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Cathy La Torre: “Spesso scambiamo le violenze con l’amore e non capiamo che sono reati”

Cathy La Torre, avvocata e attivista ha raccontato nel libro “Non è normale. Se è violenza non è amore. È reato” quali sono le implicazioni giuridiche di violenze che non tutti riescono a riconoscere come tali.
A cura di Francesco Raiola
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Cathy La Torre
Cathy La Torre

Avvocata e attivista, Cathy La Torre è uno dei volti e dei nomi più noti quando si parla di violenza di genere e di diritti. Nel suo ultimo libro "Non è normale. Se è violenza non è amore. È reato" (Feltrinelli) ha voluto raccogliere quei reati che spesso non vengono riconosciuti come tali ma a causa di ignoranza sono considerati goliardia o atti di poca importanza. Quello di La Torre, quindi, è un libro – una cassetta degli attrezzi, come dice lei stessa – che racconta quante sono le violenze che vengono perpetrate da uomini su donne, ma non solo, che sono veri e propri reati: da quelle psicologiche ed economiche passando per il catcalling, il sexting, e quindi la violenza online, fino al femminicidio.

Il tuo non è un libro che affronta temi di genere con un punto di vista prettamente filosofico o sociologico, ma di diritti, da avvocata, e racconta come una buona parte di quello che noi crediamo sia goliardia o temi non toccati dal diritto talvolta siano reati. Certe cose sembrano ovvie ma evidentemente non lo sono, no?

Assolutamente no e hai il fatto bene a dirlo: il mio non è un libro né di sociologia né di filosofia, che analizza con quegli strumenti le strutture della violenza, del patriarcato, perché non ne ho le conoscenze o meglio, ce le ho come lettrice, piuttosto è una cassetta degli attrezzi che ti spiega come riconoscere la violenza, ma soprattutto che ti dice che alcune delle cose che noi pensiamo normali in realtà non sono affatto normali e non è che non lo sono secondo Cathy La Torre, non lo sono secondo la legge, secondo la Cassazione. Poi ti invita anche una riflessione: se una cosa che noi abbiamo sempre scambiato come un segno d'amore in realtà è un reato, vuol dire c'è qualcosa che non va. Quello che noi scambiamo per attenzione, premura e interesse in realtà è in molti casi un comportamento abusante, violento e che può sfociare in condotte pericolosissime come lo stalking o addirittura il femminicidio. Un'altra domanda che provo a farmi lungo queste pagine è: qual è il confine tra vivere dentro a una relazione controllante, abusante e poi trovarsi vittima di un reato gravissimo come il femminicidio? Perché il femminicidio che ha colpito Giulia Cecchettin ha scosso così tanto le coscienze? E poi ci sarebbe da domandarsi perché esistono femminicidi di serie A e di serie B. È una cosa che io trovo tragicamente ingiusta nei confronti delle vittime, ovviamente, ma in quel caso specifico succede perché nasce dentro un contesto culturale e sociale di ragazzi che studiano all'università, non voglio dire un contesto non voglio dire borghese, ma di normalità, di ragazzi scolarizzati che si stanno per laureare. Quel ragazzo poteva essere il figlio, il fratello, l'amico di chiunque noi che dice di volerti proteggere e alla fine muori per mano sua.

In questi ultimi anni cosa è cambiato? Hai sentito più consapevolezza?  

Non è cambiato assolutamente nulla. L'emersione dei fenomeni di violenza sono legati al fatto che esistono dei meccanismi per cui possono emergere. Trent'anni fa i numeri antiviolenza non esistevano, tu prendevi le botte in casa ed era un fatto culturalmente e socialmente accettato. Quello che è cambiato è che alcuni meccanismi è possibile che facciano emergere dei contesti di violenza che continua a essere endemica.

Quali sono questi meccanismi?

Mentre trent'anni fa tu avevi una violenza offline, oggi hai anche quella online, quindi uno stalker, una persona che ti fa stalking – perché ci sono persone che fanno stalking anche all'interno del panorama femminile – ha una pluralità di strumenti che prima non aveva. I modi per controllare i partner o le partner sono aumentati: mentre prima pedinavi, ti facevi trovare sotto casa, oggi puoi mettere un trojan nel cellulare, oppure mettere dei GPS nell'auto o addirittura, come è capitato a me tantissime volte, mettere in tutta casa telecamere spia che compri comodamente su Amazon. Quindi la differenza tra ieri e oggi è che le forme di violenza possono essere agite in molti più modi, allo stesso tempo, però, possono emergere, a differenza di prima, in altrettanti più modi, nel senso che ci sono persone che denunciano di essere violenza anche attraverso un reel, un video, ci sono persone chiamano al 1522, tutte cose anche solo dieci anni fa non c'erano.

Qual è il reato meno considerato tale dalle vittime?

La violenza psicologica e quella economica.

Che sono anche difficili da dimostrare davanti al giudice, no?

