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Alan Sorrenti: “Le mie notti a Los Angeles, le feste e De Niro. Figli delle stelle? La capiscono più i giovani oggi”

Alan Sorrenti ripubblica Di Notte e a Fanpage racconta gli anni a Los Angeles, tra feste, musica e chi usava droghe in senso positivo: “C’era più libertà”.
A cura di Federico Pucci
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Alan Sorrenti – ph Filippo G. Moscati
Alan Sorrenti – ph Filippo G. Moscati

Di questi tempi può capitare di incontrare popstar italiane a Los Angeles, la capitale della discografia americana. Tiziano Ferro si è costruito lì una vita. Vasco Rossi ci risiede nei rari momenti in cui non prende possesso degli stadi italiani. Ma negli anni ‘70 e ‘80 questo genere di incontri sarebbe stato decisamente più raro. Eccezion fatta per un artista che frequentava quotidianamente la West Coast: Alan Sorrenti.

Nel 1980 usciva Di notte, il disco che – a detta del musicista – concluse la sua trilogia di Los Angeles. Tre dischi, iniziati con Figli delle stelle, e accomunati dalla collaborazione con un gruppo di musicisti diretti nella maggior parte dei casi dal produttore Jay Graydon, un professionista che contava nel suo curriculum ruoli da chitarrista e da produttore nei lavori di Cher o degli Steely Dan (suo l’assolo in Peg), di Al Jarreau e Dionne Warwick, e così via, di prestigio in prestigio. Di recente, Di notte si è riaffacciato con una ristampa in vinile, in CD e con il debutto in formato digitale sulle piattaforme streaming. Una nuova occasione per dare nuova luce a un disco storico ma forse non apprezzato fino in fondo.

"All’epoca succedeva che l'album conteneva un singolo che andava benissimo e poi la gente in qualche modo non si ascoltava più l'album – ci racconta Alan Sorrenti, la cui conversazione riportiamo qui sotto in forma condensata -. Era successo in particolare per l'album precedente, che conteneva Tu sei l'unica donna per me". Si può dire lo stesso anche per Di notte, la cui fortuna fu dovuta soprattutto alla partecipazione di "Non so che darei", singolo di estremo successo che partecipò a Eurovision Song Contest, spopolò al Festivalbar e vendette milioni di copie. "Per questo ho colto con molto entusiasmo questa nuova uscita di Di notte: tutti avranno l'occasione di ascoltarsi il progetto in generale".

Da dove parte l’idea di questa ristampa?

Il tutto è nato da un ragazzo di 23 anni, Pekka: qualcuno gli regalò il vinile, lo ascoltò e fece un remix di Magico… di notte che è uscito quest’estate. Universal è rimasta appassionata da questa cosa, e da qui è venuta l'idea di fare uscire di nuovo l'album. Anche per me è stata una spinta a riascoltarmi quest'album, e sono rimasto veramente sorpreso dalla qualità del suono, che è attualissimo tutt'oggi, forse anche molto meglio di molte altre cose che sento, con un livello veramente super di registrazione e di composizione.

Che periodo era quello in cui uscì Di notte, per lei?

Ormai vivevo a Los Angeles da un po’ di anni. A quel punto ero una parte di loro in qualche modo, perché dopo un po' di tempo si diventa parte di quella città, e questo lo sento nel disco. Io considero questo album l’apice della mia cosiddetta trilogia californiana, che era iniziata con Figli delle stelle e proseguita con L.A. New York. Questo è il migliore dei tre perché ci sono vari spunti e varie emozioni: non solamente la scoperta di quel luogo, com'era stato nel caso di Figli delle stelle, ma proprio un vissuto. In parte anche l’insofferenza di chi si sentiva già al limite e voleva cambiare e fare altro. Ma nella sua totalità lo trovo il disco più completo.

Cosa unisce questi tre album?

