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La strage di Erba di Olindo e Rosa

“Rosa e Olindo sono innocenti”: cosa succede adesso e perché il caso può essere davvero riaperto

Perché il processo sulla strage di Erba potrebbe essere riaperto e quali sono i passaggi giudiziari che potrebbero portare alla liberazione di Olindo Romano e Rosa Bazzi.
A cura di Anna Vagli
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Azouz Marzouk nel 2006 perse suo figlio Youssef, di 2 anni, e sua moglie Raffaella Castagna: un delitto per il quale sono stati condannati all’ergastolo due coniugi, Olindo e Rosa Romano. Ma per Azouz, che ancora chiede giustizia, “sono solo dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità”.
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Era il 3 maggio 2011 quando la Corte di Cassazione poneva il sigillo giudiziario sulla strage di Erba. Fine pena mai per Olindo Romano e Rosa Bazzi per la mattanza compiuta l’11 dicembre del 2006: quattro le persone barbaramente uccise, Raffaella Castagna, il piccolo Youssef Marzouk, Paola Galli, una quinta ferita a morte, Mario Frigerio.

E oggi dopo diciassette anni, diciassette lunghi anni, arriva direttamente (anche) dagli uffici della Procura meneghina, la volontà di rivedere una sentenza definitiva i cui contorni sono in grado di porre in discussione il principio che deve orientare ogni dispositivo di condanna: quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Olindo Romano e Rosa Bazzi sono in carcere da innocenti” queste le parole messe nero su bianco da Cuno Tarfusser, sostituto procuratore della Corte d’Appello di Milano.

Cinquantotto pagine di relazione nel quale quest’ultimo ha evidenziato tutti gli errori investigativi prima, e processuali poi, che hanno portato a pronunciare la pena dell’ergastolo nei confronti dei coniugi Romano. Ma il dottor Tarfusser, assolvendo nel pieno delle sue funzioni, ha compiuto un ulteriore passo fondamentale. Ha chiesto alla Corte d’Appello di Brescia, che è l’organo che ha giudicato in secondo grado colpevoli Rosa e Olindo e che dovrà decidere se accogliere o rigettare la richiesta, di analizzare le nuove consulenze tecniche capaci di far luce su elementi inediti prodotti dalla difesa, come intercettazioni e testimonianze. Il sostituto procuratore rimarca anche la necessità di valutare come inattendibile la testimonianza rilasciata da colui che è stato considerato il teste chiave, Mario Frigerio, invocando i falsi ricordi e l’impossibilità di attribuire credito ad una dichiarazione resa da un testimone vittima dietro domande cosiddette suggestive. La legittimità di queste ultime, peraltro, è esclusa dalla legge. Qui trovate tutti i dubbi che già avevamo manifestato tornando dove tutto è cominciato, sulla scena del crimine.

Ciò detto, quindi, la Procura si allineerà alla strategia difensiva? A rigor di logica, sì. Il meccanismo però è più complesso. Vi spieghiamo perché.

Cosa succede adesso in Procura

La relazione redatta dal sostituto procuratore, il dottor Cuno Tarfusser, dovrà ora essere vagliata dal Procuratore Nanni e dall’avvocato generale Tontodonati, che dovranno decidere se, come pubblica accusa, unirsi alla richiesta di revisione che verrà depositata a breve dai legali di Rosa e Olindo. La spiegazione è tutta procedurale. Prima, però, passiamo da un assunto incontrovertibile.

Quando una Procura si spinge a chiedere di smentire sé stessa, anche “solo” nella veste dei suoi sostituti procuratori, significa che le probabilità che Rosa e Olindo siano vittime di un errore giudiziario sono prossime alla certezza. E questo è un ragionamento oggettivo e senza alcuna influenza mediatica o giornalistica che tenga. Il perché ce lo dice il codice di procedura penale, la legge, il sistema. Ce lo conferma la regola.  Dato che, ai sensi dell’art. 533 c.p.p., è la procura che formula l’accusa e chiede la condanna.

Ciò detto, tuttavia, non si tratta ancora di passaggio meccanico. Questo perché, come disciplinato dal codice di rito, i sostituti procuratori devono sempre rispondere, come ufficio, al procuratore generale. Che, per definizione, è a loro gerarchicamente sovraordinato. Per questo, la parola definitiva sulla strategia della pubblica accusa spetta al procuratore Francesca Nanni e all’avvocato generale Lucilla Tontodonati. Quindi, bisognerà attendere ancora per vedere come si orienterà la procura generale. Certo è che la pubblica accusa ha l’opportunità di dimostrare che sbagliare è umano. Che non basta appellarsi al numero dei giudici che hanno siglato una condanna per dare credito alla stessa. Ora c’è l’opportunità di rimediare. E non solo per amore di verità e giustizia. Ma soprattutto perché l’Italia è uno stato di diritto. Ed è doveroso che venga data la possibilità di difendersi a chi, forse, è stata sottratta indebitamente la libertà personale. Oggi, sono diciassette anni.

