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Processo Ciro Grillo

Processo Ciro Grillo, dopo tre anni la condanna: “La vittima è stata creduta, segnale importante”

Otto anni per Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, 6 anni e sei mesi per Francesco Corsiglia. Si è concluso con una condanna il processo di primo grado per lo stupro di gruppo ai danni di due ragazze avvenuto a Porto Cervo la notte fra il 16 e il 17 luglio 2019. Fanpage.it ha parlato della decisione dei giudici con l’avvocata penalista Simona Ceretta.
Intervista a Simona Ceretta
Avvocata penalista.
A cura di Eleonora Panseri
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Otto anni per Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, 6 anni e sei mesi per Francesco Corsiglia. Si è concluso con una condanna il processo di primo grado per lo stupro di gruppo ai danni di due ragazze avvenuto a Porto Cervo la notte fra il 16 e il 17 luglio 2019.

La sentenza, emessa dal collegio del tribunale di Tempio Pausania presieduto da Marco Contu, a latere Marcella Pinna e Alessandro Cossu, è arrivata dopo tre ore di camera di consiglio, tre anni di processo e altre tre di indagini. Fanpage.it ha parlato della decisione dei giudici con l'avvocata penalista Simona Ceretta.

"Per il momento possiamo parlare soltanto del dispositivo perché dovremo attendere per le motivazioni, da cui si potrà capire un po' di più", ci spiega la legale. La prima cosa che le chiediamo è di commentare le parole della collega, Giulia Bongiorno, che ha difeso la ragazza che ha denunciato i quattro giovani e che ha definito la sentenza "granitica".

"È probabile che la ritenga una sentenza che mette un punto fermo sul fatto che sia stato riconosciuto che chi abusa di una persona che non ha la piena consapevolezza di quello che fa viene punito. Anche perché nei delitti di violenza sessuale c'è sempre la tendenza a imputare una qualche responsabilità alla vittima, la cosiddetta ‘vittimizzazione secondaria'".

"Forse in questo senso la collega l'ha intesa così. I fatti narrano che la violenza di gruppo è stata perpetrata dopo che la ragazza è stata indotta all'utilizzo di alcol, con quello che era stato chiamato ‘il beverone'. La difesa, per ciò che ho visto e sentito, ha sempre tentato di attribuire una qualche conpartecipazione e la consensualità alla vittima", aggiunge la legale.

Su questo con Ceretta abbiamo ricordato anche le domande della difesa degli imputati durante l'interrogatorio della vittima, che avevano particolarmente colpito l'opinione pubblica ("Perché non ha reagito con i denti durante il rapporto orale?", "Ma se aveva le gambe piegate, come ha fatto a toglierle i pantaloni?", "Ci può spiegare come le sono stati tolti gli slip?").

"Premetto che io sono un difensore prevalentemente di imputati e comprendo bene la difesa del proprio assistito ma, secondo me, bisognerebbe educare maggiormente tutti i difensori sul come porre una domanda. Lo stesso scopo si può raggiungere ponendo le domande in modo che non risultino mortificanti per chi deve rispondere", commenta la legale.

"I termini che sono stati usati hanno creato quello che è questa ‘vittimizzazione', facendo vivere un ulteriore violenza alla persona offesa", precisa.

I giudici di primo grado hanno riconosciuto il fatto che la capacità di autodeterminazione e di difesa sia stata in qualche modo alterata. La fase delle indagini e quella del dibattimento sono state molto lunghe.

"Sono state scandagliate non solo le testimonianze, ma sono stati acquisiti anche filmati e messaggi che hanno pesato abbastanza su quello che è stato l'esito. Perché queste evidenze hanno in qualche modo palesato il fatto che questa ragazza non fosse in grado di dire: ‘sì, voglio fare un determinato atto‘", osserva ancora l'avvocata.

Le difese dei quattro imputati hanno già annunciato il ricorso in appello. Ma, come conferma anche l'avvocata Ceretta, la sentenza dà un segnale importante alle donne che, a volte, temono di non essere credute.

"Come in altri casi, forse meno noti, che hanno portato a una condanna, il fatto che ci sia stata una rilevanza mediatica e si sia arrivati a una condanna, per chi si trova vittima di una violenza può essere un conforto e un aiuto per andare a denunciare una violenza o un abuso", spiega.

"Perché è in primis difficile prendere consapevolezza e poi riuscire ad avere la forza di raccontarlo a qualcuno. Per la persona offesa l'esito di un giudizio con una condanna significa: ‘Mi hanno creduta‘. E questo sicuramente può aiutare altre donne che vivono situazioni di abuso ad avere la forza di denunciare. Proprio perché esiste questa possibilità".

"Si tratta sicuramente di una brutta storia, sia per le modalità sia per l'età delle persone coinvolte. – conclude. – Non si può relegarla alla ‘bravata' perché a 19 anni è vero che si è giovani ma si deve avere la percezione di ciò che si fa".

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