La congiunzione dei tre dischi sta nello stile di registrazione, con la produzione in stile LA Sound: un insieme di funky, pop e soul che è durato poco ma ha dato vita a molti altri stili. I tre dischi condividono un certo mood. Magari Non è follia va un po’ da altre parti e anticipa la mia futura ricerca del rock di La strada brucia, ma la mano è la stessa, e si sente. Jay Graydon che ha curato la produzione dei primi due dischi e di Non so che darei in questo album, e poi ha scelto Greg Mathieson per questo album, mi ha aiutato a dare il colore di questo lavoro e dei due precedenti, e per me è inconfondibile: era anche il colore dei Toto, per esempio. Poi naturalmente c’ero io, la mia voce, il mio modo di scrivere e di cantare.

Cosa possono andare a cercare dentro Di notte i giovani che per la prima volta incontreranno questo disco in streaming?

La sua completezza e la sua varietà: un giovane curioso di quell’epoca qui troverà il meglio della musica di fine Settanta, inizio Ottanta. È un album ancora analogico, e nell’aria c’è un’esigenza a tornare a quelle modalità. Penso sia uno dei prodotti migliori del periodo nella musica italiana, anche se penso che sia italiana solo per la lingua, perché per il resto è molto più un disco californiano.

In effetti, oltre al sound pop del momento, si avverte proprio quella serenità liquida californiana, la stessa serenità "chill" del cool, del folk psichedelico, di certo surf. Com’era la California di quegli anni?

Per me quello è stato il periodo migliore della California in assoluto, soprattutto visti gli sviluppi successivi. Arrivando dal prog italiano e dal cantautorato ho avuto la fortuna di incontrare, prima a San Francisco e poi a Los Angeles, solo musicisti di alta qualità che suonavano in un modo diverso. Conoscevo la musica West Coast, però lì era tutto nuovo e travolgente. Era così tutta la California dell’epoca: un'esaltazione della libertà, un’energia creativa che non avevo mai incontrato prima, e che non poteva non coinvolgerti. Io poi di natura tendo verso il nuovo, quindi mi ci sono proprio tuffato in modo estremamente naturale.

Cosa girava nell’aria in quel periodo e in quel luogo?

In quegli anni c'era questo senso di ricerca di un vivere meglio, magari non si sapeva ancora come, ma c’era la volontà di ricerca. Questo si rifletteva nella musica, che era quindi molto varia di ispirazione. Ora sembrano luoghi comuni, ma veramente allora sentivamo il desiderio di vivere in libertà, fuori dalle regole. Se vuoi, qualcuno anche aiutato da un giro di droga non indifferente, certo: in quel periodo molti ne facevano uso in modo positivo. Ma al di là di questo, la ricerca di libertà era effettiva, perciò la musica aveva questo contenuto filosofico, che a me sembrerebbe totalmente perso oggi.

Una stagione irripetibile, insomma.

Avevamo dei modelli ma cercavamo di essere personali, eravamo alla ricerca di una nostra identità. Poi, non essendoci una pressione o una competizione tra di noi, uno aveva il tempo di andare oltre i limiti e osare. Questo senso di libertà può ancora essere d’ispirazione, credo. Quei semi che avevamo lanciato talvolta sembrano che si siano persi per mancanza di saggezza nostra. Ma i germogli continuano a crescere: io li ritrovo oggi nei ragazzi che si spendono in favore dell’ambiente, per fare un esempio. Niente si ferma. Noi, delusi, pensavamo che dopo gli anni ‘70 e ’80 fosse tutto finito. Ma i giovani nella loro contraddizione totale stanno portando avanti questa ricerca di libertà. Io nel ritorno di Figli delle stelle sento che i giovani che vengono ai miei concerti si identificano molto in quella canzone, in modo anche più viscerale di quanto non accadesse all’epoca in cui uscì.

Alan Sorrenti ai tempi di Di Notte
Alan Sorrenti ai tempi di Di Notte

Tornando a Di notte, hai raccontato che Non è follia fu scritta nell’ex villa di Humphrey Bogart, comprata da Greg Mathieson, produttore di tante tracce di questo disco. Come andò?

