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“Madri surrogate, noi sappiamo qual è il vostro bene!”

È ancora impossibile imbattersi in un dibattito che non sia schiacciato dal paternalismo e dalla condanna assoluta,quasi semprepriva di fondamento e basata su equivoci intenzionali.
A cura di Chiara Lalli
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È di qualche giorno fa la notizia che Jimmy Fallon ha avuto una figlia ricorrendo alla maternità surrogata. Lui e la moglie, dopo aver fatto vari tentativi, hanno deciso di tentare quest’ultima strada. Non è tanto la neo paternità a interessarci, ma il tono del pezzo, l’assenza di commenti viscerali e di accusa. Si forniscono addirittura alcune informazioni. Secondo l’American Society for Reproductive Medicine il fenomeno è in aumento dal 2004 a oggi. Nel 2011 sono nati 1.593 bambini, circa il doppio rispetto al 2004 (738 bambini). Non sono solo le star a farvi ricorso – Sarah Jessica Parker e Matthew Broderick, solo per fare un altro esempio – ma è forse grazie a loro che la maternità surrogata sta diventano più familiare e meno stigmatizzata. È indubbio che sia una possibilità per ora concessa a chi è almeno benestante, e che la difficoltà aumenta perché in molti paesi è illegale – in genere chi corre a condannare non fa riferimento alla discriminazione economica e alla diffusa illegalità, ma dissotterra l’ascia arrugginita dell’egoismo, della compravendita, del contronatura.

In Italia il ricorso alla maternità surrogata è stato definitivamente vietato dalla legge 40/2004 sulle tecniche riproduttive. In Italia possiamo vantare anche una collezione speciale di commenti isterici e predefiniti. Di recente la discussione sull’omofobia ha offerto il pretesto per alcuni notevolissimi esempi. Niente di nuovo, si intende.

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La prima arma retorica è: confondere le acque. Si parla di “maternità surrogata” senza fare distinzione rispetto alle condizioni e alle circostanze. Per capirci: un conto è una donna che ha scelto, un altro una che non l’ha fatto e che vive in una situazione prossima alla schiavitù. È il caso di alcune donne in India, per esempio, costrette a passare i mesi della gravidanza chiuse insieme a altre donne gravide di figli non loro e con un margine di scelta minimo o del tutto assente. In casi del genere non c’è molto da dire: siamo tutti d’accordo che è immorale, ma la ragione dell’immoralità si radica nella vessazione, non nell’oggetto specifico di cui vogliamo parlare. Sarebbe come pretendere di condannare tutti i matrimoni sulla base del fatto che alcuni sono un’imposizione, o come giudicare sbagliato avere o non avere un figlio usando come bersaglio quei casi di violazione della libera scelta. In rappresentanza di questa strategia non posso che scegliere il pezzo di Assuntina Morresi, uscito sull’Avvenire il 6 agosto scorso (La nuova schiavitù delle «gravidanze in affitto»). “La compravendita di neonati è generalmente considerata un reato in tutti i Paesi del mondo”: inizia così Morresi, lasciando poco spazio al dubbio su come la pensa, pur senza mai offrire uno straccio di argomento. Il seguito punta all’identificazione del fenomeno con il suo possibile abuso: le donne indiane che sono costrette alla surrogata costituirebbero la dimostrazione che tutte le donne “sono costrette” e che quindi la maternità surrogata che orrore!

L’altra strategia sta nel puntare a suscitare reazioni emotive: la “natura” è una delle armi più comuni, pur rivelando la sua assoluta insensatezza a uno sguardo non distratto. Cosa significa“natura” e, soprattutto, perché dovrebbe essere moralmente preferibile? Scrive poi Morresi: “sempre più spesso a commissionare la gravidanza è una persona sola o una coppia omosessuale, e allora anche sui legami biologici fra il nascituro e chi lo ha concepito concretamente regna un’incertezza totale”. Perché questa incertezza sarebbe disastrosa lo lascia alla nostra immaginazione, al regno dell’ovvio che è parente di “è così perché lo dico io”. Non c’è alcuna dimostrazione nemmeno sulla presunta gravità di essere un genitore single o una coppia di uomini o di donne, ovviamente. “È così perché lo penso io”. Come in quinta elementare.

Marina Terragni il 24 luglio aveva così bollato la maternità surrogata (Omofobia: caro Ivan Scalfarotto…): “un uomo, di qualunque orientamento sessuale, etero o gay, non ha il diritto di portare via un bambino alla madre, di recidere quel legame (anche se la madre è d’accordo: ma il bambino no)”. Portare via un bambino alla madre ha pochi margini di discussione: sei un mostro se lo fai, no? Come arma “naturale” viene usata la presunta “intangibilità del legame madre-figlio”, quello biologico, quello del sangue e della carne. Quanto dovrebbe essere dimostrato viene usato come premessa certa e incontrovertibile: le implicazioni sono fallaci e il risultato è nebbioso. Nessuno ha chiesto, alle donne che hanno scelto, di portare avanti la gravidanza per qualcun altro. Il paternalismo ha il vantaggio di potersene disinteressare, perché ciò che conta è quello che pensiamo noi di loro, di come dovrebbero vivere, di cosa dovrebbero scegliere. Di quale sia il loro bene.

Ma il meglio della “natura” l’ha offerto Annamaria Bernardini de Pace dalle pagine de Il Giornale (No, rifiutare la maternità è autolesionismo, 7 agosto 2013): “donna è sinonimo di maternità”, oppure “nessuna donna può negare di sentirne il desiderio” e “il nostro corpo ci rende da subito fiere di poter essere un giorno portatrici della vita che si rinnova”. Massimo Catalano avrebbe fatto tesoro di questo campionario. Oppure, chissà, lo avrebbe scartato perché troppo banale perfino per la sua filosofia.

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