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Cambiamenti climatici

Perché alla Cop15 è stato raggiunto un accordo storico sulla biodiversità

Il professor Telmo Pievani, evoluzionista e filosofo della biologia: “L’accordo ha un’importanza storica. Prevede la protezione del 30% del pianeta entro il 2030, il ripristino del 30% delle aree marine e terrestri degradate sempre entro il 2030 e il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni”.
Intervista a Professor Telmo Pievani
Evoluzionista e filosofo della biologia.
A cura di Davide Falcioni
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Telmo Pievani
Telmo Pievani
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Non è forse il miglior accordo possibile, ma il vertice delle Nazioni Unite sulla biodiversità ha raggiunto un’intesa che non è esagerato definire storica. Dopo estenuanti negoziati – iniziati il 7 dicembre e terminati tre giorni fa – i 192 Paesi riuniti al vertice Cop15 sulla biodiversità di Montreal hanno adottato un documento ambizioso, che punta a invertire la rotta rispetto agli ultimi anni "correggendo" – per quanto possibile – decenni di azioni umane che hanno distrutto l'ambiente minacciando specie, ecosistemi e risorse essenziali per l'umanità.

Forse definirlo un "patto di pace con la natura" è esagerato, ma non lo è parlare della premessa fondamentale per una futura "tregua". L’accordo, infatti, prevede la protezione del 30% del pianeta entro il 2030, il ripristino del 30% delle aree marine e terrestri degradate sempre entro il 2030 e il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, considerati fondamentali per la tutela della diversità biologica. L'intesa sblocca anche 30 miliardi di dollari annuali di aiuti all'ambiente per i Paesi in via di sviluppo.

La Cop di Montreal, dunque, non solo non è stata un flop ma ha gettato le basi per un futuro in cui la biodiversità non venga più predata per generare profitti per pochi, bensì tutelata a vantaggio di tutti. Fanpage.it ne ha tracciato un bilancio con il professor Telmo Pievani, evoluzionista e filosofo della biologia.

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L'accordo di Montreal sulla biodiversità può essere considerato l’equivalente, per importanza, di quello di Parigi del 2015 sul clima?

Sulla carta sì: dopo lunghe trattative si è arrivati alla stesura di un documento molto ampio con 23 target chiari, pragmatici ed operativi, che coprono tutti i principali temi legati alla biodiversità. C'è da sperare che l'accordo di Montreal venga rispettato, a differenza di quello di Parigi, però teoricamente sono stati affrontati tutti gli argomenti fondamentali. Ci sono anche importanti novità legate alla parte finanziaria e ai diritti delle comunità native. Quindi sì, sulla carta l'accordo di Montreal è di portata storica. Resta da capire quali saranno le conseguenze per gli stati che non rispetteranno gli obblighi contenuti nel documento finale.

Qualcuno ha definito l'esito della Cop15 un "accordo di pace tra l'uomo e la natura". È davvero così, o si sta esagerando?

Direi di essere più cauti: per usare la stessa metafora potremmo dire che in Canada è stato stipulato il testo fondamentale per arrivare a un futuro accordo di pace tra uomo e natura, ma c'è ancora molta strada da fare e mancano ancora fatti concreti e tangibili. Da questo punto di vista però c'è un'altra buona notizia: nel documento della conferenza si spiega che verranno identificati degli indicatori quantitativi dei progressi che verranno fatti sui vari target. Non solo, è stato chiesto agli stati di produrre dei report di resoconto almeno ogni cinque anni. Io avrei dato tempi più serrati – ogni due anni al massimo – ma meglio di niente.

Nel documento finale della Cop15 i popoli indigeni vengono menzionati 18 volte. Per quale ragione? Qual è il loro ruolo nella tutela della biodiversità?