Greg aveva uno studiolo lì in quella villa, una tastiera e poco più. Capitava che andassi lì e scrivessi qualcosa confrontandomi con lui. Gli si era presentata l’occasione di comprare questa grande abitazione, e la colse: aveva fatto un po’ di soldi arrangiando gli archi per Donna Summer con Giorgio Moroder, ma non abbastanza per il mobilio! Il posto era meraviglioso, a Laurel Canyon, uno dei luoghi mitici della Los Angeles di quel periodo, che ospitava tanti artisti. C’era un’atmosfera particolare, e quelle erano ore bellissime: si arrivava all’alba facendo voli pindarici e arrivando a conclusioni sulla vita. C’era molta filosofia! E poi, però, in studio si lavorava molto seriamente: in America ho imparato la tecnica del recording studio che non avevo davvero prima. Quando penso a Di notte penso sempre a quella casa. E alla fantastica copertina.

Cosa rappresenta quell’immagine?

Per me riflette Hollywood Boulevard, i colori che poi avrebbe visto David Lynch, questi colori plastici che a me piacevano molto. Los Angeles era qualcosa che non avevo mai visto, era un altro emisfero. C’era di tutto in quella città, artisti o mistificatori, gente che viveva per il cinema e quindi magari anche il benzinaio sognava di essere attore e se la tirava un po’. Una città estremamente creativa.

Tuttora Los Angeles è un luogo di expat italiani, anche per la musica oltre che per la vita (penso a Tiziano Ferro e Vasco Rossi). Anche allora era così? C’era una comunità italiana musicale che si incrociava in quei posti, nei locali, negli studi? Capitava di incappare in un collega?

No, altri artisti italiani non si incontravano. Magari capitava di trovare qualche giornalista che faceva da corrispondente. E sapevo che Tony Renis si era stabilito lì, ma non ho mai avuto occasione di incontrarlo. Io facevo vita da americano, in qualche modo.

E com’era vivere a LA in quegli anni?

Rispetto a oggi c'era ancora questo enorme fascino di una città piena di artisti, o forse fuggitivi, arrivati ai confini del mondo. Ma c'era anche il cinema che andava benissimo dal punto di vista creativo, in quel momento. Io ero spesso al Chateau Marmont, l’hotel, in quegli anni e spesso capitava di incontrare attori come De Niro, mentre i Blues Brothers lì giù facevano dei party. Succedevano tante cose, certo, ma la vera differenza rispetto a oggi è che non c'era la sicurezza. Quello che è entrato dopo un po' nel mondo è il bisogno di un senso di sicurezza: siamo blindati e quindi tutto va bene, ma così si perde la spontaneità. Di recente sono stato a Los Angeles e l’ho vista molto cambiata da questo punto di vista.

Capitavano anche momenti musicali memorabili in quei party?

Si suonava da altre parti, in realtà, nei locali sparsi in giro per la città. Ma esperienze di concerti bellissimi ne ho avute, certamente, perché si suonava tanto e dappertutto. Ad esempio, la band che poi ho portato anche in Italia l’avevo presa proprio da un locale a San Francisco, quando arrivai nel 1976, all’epoca del primo album americano, Sienteme, It's Time to Land. Incontri ravvicinati memorabili semmai li ho fatti in studio. Una volta ho sentito i Doobie Brothers che provavano in uno studio, e sembrava un disco! Altre volte capitava di trovare Tina Turner, e così: erano incontri normali, non ci facevi neanche troppo caso.

Era ormai parte della città, come diceva.

Sì, e anche per questo con la band eravamo in grande sintonia.

E le sue giornate com’erano?

Io vivevo vicino all’oceano, nei pressi della Pacific Coast Highway. Per me l’appuntamento quotidiano era con la spiaggia. E poi guidavo tantissimo. Los Angeles è unica in questo senso, perché è incredibilmente estesa: vai su per la Valley e ti ritrovi in tutt’altra zona, come Pasadena per esempio, e ti sembra di aver fatto un viaggio. Lì si passa molto tempo in auto, e a me piaceva molto.

Questo disco sembra voler proprio catturare l’atmosfera notturna di quella città in quel momento storico. Com’erano le notti losangeline?

La vita notturna a Los Angeles si muoveva soprattutto nei party privati. In quella città tutto accadeva maggiormente nelle case, in feste anche molto grandi e sfarzose, mentre per strada questo accadeva molto meno. Quindi dovevi conoscere qualcuno per entrare. E lì si svolgevano certi incontri che poi si finalizzavano anche nella musica.