Della violenza economica non si sa praticamente nulla, manco che esiste, mentre per quanto riguarda la violenza psicologica molto spesso le donne che arrivano da me, ma anche gli uomini – ne ho assistito tre uomini vittime di violenza psicologica ultimamente – avevano preso cognizione del fatto di essere vittime di violenza psicologica. Tutte le vittime, però, non sapevano come provarla, pensavano che fosse una di quelle cose che ti devi tenere perché è impossibile da provare: come fai a dimostrare la violenza psicologica? L'altra cosa che riscontro nella, ahimè, quasi totalità dei casi di denuncia è che sono quasi sempre trascorsi termini per poter denunciare: io ricevo settimanalmente un numero alto di segnalazioni di persone che sono state abusate da giovani, anche di violenze sessuali, però si è più nei termini; è complesso spiegare a una persona che è stata vittima di violenza in ambito familiare molti anni fa, che ora non può fare più nulla. Però per me sono tutte prese di coscienza del fenomeno della violenza, che è un passaggio quasi fisiologico, ovvero per i prossimi 10-15 anni ancora assisteremo a donne – e a volte uomini – che raccontano di essere stati abusati da piccoli in ambito familiare perché solo ora si comincia a prendere coscienza di questi tipi di violenze.

In questa conversazione hai più volte specificato che, seppur in numero minore, le violenze non sempre hanno a che fare col genere. Però mi spieghi ancora una volta perché parliamo solo di femminicidio?

Intanto la violenza che noi conosciamo, in termini numerici, è quella dell'uomo nei confronti della donna. Non abbiamo statisticamente alcun numero che possa aiutarci a tracciare se e quanto esiste il fenomeno della violenza nei confronti degli uomini, che può essere agita anche da un altro uomo, per esempio, all'interno di coppie same-sex, ho avuto dei casi di stalking e di violenza anche fisica, oppure può essere agito da donna a donna, anche lì ho avuto dei casi di stalking della ex che fa stalking alla nuova fidanzata, o che fa stalking all'interno di coppie same-sex. Il problema è che fino a quando non avremo numeri e dunque denunce, non potremo mappare questo fenomeno e potremmo parlare solo di un grande scontro culturale tra maschile e femminile, in cui il maschile lamenta che non si parli mai di questo tipo di violenza. Ma se non se ne parla e anche perché io che ne vorrei parlare non ho uno straccio di numero, ho soltanto la mia casistica come avvocata, ma la mia casistica non fa numero, cioè la mia casistica fa un racconto esperenziale, ma non fa statistica, non fa un numero che posso spendere dal punto di vista dell'indagine. Tornando alla domanda: perché si parla di femminicidio e non di maschicidio? Perché a oggi non abbiamo, per fortuna, nessun uomo ucciso da una donna in quanto uomo e perché magari si è sottratto alla relazione con quella donna. Se domani avremmo anche questo tipo di assassinio ne parleremo.

Casi continuativi, che facciano statistica, no?

C'è qualche caso, penso a Lorena Bobbitt che evirò suo marito, però se domani dovessimo avere un fenomeno statisticamente rilevante di donne che tolgono la vita a un uomo in quanto uomo, perché questi hanno deciso di interrompere una relazione con queste donne, potremmo anche analizzare questo fenomeno. A oggi non esiste. Esiste la donna che muore per mano di un uomo perché ha deciso semplicemente di sottrarsi al suo giogo e quindi bisogna chiamarlo femminicidio perché non è una donna che muore sulle strisce pedonali: per una persona che muore sulle strisce pedonali il genere è irrilevante, invece una donna che muore per mano di un uomo perché quell'uomo non ha accettato la libertà, l'autodeterminazione di quella donna, è il movente, quindi lo dobbiamo chiamare femminicidio perché da un punto di vista statistico o politico ci serve mappare quante sono queste vittime.

Quali sono i numeri dei femminicidi?

In Italia avvengono all'incirca 300-330 omicidi all'anno e di questi 170, quindi più della metà, sono femminicidi. È una cosa sconvolgente, pensa che la mafia ammazza molto meno dei femminicidi, le persone uccise dalla criminalità organizzata sono tra le 15 e le 20 all'anno, mentre i femminicidi sono all'incirca tra i 150 e i 180. Quando chiedo alle persone: "Ma secondo voi quanti omicidi ci sono ogni anno in Italia?", la gente spara 20.000, 100.000, invece no, sono più o meno 300 e più della metà su femminicidi. Allora è o non è preoccupante?

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Spesso la difficoltà è nel portare le prove: penso al catcalling, per esempio, a molestie come quella. Quanto la difficoltà dell’onere della prova è un freno alle denunce?

Molto, anche perché il catcalling è uno degli ambiti più difficili in cui eventualmente avere giustizia. Perché puoi pure fotografare una persona o puoi pure dire "ero in quella strada, vediamo le telecamere", ma poi è difficile riconoscere quella persona, non è che siamo nei film americani dove mettiamo la faccia nella banca dati e ti sputa fuori il nome. Quindi, sostanzialmente, quello che si fa è andare a denunciare e poi si fa una querela contro ignoti e, a meno che non conosciamo l'autore materiale di quella molestia, il procedimento va avanti contro ignoti il che significa che non va avanti.

Però questa cosa bisogna continuare a farla, no?

