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Simona, educatrice per bimbi disabili: “Noi lavoratori invisibili dimenticati dalla crisi”

A Fanpage la lettera di Simona, educatrice socio-pedagogica per una cooperativa sociale che lavora su appalto per il Comune di Bologna. “Mi prendo cura di bambini disabili, ma ora con l’emergenza ci hanno tagliato le ore. Vorrei che qualcuno mi spiegasse alle famiglie perché le ore per i loro bimbi sono state tagliate e a me perché a essere calpestata è la mia dignità di lavoratrice”.
A cura di Redazione
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"Sono Simona Hassan, un'educatrice professionale socio-pedagogica, dipendente di una cooperativa sociale a cui il Comune di Bologna appalta i servizi educativi scolastici. Lavoro, quindi, su appalto. Sono una moderna lavoratrice a cottimo: noi educatori non abbiamo un mensile fisso, siamo pagati a ore, quindi il nostro stipendio dipende in parte dalle ore settimanali che abbiamo da contratto, in parte dai giorni lavorativi effettivi del mese. Lavoro in una scuola primaria con i bambini disabili: quando questa chiude, io non sono pagata. Non sono pagata durante le vacanze di Natale, durante quelle di Pasqua, nemmeno durante quelle estive. L'estate scorsa, per esempio, mi sono data disponibile per tutti i mesi di giugno, luglio e agosto, ma ho potuto lavorare solo due settimane. Purtroppo, nonostante la cooperativa detenga molti centri estivi, gli iscritti sono stati pochi e molti di questi non sono partiti. La conseguenza è stata che la maggior parte dei lavoratori non ha potuto lavorare. Il numero esatto non lo sappiamo perché la cooperativa non ha voluto rilasciare ai sindacati dei dati certi. L'estate del 2018 i lavoratori hanno potuto beneficiare del Fis (fondo di integrazione salariale), una cassa integrazione erogata dall'Inps che paga (all'80%) le ore che non si sono lavorate nel periodo estivo. Il Fis relativo all'estate del 2018 è arrivato a febbraio del 2019. Sei mesi dopo. Nel frattempo ti attaccavi. Prosciugavi i risparmi, ti facevi prestare i soldi da mamma e papà, non so bene. Per quanto è riguardato per l'estate del 2019, la mia prima estate a tempo indeterminato, ancora stiamo aspettando: il Fis non è ancora arrivato e mi chiedo se mai arriverà. Sono stata senza stipendio intero per mesi: secondo i miei calcoli noi educatori siamo pagati interamente soltanto per sei mesi all'anno. Gli altri sono dimezzati se non di più, in balia di chiusure, ponti, malattie dei bambini che seguiamo, trasferimenti, in balia di qualunque cosa possa succedere. Nel frattempo però l'affitto, le bollette, i mutui vanno pagati. Sono inderogabili. Ogni imprevisto diventa emergenza, faticoso vivere così. Faticoso progettare, programmare il futuro, anche quello più prossimo.

A marzo, mentre i nostri colleghi statali continuano a lavorare più o meno da subito con la didattica a distanza e senza che nessuno – giustamente – mettesse in dubbio il loro stipendio, noi passiamo settimane interminabili a cercare di capire se saremo pagati e quando, a confrontarci con i sindacati, a scongiurare la cassa integrazione ben consapevoli dei tempi dell'Inps, ma anche del fatto che i soldi a bilancio per i nostri stipendi ci sono già, quindi perché mai il comune dovrebbe decidere di non pagarci ricorrendo a un ammortizzatore sociale che potrebbe destinare ad altri lavoratori? Beh, la risposta sta nel nostro contratto: il comune paga solo i servizi erogati, ergo se la scuola è chiusa il comune può non pagare. Anche se la situazione è straordinaria, anche se la chiusura non dipende da noi, il comune prende tempo – più di un mese – per avviare la possibilità della didattica a distanza (dad) anche per noi, il personale educativo, quello invisibile. Nel frattempo i bambini disabili che noi seguiamo perdono settimane preziose, sono privati delle loro figure di riferimento, sono abbandonati a loro stessi assieme alle famiglie, in grosse difficoltà e fragili ben da prima dell'emergenza coronavirus. A inizio aprile arriva l'avvio della dad, ma con sorpresa: le nostre ore sono state tagliate dai quartieri. Lavoriamo sì, ma con meno ore, in tanti casi molte meno ore. Colleghi con trenta ore da contratto si sono trovati a poterne lavorare soltanto sei a distanza. Sei su trenta. Il resto in Fis, con la certezza o quasi che arrivi assieme allo stipendio. O magari il Fis lo anticipano le cooperative. E quelle che non hanno soldi? Non lo anticipano. E i lavoratori? Possono aprire un conto in banca e farselo anticipare dalle banche. Sembra assurdo, ma è così. Il tutto con i soldi per pagarci già stanziati a bilancio dal comune. Il tutto perché la nostra figura professionale è tanto importante quanto emarginata e calpestata da questi trattamenti non nuovi a noi educatori, da parte delle amministrazioni degli appalti sempre al ribasso, da alcuni sindacati che tutto fanno tranne il bene dei lavoratori. Chi lo racconta alle famiglie dei bimbi disabili che le ore destinate a loro sono state brutalmente e arbitrariamente tagliate dai quartieri? Chi si assume la responsabilità di questi tagli che non assicurano l'integrazione dei bimbi e il loro pieno diritto allo studio?

