosa giusta”

Si chiama Missitalia l’ultimo libro di Claudia Durastanti, che a Fanpage.it parla del suo ultimo lavoro, di scrittura, generi e musica.
A cura di Francesco Raiola
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Claudia Durastanti
Claudia Durastanti

"Nei campi e nelle foreste, sotto la luna e sotto il sole, un'altra estate è trascorsa davanti a noi, e nessun uomo, nessuna donna ha rivelato i segreti di questo mondo. Così i nostri giovani si nascondevano con le pistole, nella terra e nei luoghi bui" canta Pj Harvey in TheDark Places, canzone di Let England Shake, che Claudia Durastanti ha citato nell'intervista a Fanpage parlando delle ispirazioni per il suo ultimo libro Missitalia. Un libro che ha sempre la Basilicata come riferimento, ambiente reale e di riferimento, ma che si distanzia dal precedente La straniera, sia nelle tematiche – benché resti fondamentale il discorso attorno alle famiglie, nelle sue varie forme – sia, soprattutto, nella scrittura e nella costruzione. Quest'ultimo libro, infatti, attraversa vari generi, da quelli classici – quello storico – fino a quelli più di genere, appunto, come la Fantascienza. Non è facile riassumere quest'opera che si dipana lungo un arco di quasi 200 anni attraversando la Lucania dei briganti di fine ‘800, quella del Dopoguerra, ripercorrendo il Sud e Magia di demartiniana memoria, fino a un futuro non lontanissimo tra Lucania e la Luna con un fil rouge che è quello della donna, che sia Amalia, Ada o semplicemente A. Ne abbiamo parlato con Claudia Durastanti.

Amalia regala la libertà e questa è la conquista più grande delle donne che vivono con lei. Sebbene regali anche una certa libertà agli uomini, relegati, però nel sottosuolo. Me ne parli?

C'è una differenza di risposta tra le ragazze e i ragazzi che sono nel sottosuolo – che in qualche modo non sanno cosa farsene – nel momento in cui riemergono in superficie: c'è una sorta di resistenza e riluttanza, una sorta di anelito a questa forma di protezione che poi Amalia Spada non sa effettivamente dare, perché lei, che non è madre, crede che il senso della trasmissione da una generazione all'altra non coincida con l'imporre le regole della propria dipendenza ma fare sì che qualcuno lo possa scoprire per sé. Quindi è interessante notare come ci siano questi uomini, questi clandestini a cui lei somiglia di più, nella dimensione di scarto, rifiuto, mentre le ragazze diventano quello che lei sceglie di non essere mai: liberatrici, rivoluzionarie, sante, terroriste. Lei, invece, rimane in questa prospettiva da emarginata e mi incuriosiva, al di là delle forme di maternità parallele, anche l'idea di libertà parallela.

Ovvero?

Le protagoniste e i protagonisti di Missitalia sono tutti soggetti esposti a una tensione storica, a un'area geografica in cui è stato estremamente facile pensare: "Qui c'è il libretto di istruzioni: la felicità si conquista così, la libertà così, il progresso così, la modernità così". Quando Madre dà la libertà dice che è quasi come passare un biglietto, una sorta di pizzino, in cui scrivere come staccarsi da un abbraccio, da un legame. E iniziare a scrivere, esplorare le proprie condizioni di libertà – senza volere essere ideologica – per me è qualcosa che non si rapporta solo alla famiglia, alla comunità, ma si rapporta anche a una dimensione di appartenenza col territorio.

Come mai la scelta di questi tre periodi diversi?