Certo, dobbiamo continuare a denunciare sempre, per avere contezza della quantità del fenomeno. Anche sull'omofobia sono vent'anni che dico a tutte le persone che anche se non c'è reato bisogna denunciare perché se non abbiamo numeri e denunce non potremo mai fare una battaglia politica indicando quanto è allarmante il fenomeno. La quantità di denunce fa differenza.

Un’altra cosa che tratta è il consenso: sarebbe bene che tutt* sapessero che “no è no” anche durante un rapporto e se non si rispetta il volere della persona diventa violenza. Quanto è importante ribadirlo?

Allora, che cos'è il consenso nel sesso non lo sa quasi nessuno e questo prescinde dal genere e dalla generazione e non lo si sa perché quelli della nostra generazione hanno iniziato ad avere una vita sessuale più o meno a 17-18 anni, invece adesso la vita sessuale inizia molto prima e le nostre generazioni non hanno avuto proprio un rapporto disinibito con la verbalizzazione del consenso. Così ci siamo ritrovati a fare sesso anche quando non volevamo perché ci pareva brutto, non sapevamo come dire di no, non volevamo deludere l'altro partner, non sappiamo che il consenso non è per sempre nel matrimonio, invece la maggior parte delle persone pensa che quando si sposano il consenso al sesso è implicito al matrimonio stesso. E infatti la maggior parte delle violenze sessuali avviene dentro le mura di casa per questo motivo. E ti capita di sentire la donna che dice: "Io ho fatto sesso con mio marito perché se no faceva bordello, mi picchiava, mi teneva il muso due settimane, non mi dava i soldi per fare la spesa", quindi le vicissitudini legate al consenso cambiano a seconda delle generazioni coinvolte.

In che modo?

Le generazioni più giovani non hanno proprio cognizione di causa di cosa sia il consenso perché nessuno glielo ha insegnato, nelle scuole nessuno glielo insegna. Le persone non sanno che cos'è il consenso, bisognerebbe spiegargli cos'è, che si può revocare in qualsiasi momento, anche durante l'atto sessuale, che si può anche dire "sì ho voglia di fare sesso" oppure "no, non ho voglia di fare sesso", che comunque il consenso andrebbe esplicitato con atti o fatti concludenti. Però tutto questo non lo sappiamo, indipendentemente dal genere e dalla generazioni, perché in Italia parlare di sesso è un tabù. Non a caso abbiamo tutta questa resistenza a parlare di sessualità e di diritti sessuali nelle scuole, ma anche nel dibattito politico. Hai mai sentito qualche politico porre nella sua agenda politica il tema dei diritti sessuali? Nessuno. Noi parliamo giustamente di diritto alla vita, di diritto alla morte, di diritto alla famiglia, però di diritti sessuali ne hai mai sentito parlare qualcuno? Sono sicura che in Italia nemmeno chi fa politica sa che cosa sono i diritti sessuali.

Abbiamo detto che mancano l'educazione sessuale e affettiva, tu hai parlato anche di sexting e di violenza online. In cosa i minori, gli e le adolescenti, dovrebbero essere maggiormente accompagnati per avere maggiore coscienza dei propri diritti come persone su questi temi?

Secondo me i giovani hanno bisogno di essere maggiormente accompagnati su due versanti: maggiore consapevolezza dei propri diritti rispetto al no, rispetto al consenso, ma maggiore consapevolezza anche rispetto alle conseguenze delle proprie azioni, perché questo va di pari passo con la iper digitalizzazione. Se io ricevo una foto di una persona nuda o che sta compiendo un atto sessuale con qualcun altro, benché probabilmente manco la conosco quella persona, la rigiro perché fa figo, senza sapere nemmeno quali sono le conseguenze di quella roba lì, quanto può avere una conseguenza sia sulla vittima che dal punto di vista delle implicazioni giuridiche e questo è molto grave. È come quando le persone più anziane non hanno la più pallida idea che insultare qualcuno in rete possa avere delle conseguenze. Solo che le persone cosiddette boomer hanno un grande problema di uso consapevole del digitale per quanto riguarda la parola e il linguaggio, mentre i più giovani ce l'hanno per quanto riguarda le immagini e i contenuti pornografici e sessualmente espliciti, perché hanno molto più accesso a quei contenuti. Queste generazioni sono poco informate sulle conseguenze delle loro azioni nel mondo digitale: i più anziani, i più vecchi, quelli della mia generazione, dai 40 in su, sulle conseguenze delle parole che usano. E non a caso su dieci cause su dieci di odio in rete che magari vinco mi ritrovo sempre quelli che dicono che non pensavano che fosse grave, ma scusa, hai detto "brutta lesbica di me*da devi morire male" e non pensavi che cosa? I ragazzi e le ragazze, invece, ti dicono che loro non pensavano che mandarsi quel video potesse implicare eccetera eccetera, tutte partono dalla medesima matrice, cioè una poca consapevolezza delle conseguenze e dell'uso di uno strumento digitale. E questo è un lavoro su cui bisogna intervenire politicamente, culturalmente e con azioni concrete.

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