Questo non vuol dire che non verrà depositata la richiesta di revisione. Al contrario, i legali di Rosa e Olindo lo faranno nelle prossime settimane. Tuttavia, non è difficile comprendere come, laddove tale richiesta fosse rafforzata dalla pubblica accusa, le possibilità di ottenere la riapertura del processo crescerebbero in maniera a dir poco esponenziale.

In questo senso, c’è un dato non trascurabile. L’istituto della revisione processuale è considerato straordinario proprio perché, per ragioni di certezza del diritto, rischierebbe di essere un mezzo pericoloso e capace di mettere in discussione qualsiasi condanna. Questo spiega perché venga attivato con difficoltà.

Perché sono stati condannati Rosa e Olindo

Il ragionamento è in punto di diritto e serve a comprendere quali saranno i prossimi passi giudiziari che potrebbero fare da apripista alla riapertura del processo.

L’art. 533 del codice di procedura penale, rubricato condanna dell’imputato, stabilisce che il giudice debba pronunciare la sentenza di condanna solo se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Una regola cristallizzata nel nostro ordinamento nel 2006, peraltro proprio nell’anno della strage di Erba, e che è animata dal principio secondo il quale, giuridicamente parlando, è più equo assolvere dieci colpevoli che condannare un solo innocente. Non è un caso che l’introduzione di questo precetto sia stato letto da molti cultori del diritto come una rivoluzione copernicana nell’accertamento del fatto.

E allora a questo punto è legittimo chiedersi: quando un dubbio può qualificarsi come ragionevole? Purtroppo, non c’è una risposta univoca. Dopo reiterate battaglie giurisprudenziali, non ne siamo ancora venuti a capo. Possiamo però ragionare al contrario. E chiederci come si arriva a condannare qualcuno “al di là di ogni ragionevole dubbio?”

Opero da anni nel mondo giudiziario e non posso negare come, forse troppo spesso, la formula dell’oltre ragionevole dubbio sia un posto impervio e complicato da raggiungere. Dove spesso le scelte processuali diventano quasi obbligate di fronte a quanto meno opinabili errori investigativi.

Come si arriva alla riapertura di un caso chiuso

La revisione del processo, a differenza dell'appello e del ricorso per Cassazione, è un mezzo di impugnazione straordinario. Che quindi richiede requisiti tassativi per essere esercitato proprio perché capace di annullare la sentenza definitiva di condanna. La richiesta di revisione può anzitutto essere avanzata dal condannato, da altri soggetti che si trovino in particolare i rapporti con lui – tutore, erede o prossimo congiunto del condannato deceduto), e dal procuratore generale presso la Corte d'appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza di merito che si chiede di revisionare. Quindi, questo spiega il perché dell’attivazione da parte dei sostituti procuratori della Corte d’Appello di Milano.

Come dicevo, le ipotesi di revisione possono essere solo quelle tassativamente previste dal codice di procedura penale. Nello specifico, all’art. 630 c.p.p. Esse sono quattro: sopravvenienza di nuove prove di innocenza del condannato (o dei condannati), inconciliabilità dei fatti posti a fondamento della condanna con quelli di altra sentenza irrevocabile, sopravvenuta revoca della sentenza pregiudiziale, civile o amministrativa; ed infine falsità in atti o in giudizio o di altro fatto di reato dal quale dipende l’attuale condanna.

Per quel che attiene i fatti di Erba, l’istanza dovrebbe fondarsi su nuove prove mai esaminate e capaci di ribaltare il giudicato. Esattamente ciò che si richiede per riaprire un processo. Tornando ai fatti, i soggetti che potrebbero depositare l’istanza di revisione sono due. I legali di Rosa e Olindo e la Procura generale. I primi lo faranno sicuramente.

Chi decide se il processo può o meno essere riaperto

L'istanza di revisione deve essere depositata presso la Corte d'appello del giudice che ha emesso la condanna. Nel caso di Erba, competente è la Corte d'appello di Brescia. Qualora quest'ultima dovesse accogliere la domanda di revisione, revocherebbe la condanna di Rosa e Olindo trasmetterebbe gli atti al giudice di primo grado. Per l'instaurazione di un nuovo processo.

Secondo quanto stabilisce la giurisprudenza, La Corte d'appello deve formulare un giudizio prognostico sull'identità delle nuove prove a mettere in discussione la condanna. In termini concreti, è sufficiente che queste ultime instillino anche solo un ragionevole dubbio sulla responsabilità dei condannati. La parola ai giudici.

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