I primi due erano tempi storici serviti dalla Regione, perché pensando alla Val D'Agri lucana, quali sono stati i momenti in cui è emersa nel racconto collettivo? Quando c'è stato il periodo eversivo post unitario del brigantaggio o del banditismo, poi si avvia la migrazione, il tempo delle Guerre Mondiali livella e crea una coltre per cui il tempo si uniforma fino, poi, allo scandalo storico delle presunte sacche della non emancipazione e della persistenza dei fenomeni magici, quando arriva questa corsa al Sud. A me divertiva molto rappresentarla in questa maniera, se non picaresca, almeno avventuriera, perché è un territorio che è quasi una centrale di smistamento rispetto a quelle che sono le proprie aspettative, gli immaginari dei vari Sud. E così avevo questa idea: quand'è che quella zona è diventata una sorta di discarica dei desideri? Che poi la discarica ricorre molto, un posto in cui andare a riversare sia aspettative un po' magiche, esoteriche, con una persistenza di fiabesco, di favolistico con questa corrente magnetica e seduttiva e dall'altra parte un filone più razionale, politico, legato alla questione meridionale, quindi quand'è che si sposta veramente la camera? Ho assecondato la camera e poi, nell'ultimo tratto sono io che dirigo più propriamente l'obiettivo ed è anche la parte in cui inventi di più, essendo un tempo che ancora non c'è.

Questa cosa ti ha portato anche a una variazione di genere…

Sì, e in che genere vai a riparare se inventi? È interessante che nella prima parte inventi anche a causa di vuoti storiografici, cerchi le fonti, intercetti delle figure femminili ma sono soprattutto fotografate: c'è questa messinscena del corpo – della brigantessa, della bandita – pericoloso. Mi divertiva l'idea di raccontarla com se già lì ci fosse una consapevolezza della performance. Nella seconda parte, invece, forse c'è un'abbondanza di documenti, quando dico che è una congiura di fantasmi, vuol dire che c'è tutta la documentazione: la spedizione di De Martino diventa mito in sé, in qualche modo, quindi ci sono le storie che racconta e le storie che si sono raccontate su quell'esperienza.

Io non ho potuto non pensare al peso dell'antropologa Amalia Signorelli, che a quella spedizione partecipò…

È ovvio che ciascuno ci veda qualcuno di reale in quei personaggi, è stato come orchestrare i fantasmi. Però non ci sono personaggi interi, ci sono pezzi presi dalla realtà, ma sempre trasfigurati.

Mi stavi raccontando, poi, che succede nella terza parte.

Nella terza, invece, c'è di nuovo un vuoto che va riempito al massimo con l'immaginazione, però l'ho spostato in un tempo poco futuro-futuro, perché avevo il timore che più andavo avanti e più, per inerzia, tendiamo a immaginare solo cose cupe, mentre volevo raccontarlo anche in maniera ironica. Volevo evitare che diventasse troppo cupo, quindi, e tenerlo più vicino pensando che c'erano vie di fuga, non dico luminose, ma meno reazionarie e scure. Un futuro cupo, invece, è un po' reazionario.

È ancora rischioso, guardando la comunità letteraria italiana, mettersi a lavorare sul genere?

Sì, infatti mi sono chiesta proprio come chiamarlo: estensione delle possibilità del reale? Realismo aumentato? Però c'era questo livello più giocoso di dire: "Come ricollochiamo quello che a livello di immaginario consideriamo un genere marginale?". In questo libro volevo mettere a confronto un genere iperclassico, navigatissimo nella narrativa italiana e soprattutto in questo periodo – perché c'è stata una sorta di resurrezione -, ovvero il romanzo storico, caricato di una responsabilità di temi ecologici, femministi, di possibilità, traslate in un altro momento, quindi un genere maggioritario. Con la fantascienza, invece, anche per vincere lo stereotipo che la nostra lingua non ha strumenti per raccontarlo, l'ho fatto al passato remoto – considerata la forma più elegante e iperletteraria – così, invece di sciupare la fantascienza con la prima persona, mi sono detta che le davo questo statuto (ride, ndr) anche per vedere cosa andare a saccheggiare nel tuo repertorio linguistico.

E cosa hai saccheggiato? Come ti sei mossa?

