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Covid 19

Perché Italia e Germania non rischiano come la Francia: il racconto di un medico italiano all’estero

Gian Marco Rizzuti, siciliano, è medico nel lander della Westfalia. E racconta di come la Germania ha affrontato la seconda ondata della pandemia: servizi di chiamata centralizzati, Tac in tempo reale, e mini lockdown tempestivi: “I tedeschi guardano all’Italia con grande ammirazione: avete affrontato la pandemia con grande dignità”.
A cura di Gabriella Mazzeo
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Gian Marco Rizzuti (immagine dal profilo facebook)
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Gian Marco è siciliano ma fa il medico in Vestfalia, precisamente nella città di Ibbenbüren. Vive fuori dall'Italia dal 2016 e ha scelto di allontanarsi dal suo Paese per investire nella sua formazione e per le opportunità lavorative che offre la Germania. La sua famiglia si divide tra Italia e Polonia, precisamente Cracovia. Durante l'emergenza Covid-19, Gian Marco è stato uno dei tanti medici in prima fila nella lotta al virus, anche se nell'ospedale tedesco Klinikum Ibbenbüren. Adesso, dopo una prima ondata da milioni di infetti, la situazione in Germania sembra più o meno sotto controllo. Nonostante questo, per una ipotetica seconda ondata dei contagi, tutti i medici sono chiamati a gestire l'emergenza come potenziali specialisti Covid.

Prima dell'arrivo della pandemia di cosa si occupava?
Sono specializzando in ortopedia e traumatologia. Durante le fasi più dure dell'epidemia, tutti noi dovevamo occuparci di tutto, anche se il nostro campo di specializzazione è ben specifico. Anche noi specializzati in ambito chirurgico eravamo a stretto contatto con i pazienti Covid, anche se normalmente abbiamo il nostro settore d'azione.

Le strutture tedesche come smistano i pazienti Covid?
Le autoambulanze chiamano i coordinatori del pronto soccorso, normalmente sono infermieri specializzati, e li avvisano che in pochi minuti arriverà in ospedale un paziente con sospetto Covid. A quel punto, l'infermiere avvisa il medico di turno che si attrezza dei dispositivi di sicurezza personale e sale sull'ambulanza per effettuare visite, prelievi ed emoculture. Il tutto viene svolto direttamente sul mezzo di soccorso, poi il paziente viene smistato nel reparto Covid preposto. Noi medici completiamo una procedura di registrazione al computer e ordiniamo una TAC al torace il cui risultato arriva in tempo reale.

Per essere specializzati avete seguito dei corsi particolari?
Dei veri e propri corsi di formazione Covid. Le infermiere sono state formate dalla stessa azienda ospedaliera, per esempio. Si tratta di corsi teorici di breve durata. Qui ci basiamo molto sull'imparare sul campo. Gli operatori del pronto soccorso che si occupano di prelevare i pazienti invece sono vigili del fuoco e sono già formati per gestire questo tipo di emergenza.

Anche la Germania quindi dispone di reparti specifici?
Certo, ma abbiamo predisposto che in una ipotetica seconda fase catastrofica, qualunque stanza dell'ospedale può diventare al bisogno una stanza di terapia intensiva.

La situazione dei contagi attualmente è simile a quella italiana?
No, penso sia migliore. Qui abbiamo avuto come in Italia dei contagi di ritorno, gestiti però in un'altra maniera. Sono stati subito messi in quarantena i singoli paesi o le province. Tuttavia c'è da dire che, dall'inizio dell'epidemia, la Germania guarda il nostro Paese per le linee guida da applicare per evitare il collasso delle strutture ospedaliere.

Perché guardare proprio alla sanità italiana? Per via dell'esperienza pregressa col Coronavirus?
No, diciamo che in un momento di tempesta, l'OMS non è stata abbastanza chiara e precisa nel fornirci un modello da seguire. Abbiamo tutti guardato all'Italia perché nonostante il disastro del lockdown, alla fine è riuscita a invertire la curva del contagio. Ha resistito con grande dignità.

Quindi i nuovi focolai secondo lei non sono un fattore di rischio così importante?
Certo che lo sono, ma possono essere tenuti sotto controllo. Per esempio, la situazione della Sardegna doveva essere gestita in altro modo: in Germania si è verificato qualcosa di simile in provincia di Gueterslohin. Qui l'intero staff di un macello era positivo al Coronavirus, parliamo di migliaia di persone. Il primo provvedimento preso dal governo è stato quello di rendere l'intera provincia zona rossa sottoponendola a un mini lockdown di due settimane per poi individuare gli infetti e accertare le responsabilità penali. Lo stress subito dall'Italia però è stato forse il più importante in Europa.

Cosa si poteva gestire in maniera più efficiente secondo lei?
Secondo me bisognava investire maggiormente sulla formazione sulla formazione di personale medico e paramedico. Questo in Germania ma soprattutto in Italia. Non ha senso creare a Milano un padiglione con 100 posti letto se non si ha il personale formato. Eppure ci sono tanti ragazzi che per studiare sono andati all'estero. C'è il blocco per quanto riguarda la specializzazione, in più il personale italiano preposto alla terapia intensiva è di dimensioni esigue. Ancora adesso, nonostante i tentativi di formazione frettolosa, non ci sono numeri sufficienti per gestire un'emergenza in terapia intensiva. I momenti di stress sono stati tanti per i medici appositamente formati, immagini per chi non ha mai messo piede in un reparto di terapia intensiva fino a qualche mese fa

Anche i medici tedeschi avranno vissuto momenti di grande tensione. Lei che è italiano e lavora in Germania?
Ho sentito molto la tensione, ovviamente. La mia famiglia si trova in Sicilia e non torno nel mio Paese da Gennaio. La mia azienda ospedaliera ha istituito un numero di servizio da contattare per poter fare affidamento su un supporto psicologico che ci aiuti a gestire la sensazione di impotenza davanti a tanta sofferenza nelle terapie intensive. Il più grande sostegno per me sono stati i colleghi e il primario. C'è solo un'italiana qui, ma i miei colleghi mi hanno capito alla perfezione nonostante i nostri vissuti in quel momento rendessero i nostri dolori abbastanza diversi. Mi sono stati vicino come se fossimo tutti italiani all'estero.

Qualche suo collega italiano è tornato in patria per dare una mano contro l'epidemia?
Qualcuno ha espresso questo desiderio, sì, ma non ci ha richiamati lo Stato. Il tutto era su nostra iniziativa, ovviamente a nostre spese, ma la burocrazia ha rallentato anche coloro che hanno fatto domanda per rientrare in Italia.

La burocrazia anche in una situazione come quella verificatasi a marzo?
Sembra incredibile, ma anche in un momento del genere ha rappresentato un bell'ostacolo per i nostri medici che volevano tornare negli ospedali italiani.

Pensa che la Germania e l'Italia possano subire un'impennata dei contagi come la Francia?
Non possiamo fare previsioni certe. Speriamo che tutto vada per il meglio. Quello che so è che la Francia ha gestito la situazione in maniera diversa e forse in modo più refrattario. Anche adesso non sono propensi a mini-lockdown e la situazione delle scuole continua a stare in equilibrio sul "tutti a casa solo se ci sono 3 positivi in aula". Così la situazione non può che peggiorare.

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