Questa è una grande novità ed è molto positiva. Il ruolo delle comunità indigene è fondamentale perché abitano da millenni nei luoghi dove si trovano tutti i principali hotspot della biodiversità: la conoscono benissimo, persino meglio degli scienziati, e recenti studi hanno dimostrato che proprio i popoli nativi sono i primi a difenderla grazie a un costante lavoro di "manutenzione" e co-evoluzione. Insomma, dove ci sono popoli indigeni c'è anche biodiversità. Difendere quei popoli dall'estinzione non è una questione romantica, quindi, bensì molto pragmatica: non è possibile difendere la diversità biologica se non si difende contestualmente la diversità umana ad essa associata.

E perché è così importante?

Spesso in passato abbiamo commesso l'errore di avere un approccio "neocolonialista". "Arriviamo noi, scienziati occidentali, e vi spieghiamo come si protegge la natura". Invece finalmente la Cop15 ha stabilito che quel lavoro va fatto insieme ai popoli nativi, e al loro favore: è stato scritto in vari punti del documento finale che la biodiversità genera un enorme valore economico (ad esempio dal turismo, ma anche dall'estrazione dei principi attivi usati in  farmacologia) quindi quella ricchezza deve essere redistribuita innanzitutto a chi la biodiversità la sostiene da sempre. Credo si tratti di un principio di giustizia fondamentale.

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Nell’accordo si menzionano le DSI (digital sequence information). Cosa sono?

A questo aspetto è stato dedicato uno dei 23 target scritti nel documento della Cop 15. Semplificando molto: si tratta di realizzare una grande libreria digitale di tutta la biodiversità ospitata in ciascun Paese del mondo per monitorarla e studiarla. Faccio un esempio riguardante l'Italia: abbiamo un enorme quantità di erbari e collezioni naturalistiche raccolte per secoli, che contengono spesso anche specie estinte dal valore inestimabile. Dobbiamo digitalizzare le sequenze genetiche poi metterle online, a disposizione della comunità scientifica mondiale, affinché si possa fare ricerca su questo patrimonio immateriale importantissimo.

Quali sono, secondo lei, gli obiettivi più rilevanti emersi dalla Cop 15?

L'impegno a proteggere il 30% del territorio mondiale, oceani inclusi, entro il 2030; il recupero del 30% degli ambienti degradati, perché la biodiversità non si trova solo nelle giungle o negli ambienti naturali, ma anche nelle città, nei campi coltivati e nelle zone antropizzate. Di conseguenza anche quelle vanno "restaurate". Un altro target molto attuale è il quinto: proteggere la biodiversità significa limitare il rischio di spillover di agenti patogeni da animali a uomini, come è accaduto con il virus Sars-Cov-2. Per finire c'è il 14esimo target: finalmente si riconosce che non difenderemo mai davvero la biodiversità se non lotteremo anche contro le diseguaglianze sociali. È stato compreso che una parte della biodiversità viene distrutta perché una parte importante dei popoli che la abitano sono obbligati per sussistenza a sfruttarla. Insomma, è stato formalizzato quello che molti sostenevano da tempo: non esiste giustizia ambientale senza giustizia sociale.

A proposito, sono stati presi degli impegni economici affinché vengano raggiunti tutti i target fissati alla Cop15?

Sì, in teoria. Si chiede la riduzione ogni anno di 500 milioni di dollari di sussidi alle aziende che minacciano la biodiversità, è stato istituito un fondo di 200 miliardi di dollari all'anno per la difesa della diversità biologica e c'è finalmente il tema dei risarcimenti. Si creerà quindi un flusso di denaro dai Paesi ricchi a quelli poveri, un po' come deciso alla Cop 27 sul clima. C'è poi una parte del documento finale che considero ancora wishful thinking: la richiesta alle multinazionali di spiegarci, con indicatori quantitativi, il loro impatto sulla biodiversità.

E cosa manca, invece, nel documento finale della Cop 15?

Purtroppo non c'è nessun obbligo. Andrebbero introdotte delle sanzioni affinché chi non rispetta gli impegni assunti ne paghi le conseguenze materialmente. Vanno introdotti dei vincoli più forti, o anche l'accordo sulla biodiversità di Montreal rischierà di fare la fine di quello di Parigi sul clima: buoni propositi, ma scarsissimi risultati concreti.

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