Io ho tradotto autori massimalisti come Joshua Cohen, che si sono confrontati con la storia di internet e all'inizio avevo il timore di essere costretta a utilizzare idee, parole, concetti in prestito, invece è stato veramente una sorpresa rendersi conto che avevamo un vocabolario. Poi c'è tutta l'idea per cui vedi un film che racconta l'Olocausto e viene adottato e assorbito, al di là dei suoi meriti, per il fatto che ti parla del presente: noi abbiamo costantemente quest'ansia di leggere alcuni manufatti del passato nelle spiegazioni che danno del presente. Ma è anche vero il contrario, che utilizzi costantemente il presente per riscrivere il passato in maniera negativa oppure per intercettare nel passato delle possibilità che già c'erano, quindi anche il romanzo ecologico non è necessariamente presente o futuro, se lo guardi bene. Insomma, era anche un tentativo non di infilare degli oggetti intrusi negli anni 50 o nella seconda metà dell'800, però presentare uno schema e in questo, forse, sono un po' un'accademica del lunghissimo periodo. Il lunghissimo periodo mi consola, non per la ripetitività dei cicli, ma per questa sorta di comune sentire. Io in quelle ragazze, quando arriva una fabbrica e quando cambia qualcosa di profondo nei rapporti umani, nei rapporti col territorio, voglio pensare che già ci fosse una sensibilità che non è moderna o contemporanea, ma che ti arriva dall'esperienza materiale.

C'è un'idea di futuro della seconda parte? Qual è?

Perché Ada si trova bene in Lucania? Perché il tempo cambia un po' delle regole, a Roma erano gli anni della Luna e dell'energia, circondata da questa FOMO perenne: per me probabilmente quella è stata la vera fantascienza. Essendo nata nell'84 mi sono confrontata sin da subito col postumo: il post rock, il postmoderno, era tutto postumo, quindi se dovevo immaginarmi una giovinezza, in un momento in cui tutto aggressivamente ti parlava di costruzione, di futuro… c'è questo padre che vuole bombardare tutto e lei dice che aveva ansia, e la Lucania rappresenta un punto di fuga rispetto al crescere e all'accumulare, quindi è anche l'idea non per dire che trovi un territorio come oggi, in cui vai a colonizzare la campagna – specialmente meridionale – perché rappresenta il buon ritiro, rispetto alle tue ansie, ma per dire: laggiù c'è un modo diverso di pensare anche in rapporto con l'accumulazione e la crescita.

Hai un rimpianto rispetto a quella vita, a quel posto?

Un rimpianto, una nostalgia rispetto alla mia giovinezza è che io mi sono marzializzata subito, ho pensato che la crescita corrispondesse con la conquista di alcune cose, e forse per la nuove me, oggi, non sarebbe così. Però nel libro c'è una messa in discussione sul piano personale e poi politico che l'idea della felicità sia accumulare e scoprire. Poi è vero il contrario, quando le brigantesse dicono "Vogliamo più cibo, più letti" avevo in testa le teorie del Luxury Communist che andavano di moda anni fa: Aaron Bastanis scrisse questo saggio in cui dice che le macchine prenderanno il nostro posto e questo ci permetterà di emanciparci da un certo tipo di lavoro e – te lo dico molto volgarmente e velocemente – di reddito universale e sarà un comunismo di lusso con cui riusciremo ad appagare bisogni e desideri.

Claudia Durastanti e la cover di Missitalia
Claudia Durastanti e la cover di Missitalia

L’idea è che sia un libro che parta da un’idea forte sulla donna: ma alla fine, quando si finisce di scrivere, si scopre qualcosa di nuovo? Cosa hai scoperto con la scrittura?

