Licenziata 2 volte dopo gravidanza e aborto, lavoratrice denuncia: “Discriminata per aver voluto un figlio”

Una lavoratrice incinta, rientrata in azienda dopo un periodo di assenza dovuto a un percorso di fecondazione assistita, è stata licenziata per "giustificato motivo oggettivo", consistente nell’esternalizzazione della sua mansione. Appena reintegrata dopo il comunicato sindacale della FIOM e della Rsu, è stata licenziata nuovamente pochi giorni più tardi, dopo aver subito il trauma di un aborto spontaneo. La vicenda, accaduta a Granarolo, è stata denunciata dal sindacato metalmeccanico, che parla apertamente di "licenziamento discriminatorio".
Protagonista della vicenda un'impiegata assunta dalla I-Tech Industries a settembre 2024 con contratto collettivo nazionale delle Piccole Medie Industrie a Metalmeccanica. La lavoratrice, di circa 35 anni e con un ricco curriculum professionale, aveva deciso insieme al marito di intraprendere un percorso di procreazione medicalmente assistita rimanendo incinta dopo alcuni tentativi. "Tuttavia – spiega a Fanpage.it la sua avvocata Stefania Mangione – il 22 aprile 2025 riceve una lettera di licenziamento per ‘giustificato motivo oggettivo', motivato con la soppressione del suo posto di lavoro e la presunta esternalizzazione delle sue mansioni".
La donna, che da poco tempo aveva appreso di essere rimasta incinta, il giorno stesso si rivolge alla Fiom di Bologna, che emette immediatamente un comunicato di protesta. "Due giorni dopo, il 24 aprile, l’azienda revoca il licenziamento. Il rapporto di lavoro torna quindi formalmente attivo, come se nulla fosse accaduto", spiega ancora l'avvocata.
Tutto sembrerebbe andare per il meglio senonché il 6 maggio la lavoratrice si sottopone a una visita medica in cui le viene prospettato un rischio concreto di aborto. Avvisa subito l’azienda, spiegando che il 9 maggio sarebbe tornata in ospedale. Purtroppo, l’aborto si verifica davvero. Il 12 maggio, giorno in cui rientra al lavoro, le viene nuovamente consegnata una lettera di licenziamento. Identica a quella precedente, con la stessa motivazione economica: "Abbiamo quindi presentato un’impugnazione stragiudiziale e stiamo preparando un ricorso da depositare presso il Tribunale del Lavoro".
Realisticamente, l’azienda potrebbe sostenere davanti al giudice che essendo cessata la gravidanza, non può esserci stata nessuna discriminazione nei confronti della donna: "È quello che immagino diranno. Sosterranno che, cessata la gravidanza, è venuto meno anche il divieto oggettivo di licenziamento previsto per le lavoratrici madri. Ma noi riteniamo che la decisione della I-Tech Industries non sia stata una semplice conseguenza di esigenze organizzative. Il licenziamento arriva subito dopo che l’azienda viene a conoscenza non solo dell’aborto, ma del fatto che la lavoratrice era ricorsa alla PMA. Quindi sapevano che, con tutta probabilità, avrebbe cercato di avere un figlio di nuovo. È una decisione che colpisce direttamente una donna per la sua volontà di diventare madre", spiega ancora l'avvocata Mangione.
Secondo la lavoratrice il licenziamento non solo sarebbe discriminatorio, ma mancherebbe anche un reale giustificato motivo oggettivo. Nemmeno nei colloqui sindacali precedenti infatti si sarebbe infatti mai parlato di soppressioni di posti o esternalizzazioni, come conferma – sempre a Fanpage.it – Alessandro Caprara, rappresentante della Fiom-CGIL di Bologna. "Il caso è estremamente grave, sia per le modalità con cui è stato gestito, sia per il totale disprezzo mostrato nei confronti delle relazioni sindacali e dei diritti della lavoratrice. L’azienda ha combinato un licenziamento per giustificato motivo oggettivo con un’esternalizzazione dell’attività, una pratica purtroppo sempre più diffusa grazie anche a strumenti come il Jobs Act. Ma, dietro questa manovra, si nasconde una vera e propria discriminazione. La volontà era quella di licenziare la lavoratrice, addirittura durante la gravidanza".
Anche secondo il sindacalista l’azienda era consapevole della gravidanza della donna ma, dopo l’aborto spontaneo, avrebbe pensato di essere nel giusto. "È una situazione delicatissima. Non entro nei tecnicismi legali ma sono convinto che la lavoratrice avrà giustizia. Il nodo centrale, però, è culturale e morale: siamo davanti a un’azienda che considera i lavoratori come merce, come proprietà del datore di lavoro, senza alcun riconoscimento dei loro diritti fondamentali".
La vicenda si è verificata mentre è in corso la campagna referendaria dell’8 e 9 giugno. "Quel voto – spiega Caprara – può essere uno spartiacque. Se vincessero i Sì, cambierebbe l’approccio delle aziende verso i licenziamenti. Oggi, anche se non hanno la certezza di legittimità, molte imprese procedono comunque a licenziare, perché il costo di una eventuale condanna è, di fatto, molto sostenibile. Il referendum mira a ripristinare un equilibrio: restituire ai lavoratori la libertà di essere reintegrati in caso di licenziamento illegittimo, ma anche di denunciare condizioni di stress, insicurezza, discriminazione. In sostanza, di far valere i propri diritti".