E com’era stare in Italia, quando tornava da tutto questo?

La cosa più importante per me era evitare di fare il militare in quel periodo! Non farsi "implotonare", come si diceva.

E la Napoli degli anni precedenti la partenza?

La ricordo come una città molto rivoluzionaria. La zona del Vomero, dove vivevo io, era sintonizzata con Londra, una parte secondo me molto innovativa e affascinante. Aveva poco della tradizione. Ma la particolarità di quella Napoli, del Napoli Power di cui si parla anche oggi, è che c’erano tante realtà, varie zone in cui ognuno si esprimeva alla propria maniera.

Alan Sorrenti
Alan Sorrenti

Come il compianto James Senese.

James era Napoli Centrale, la Sanità, il cuore di Napoli dove gli americani avevano lasciato il segno. E da lì nasce anche Pino Daniele, notoriamente. All’epoca non ho avuto occasione di incontrarlo, anche perché era nato prima di me e stava avendo già grande successo con gli Showmen, era un’altra generazione.

Poi però avete anche suonato insieme, anni dopo.

In occasione dell’album Radici nel ‘92 tornai a Napoli per reinterpretare Dicitencello vuje, un classico napoletano che avevo rivisitato nel periodo prog. E in quell’occasione si pensò di invitare James, così lo rividi dopo molti anni. Fu un bellissimo incontro. Il fatto che abbia suonato in quell’album è molto importante per me, e lui è stato davvero un esponente di una Napoli creativa. È stata un’anima di Napoli, io al suo confronto sono un po’ uno straniero. Ero un po’ l’altra Napoli. Il tempo poi aiuta a unire anche quello che era più separato.

E oggi come trova Napoli?

La trovo estremamente interessante, molto internazionale e molto creativa. È sempre stata una città esplosiva, però, bisogna dire.

Riprendere in mano Di notte le ha fatto ripensare anche a questi cambiamenti storici della sua vita e delle città in cui ha vissuto?

A parte la sorpresa del sound, capire quanto eravamo avanti, oggi Di notte mi fa riscoprire il mio passato. Sono alle prese con la scrittura della mia autobiografia, da cui spero si tragga un film. La musica aiuta la memoria, in questo caso.

Questo la fa mai riflettere anche sull’eredità della sua musica sui luoghi che ha abitato? Per esempio, nel suo saggio Napoli Balla Gennaro Ascione sostiene che in pratica il suo successo con Figli delle stelle non va inteso come una frattura tra un mainstream commerciale e un underground, ma come la dimostrazione che "ce la si poteva fare", e questo ha dato lo spunto a tutta la scena disco-funk del cosiddetto Napoli Sound. Lei è d’accordo con questa interpretazione storica?

So che mi è stata riconosciuta questa cosa, ed è bello sapere di aver lasciato agli altri qualcosa che serva alla musica in generale. Io l’ho scoperto non a Napoli, in realtà, ma a Milano dove ho incontrato personaggi che mi hanno detto di quest’influenza anche stilistica della mia musica.

Basta pensare ai molti omaggi che ha ricevuto, la collaborazione con il produttore Stefano Ceri sul suo ultimo disco, Oltre la zona sicura, e con Gaetano Scognamiglio dei Fitness Forever che ha suonato con lei in quel periodo tra 2022 e 2023. E lei come si trova con questa nuova scena?

Onestamente non ci penso più di tanto. Il riconoscimento è bello, ma devi andare avanti. Anche il funky pop ormai si è fatto abbastanza. Sono proiettato più verso il futuro.

Ad esempio?

Ho fatto alcune collaborazioni. Di recente attraverso l’etichetta di DJ di Monaco di Baviera Toy Tonics ho fatto un featuring in un pezzo secondo me molto forte, anche lì funky pop ma seguito molto bene, un po’ sulla scia Italo Dance. So che dovrebbe uscire presto, è di una band di Bologna che si chiama Kymono.

E adesso?

Mi prenderò un paio di mesi per finire di scrivere la mia vita. Mi è stato dimostrato un certo interesse per una traduzione cinematografica.

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