Baby K: “Mi volevano solo come quella dei tormentoni, ma ho riscritto le regole delle donne del rap italiano”

A 4 anni dal suo ultimo disco, Donna sulla Luna, Baby K è ritornata nelle scorse ore con il secondo singolo di una trilogia cominciata la scorsa estate con Follia Mediterranea e che oggi la vede protagonista in Dimmi Dimmi Dimmi. Un percorso di riconoscimento musicale in cui la cantante vuole allontanarsi dalle descrizioni e delimitazioni del passato, quando il suo nome e il suo canto veniva associato alle hit estive come Roma Bangkok, ma anche Da Zero a cento o La Playa. Il passato da innovatrice della scena rap italiana e la scelta che le ha cambiato la carriera, con il racconto del suo primo disco Una seria, prodotto da Canova e con la collaborazione in tre brani di Tiziano Ferro. Poi i talent e il palco dell'Ariston: "Adesso che si è modernizzato e svecchiato, sarebbe una nuova sfida, una nuova possibilità. Lo farei solo se il contesto fosse giusto, con il personaggio giusto, sperando che il direttore artistico sia d’accordo". Qui l'intervista a Baby K.
Cosa rappresenta Dimmi Dimmi Dimmi?
Segna il secondo atto di questa trilogia. È un oggetto che si rende conto di essere vista dal mondo esterno come tale e invece prova pulsioni umane. Si rende conto di essere viva e lo fa attraverso la gelosia: in Follia mediterranea invece si mostrava attraverso l'attrazione fisica, il desiderio.
Da dove nasce questa esigenza?
Quando si raggiungono obiettivi molto grandi, ci sono due lati di una medaglia. Da una parte non mi sarei mai aspettata di vedere numeri così grandi vicino al mio nome, dall'altra ti ritrovi sempre a essere descritta e delimitata in una certa immagine, come quella che fa "i tormentoni". Soprattutto da parte dell'industria discografica.
In che modo?
Siamo in un'epoca in cui c'è questa corsa ai numeri e alla fine è difficile raccontarsi davvero. Io non avevo più voglia di essere limitata. Non bisogna dimenticare che ho iniziato nel 2006 a fare musica, ho vissuto tutte le trasformazioni dell'industria.
Pensi che venga dimenticata troppo in fretta l'incidenza che hai avuto nella scena rap italiana?
Non soffro di particolari frustrazioni. Può essere che alcuni non riconoscano la gavetta che ho fatto, l'immaginario che ho portato nel rap italiano. Prima c'era un'identità femminile legata al rap, in cui l'unico racconto possibile era la sofferenza per l'amore immaginario. Anche a livello di immagine, si pensava alla donna come la ragazza della porta accanto. Da quest'immaginario mi sono allontanata subito, anche perché essendo esterofila, guardavo molto ciò che succedeva fuori.
Cos'è successo lì?
Si sono rotte alcune regole: io apparivo aggressiva, una donna alfa come slogan di vita. Volevo abbreviare anche il gap Italia – estero, soprattutto quando si pensava ai protagonisti maschili e femminili della scena rap e pop italiana. Anche nei video osavo molto con le coreografie, oltre che con la scelta del reggaeton: nessuno prima credeva che potesse diventare il genere dei "tormentoni estivi" e che sarebbe stato poi replicato tantissime volte.
Cosa manca nella generazione attuale?
L'arte di tramandare. Il pubblico più giovane, non avendo vissuto gli anni '10, si è perso quell'evoluzione della scena rap e la credibilità di ciò che avevo ottenuto. Poi sono sicura che un giorno, i grandi momenti della musica italiana verranno sommersi dal consumo attuale che facciamo della musica: escono 300 miliardi di canzoni al giorno e forse questo ridurrà nettamente la nostra memoria storica.
In questo senso, il tuo ultimo album Donna sulla luna è stato un manifesto?
Sì, non solo del passato, ma anche di quello che volevo tracciare da lì in avanti. Se posso fare un po' di autocritica, in quel disco mancava un elemento personale: qualcosa di sentito e autentico, anche se le melodie erano incredibili.
Fotografando il 2013, anno del tuo esordio discografico, cosa c'era intorno?
Credo fosse l'anno in cui la nostra scena rap, per tecnica e contenuti, non avesse nulla da invidiare al resto dei paesi. Lì cominciai anche a fregarmene meno della definizione degli altri, anche perché si capiva che il suono si sarebbe allargato e avrebbe raggiunto una dimensione mainstream.
Qual è il momento in cui ti ritrovi ad avere a che fare col mondo mainstream?
Con Killer nel disco Una Seria. Il progetto aveva tre canzoni con Tiziano Ferro, ma già con quella come primo singolo ho avuto davanti a me la scena di un film: pillola blu, continuavo a fare ciò che facevo normalmente. Pillola rossa sarei entrata nel mondo mainstream. Avevo la responsabilità di nomi come Tiziano Ferro e Canova che volevano lavorare al mio disco. Mi dovevo far guidare dalla musica e non dai paletti che avevo messo anche io prima.
Quella sensazione di Killer l'hai poi provata nel momento successivo, con Roma – Bangkok?
Assolutamente no. Nessuno se lo aspettava. In quel periodo facevo radio, andavo alle serate di black music e quindi pensavo di potermi avvicinare a quella canzone. Inizialmente chiesi che avesse un arrangiamento un po' più elettronico, perché era un po' più latin. Mi ricordo che la mia manager mi disse, molto preoccupata, se fossi convinta del brano e le risposi che la canzone sarebbe arrivata, quell'estate, in qualche discoteca di Riccione.
E invece?
È stata prima in 20 paesi nel mondo: tutto questo in lingua italiana.
Come ti senti a essere una delle artiste più certificate in Italia?
La mia vita è stata scandita da molte avventure e molte situazioni inaspettate. Questa è stata una delle cose che mi ha subito attratto e che invece oggi mi allontana, perché sta diventando tutto troppo prevedibile.
Tutto questo senza aver avuto la necessità, negli anni della gavetta, di un talent show.
Non era il posto giusto. Io mi sono fatta strada da sola. Non serviva un talent show. Vengo da una lunga gavetta e i brani hanno avuto successo tramite passaparola.
E invece Sanremo?
Anni fa non mi piaceva molto, aveva questa nota classica quindi non era il posto per me. Adesso, che si è modernizzato e svecchiato, sarebbe una nuova sfida, nuova possibilità. Lo farei solo se il contesto fosse giusto, con il personaggio giusto, sperando che il direttore artistico sia d’accordo (ride ndr).