Questa cosa è interessante a livello di metodo, nel senso che quando ti confronti con la Storia, con gli oggetti pesanti, come il ruolo delle donne nel tempo, le vicende del petrolio, puoi scegliere: o leggi, ricerchi molto e poi il romanzo deve inglobare, mangiarsi queste informazioni e restituire un output più lirico, esteticamente nobile possibile, oppure puoi immaginare, scrivere, tentare e poi cercare conferme fuori. Una cosa che mi ha fatto impressione è che mi sono chiesta è stata quand'è che si costruiva un'immagine dell'adolescente meridionale. C'è una parte in cui un personaggio, il pittore, parla di iconografia, e dice "Io i ragazzi non li dipingo", così ho scritto questa scena e il giorno dopo su Twitter mi trovo questa foto perturbante di un ragazzino siciliano tutto addobbato, fatta da un fotografo viaggiatore tedesco verso fine 800. In questa maniera un po' felice – perché è vero che ho scoperto che fuori c'erano tutte le prove di ciò che volevo dire io – tornando alla questione del femminile, quando rileggo Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi trovo una profonda sintonia nell'idea di immaginare personaggi come Amalia Spada, che non sono ideologici rispetto al femminismo: quando Lonzi dice che la nostra parola più importante è deculturalizzazione e il non essere ideologica – perché queste posizioni non devono rimanere come prescrizioni, nel corso del tempo – quella è una cosa che non sapevo consapevolmente di voler mettere in pagina, però è il risultato di un processo anche di affetto e amore del personaggio. Lo dico perché io avevo cominciato pensandolo come il romanzo di Rosa Spina, delle ribelli, ecologiste, della cosa giusta che invece vivono come una cosa oppressiva e scopro di avere questo afflato verso queste donne, arrivate a un punto tardivo nella vita, che non è che difendono la parte sbagliata per vezzo, però non sentono neanche questo imperativo della cosa giusta, deludono molte aspettative. Per questo dico che Ada è una perenne "sbagliatrice", parola che abbiamo inventato io e Naoise Dolan (scrittrice irlandese tradotta dalla stessa Durastanti, ndr).

A proposito di Carla Lonzi e la Tartaruga, questa esperienza in che modo si inserisce nel tuo essere scrittrice, narratrice, e quali sono le personagge che negli ultimi tempi ti hanno colpito, hai scoperto o riscoperto?

Ho avuto la fortuna di avere un rapporto con la Letteratura italiana molto disordinato, poco scolastico e anche mediato dal fatto di aver vissuto molti anni fuori, quindi quello che era programmatico, le false madri, le maestre che avrei dovuto adottare fin dall'inizio della mia carriera di scrittrice sono arrivate dopo e ti dico "Il porto di Toledo" di Anna Maria Ortese è un libro che ho letto solo un anno e mezzo fa mentre "Menzogna e sortilegio" addirittura un anno fa. Nel momento in cui io volevo fuggire dalla prima persona, questi romanzi di trasfigurazione, di metamorfosi del dato autobiografico, sono stati potenti ed esplosivi proprio perché non arrivavano da un corredo di importanza: è difficilissimo sceglierti un capolavoro con libertà, perché porta con sé tutto il bagaglio, io invece li ho scelti in un momento di bassa prevedibilità, anzi quando la loro mancanza poteva passare anche come ignoranza. Il lavoro con la Tartaruga, così come la traduzione – è stato importante tradurre Notti insonni di Elizabeth Hardwick per Blackie, un libro passato un po' in sordina, raramente ho trovato una prosa così simbolista e potente – diventano come delle canzoni, un ambiente sonoro in cui scrivi e non sai più dire cosa è influenza, cos'è appropriazione, cos'è imitazione, semplicemente è una sorta di suono perenne che ti accompagna e ti guida. Io non ho mai avuto un'idea sciamanica della scrittura, sono anche dell'idea che non scrivi da sola ma sei sempre parte di un collettivo, che ti edita, ti legge, dà feedback, questo testo ha avuto sei stesure, e considero una voce importante le autrici che traduco e pubblico perché fanno parte di questa camera sonora.

Visto che hai parlato di musica e ambiente sonoro, c'è un artista che ti ha influenzato particolarmente?

C'è un'artista che ammiro tantissimo, perché ha cambiato ogni disco, passando dalla parabola delle sue adolescenze e inquietudini, ovvero PJ Harvey.Quando uscì Let England Shake: non avrei mai pensato che nella vita sarebbe successo questo mio tornare in una dimensione nazionale, locale, regionale. Io avevo preoccupazioni tanto urbane e arriva lei con questo disco esplicitamente politico, legato a una dimensione ancestrale di formazione della memoria; l'ultimo disco non ne parliamo, è veramente sperimentale e non accessibilissimo, che gioca sul margine dell'incomprensibilità, quindi quello mi ha abbastanza fulminata e mi dà gioia: amo chi nella music e nella scrittura non lavora sul formato della serializzazione. Dopo La straniera era un po' facile pensare a una stagione due, mentre questo è il prodotto di come ho evitato questa stagione due

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