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Ricerca, la proposta di un rettore: “Accisa sulla benzina per assumere 2.000 giovani”

Stefano Paleari, rettore dell’Università di Bergamo, propone di assumere 2mila giovani ricercatori ricavando i fondi “con qualche accisa, per esempio sui prodotti petroliferi”.
A cura di D. F.
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L'Italia non è un paese per giovani, soprattutto per giovani ricercatori. In un'inchiesta della scorsa settimana Gian Antonio Stella riportava sul Corriere i dati drammatici della presenza di giovani docenti nelle università italiane: su 13.239 professori ordinari neppure uno ha meno di 35 anni. E solo 15, poco più di uno su mille, è sotto i 40. L’età media è di 52 anni e mezzo. I professori sotto i 30, che in genere sono ricercatori, hanno fatto registrare un calo del 97% dal 2008 ad oggi. Il dato è preoccupante e Stefano Paleari, rettore dell’Università di Bergamo, spiegava: “Avanti così, col turn-over che ci lascia prendere un giovane ogni due docenti che vanno in pensione, emorragia destinata ad aggravarsi, rischiamo nel 2020 di non avere più giovani che possano concorrere ai programmi europei”.

Ebbene, sempre Paleari è tornato a commentare i dati sulle colonne del Corriere con una lettera aperta che riportiamo integralmente:

I dati sull’età dei professori italiani riportati da Gian Antonio Stella sulle colonne di questo giornale pochi giorni fa sono davvero eclatanti. Ci dicono che le porte dell’Università italiana sono praticamente chiuse ai nostri giovani: nessun professore ordinario sotto i 35 anni e solo 15 sotto i 40 anni su una popolazione di oltre 12.000 unità. Ma questa situazione non è una caratteristica strutturale delle nostre Università bensì il risultato di una dinamica iniziata nel 2008 con le limitazioni al turnover. Infatti, la scomparsa dei giovani è coincisa con la diminuzione del personale docente e ricercatore nell’Università italiana.

In altri termini, non è che i giovani sono stati battuti dai vecchi nei concorsi; semplicemente non hanno avuto la chance di combattere. E così, se nel 2008 c’erano 4.807 docenti e ricercatori con meno di 35 anni ora siamo a meno di 1.000 unità (quasi tutti ricercatori, peraltro). Nessuna inversione di rotta è, purtroppo, all’orizzonte e nei prossimi 3 anni andremo semplicemente a zero. Stella, citando Umberto Veronesi, dice che questo è un delitto perché la «guerra si fa con i giovani» e oggi la guerra è quella per la conquista della supremazia nel mondo della conoscenza. Pensiamo, ad esempio, cosa costa al contribuente italiano il nuovo farmaco per la cura dell’epatite C e chiediamoci se non fosse stato meglio crescere i ricercatori che conducono a queste scoperte piuttosto che rifocillare le multinazionali del farmaco con i loro brevetti a scoperta raggiunta, magari con il contributo di qualche ricercatore nostrano.

Ma c’è di più e di peggio: in realtà noi i giovani li abbiamo come mandati in guerra, non per fortuna al fronte a difendere i confini ma alla frontiera per «combattere» negli altrui «eserciti». Ancora: li abbiamo prima ben «equipaggiati» (i nostri dottori di ricerca sono molto preparati e apprezzati nel mondo) e poi li abbiamo asserviti alla forza dei nostri concorrenti. Il risultato è proprio equivalente quello di una guerra tradizionale che elimina intere generazioni di giovani e priva il Paese anche della loro potenzialità economica. E’ forse anche per questo che l’Italia non cresce più. Come si fa, infatti, in una società sempre più della conoscenza a tollerare flussi migratori tali per cui chi esce ha una preparazione superiore a quella di chi entra?

Quello che è avvenuto non deve far perdere più nemmeno un minuto. Si avvii un programma per la selezione ogni anno del 20% dei migliori dottori di ricerca. Sto parlando di 2.000 giovani all’anno che costano 100 mln il primo anno e 300 mln a regime. Una cifra irrisoria se si pensa all’entità di altre spese e, soprattutto, alla posta in gioco. E che si può ricavare con qualche accisa, per esempio sui prodotti petroliferi. Se guerra è, infatti, allora si ricordi che ancora oggi su ogni litro di benzina paghiamo l’accisa introdotta nel 1935 per sostenere il conflitto in Abissinia. L’importante è che siano risorse vere e non giochi contabili che prima sottraggono da una parte dello stesso settore e poi, parzialmente, come fosse beneficienza, restituiscono all’altra. Per selezionare questi giovani, infine, si facciano in ogni settore concorsi nazionali, con commissioni internazionali (modello Erc europeo per intenderci). I vincitori prenderanno servizio nelle Università italiane o nei nostri centri di ricerca che pagheranno il loro stipendio. Non perdiamo altro tempo. Oggi è questa la nostra Campagna d’Africa. Ed è anche quell’attimo più nobile

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