Vorrei che qualcuno mi rispondesse, che qualcuno spiegasse alle famiglie perché le ore per i loro bambini sono state tagliate e a me perché a essere calpestata è la mia dignità di lavoratrice. Io stasera sono arrabbiata e dispiaciuta perché, invece, penso che gli appalti per i servizi educativi non dovrebbero esistere. Penso che in un Paese civile la cura, la formazione e lo sviluppo del bambino, ancora di più di quello disabile, dovrebbero essere tra i primi punti di un'agenda istituzionale. In generale, penso che il bene e i bisogni dei più fragili, dei più deboli, di quelli che alcuni strumenti non li hanno o ne sono stati privati, dovrebbero essere tra i primi punti di un'agenda di governo: non solo nell'emergenza, in qualunque momento. Penso che la violenza sulle donne non sia solo argomento del 25 novembre, così come il diritto a una casa non debba diventare improvvisamente (dove e quando lo diventa) argomento scottante se la casa diventa l'unico rifugio contro la diffusione di un virus, e molti una casa non ce l'hanno. Alla normalità non voglio tornare se contempla tutto quello che – sembriamo scoprire solo ora – ci ha portato a questo drammatico punto. Non voglio tornare alla normalità di una politica che non si rende conto di come ogni sua minima decisione, ogni scelta impatti profondamente sulla vita delle persone a cui si rivolge. Parliamo di vite fatte di anni di sacrifici, di sogni che faticosamente hai avvicinato, quasi li puoi già toccare, li annusi e spariscono all'improvviso a pochi centimetri dalle tue dita. Il mio è un discorso da privilegiata, lo riconosco. Ho un tetto sulla testa, che non tutti hanno. Ho delle coinquiline patrimonio dell'umanità, molte persone non hanno questa fortuna, altre hanno una compagnia di cui farebbero a meno, altre sono sole. Ho la possibilità di pagare un affitto, di essere autosufficiente nonostante il mio contratto nazionale, le enormi difficoltà e i grandi sacrifici che questo comporta. Però mi chiedo: fino a quando dovrò ringraziare delle briciole, di quello che dovrebbe essere un diritto di e per tutti? Fino a quando dovrò rimpicciolire i sogni che faccio, placare le speranze e i progetti? Siamo una generazione a cui a venti anni hanno detto che OPS, forse non avremmo potuto avere tutto ciò che ci avevano promesso, che c'era la crisi e le cose erano cambiate. Benissimo, lavoriamo per adattarci al cambiamento. A venticinque anni ci hanno detto che OPS, una laurea non bastava. Così ne abbiamo presa un'altra, poi un master e, se non fosse bastato, infiniti corsi di formazione, un dottorato, un'esperienza all'estero. Abbiamo fatto tirocini, praticantati, abbiamo accettato contratti di apprendistato, part time da dodici ore al giorno, un lavoro, tre lavori, per fare esperienza, per avere visibilità, di giorno, di notte, nei weekend, in estate, in nero e ancora non è bastato. Cos'altro dobbiamo dimostrare di saper fare, di saper dire, senza mai riuscire a essere?

Io non credo che andrà tutto bene se non impariamo a volerci bene, ad abbracciarci davvero. Il mio lavoro mi ha insegnato anche questo: a prendermi cura degli altri e, prima ancora, di me stessa. Questo periodo ci sta insegnando come, che noi lo vogliamo o meno, siamo legati nel profondo, le nostre azioni hanno conseguenze sugli altri e quelle degli altri su di noi. In una parola: siamo comunità. Forse, però, dobbiamo chiederci che tipo di comunità siamo e in che modo vogliamo diventarlo. Dobbiamo imparare a esserlo a prescindere dalle emergenze sanitarie. In fondo questo tempo lento e doloroso ci sta aiutando ad aprire gli occhi su ciò che davvero ci manca, ciò che è importante nelle nostre vite: ripartiamo da lì, dai giochi dei bambini, da una scuola nuova e davvero inclusiva che non si dimentica di nessuno, dalla violenza che va ancora combattuta e si insinua proprio tra le mura domestiche, dai rapporti tra le persone. Ripartiamo dalle biciclette anziché le macchine, dalle aree verdi invece che dal traffico, dallo smart working quando possibile (ma controllato, non furioso come quello delle ultime settimane), da un lavoro con garanzie e dignità per tutti, che sia valorizzato, pagato".

Simona Hassan

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