
Siamo partiti.
Il tempo dell’attesa e della possibilità, quello del “mi imbarco oppure no”, è finito. Anche il tempo del “ma chissà se alla fine partiremo davvero” è terminato.
Ora abbiamo un piccolo mare dietro e uno più grande davanti. La velocità in questo momento è fra i cinque e i sei nodi, la direzione è Gaza.
Il viaggio potrebbe durare un giorno, possono intercettarci in qualunque momento e sappiamo (più o meno) cosa accadrebbe. Oppure questo viaggio potrebbe durare molti giorni. Io la tensione la gestisco così: mi sono obbligato a pensare soltanto a quello su cui posso avere un’influenza diretta. Perciò i turni al timone, cucinare, tenere il bagno pulito, rimettere il sacco a pelo in ordine dopo aver dormito. E soprattutto raccontare. Le parole sono importanti. Le parole cambiano le agende.
Salire su questa barca come giornalista di Fanpage.it, con una redazione a terra con cui mi scambio in ogni momento informazioni e suggerimenti, non è soltanto una forza, è anche una parte della motivazione. Essere qui e avere la possibilità di raccontare quello che accade significa provare ad accendere i riflettori sul massacro in Palestina e sulla fame indotta a cui è costretta la popolazione palestinese a causa delle scelte del Governo israeliano.
All’ospedale di Cisanello, a Pisa, a pochi chilometri da casa mia in Toscana, qualche settimana fa è arrivata una donna palestinese attraverso un minuscolo corridoio umanitario, immediatamente richiuso. Poche ore dopo è morta per denutrizione. Il governo israeliano si è affrettato a dichiarare che no, sarebbe morta a causa della leucemia. Ma dopo le analisi cliniche i medici italiani hanno confermato: non aveva la leucemia ed è morta per inedia, cioè di fame. O perché la fame aveva compromesso il suo corpo fino al punto da non renderlo più curabile, ma lei non aveva la leucemia. Ecco perché siamo qui, ed ecco anche cosa significa per me raccontare. La donna si chiamava Marah Abu Zuhri e aveva vent’anni. Perché anche i nomi sono importanti.
In questa partenza – e in tutti i giorni che l’hanno preceduta – porto con me una convinzione: i crimini di guerra sono illegali. Noi che chiediamo l’apertura di un corridoio umanitario stiamo invece, semplicemente, chiedendo il rispetto delle leggi.
Ancora: invadere uno Stato è illegale, uccidere deliberatamente la popolazione civile è un crimine di guerra, colpire le barche della Flotilla che trasportano latte in polvere non è consentito dal diritto internazionale. Trasportare quel latte in polvere, sì.
Provocare la fame è illegale, dare da mangiare è legale.
In quello che facciamo non è insito nessun atto di disobbedienza, ma di obbedienza alle leggi internazionali e alla legge più sacra di tutte, quella dell’umanità. Noi siamo dalla parte della legge e di chi ha fame. Dare da bere agli assetati non è uno slogan dei centri sociali.
Dovrebbe essere la comunità internazionale a rompere l’assedio di Gaza, non noi. Non dovrebbe esserci bisogno di un movimento civile a chiedere l’apertura di un corridoio umanitario, dovrebbe averlo già fatto la comunità internazionale. E forse, se la comunità internazionale avesse agito prima, oggi non ci sarebbe neanche un genocidio in corso. Invece in troppi continuano a dare a Benjamin Netanyahu l’avallo, e a vendere armi a Israele.
Le moderne tecnologie permettono di assistere, per la prima volta nella Storia, a un genocidio quasi in diretta social, se pure Israele vieta l’entrata in Palestina di qualsiasi giornalista internazionale e ammazza quelli palestinesi, oltre 260 fino a oggi.
“Io non voglio dimostrare niente” diceva Fellini, “io voglio mostrare”. Noi la pensiamo come lui.
Buon vento a tutti gli equipaggi di mare e di terra.
