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La tratta dei baby calciatori africani in Italia: il lato oscuro del calcio non è solo in Qatar

Sono circa 15mila i minorenni che dall’Africa occidentale ogni anno raggiungono l’Europa con la promessa di giocare nei club più prestigiosi: è la tratta dei baby calciatori. L’indagine sotto copertura del team Backstair racconta chi gestisce il business milionario che lucra sulla pelle di giovani atleti e che si consuma nell’indifferenza del mondo occidentale.
A cura di Backstair
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Sognano di diventare i nuovi Weah, Touré, Salah, ma si ritrovano a vivere nella miseria, abbandonati e soli. Sono circa 15mila i minorenni che dall’Africa occidentale ogni anno raggiungono l’Europa con l’inganno, dietro la promessa quasi mai mantenuta di giocare nei più prestigiosi club europei: è la tratta dei baby calciatori, un business milionario che lucra sulla pelle di giovani atleti e che si consuma nell’indifferenza del mondo occidentale.

Per capire come funziona questo sistema ci siamo finti degli intermediari di una squadra di calcio in cerca di giovani talenti africani e abbiamo incontrato decine di procuratori, agenti e dirigenti sportivi per capire come in Italia sia possibile ancora oggi aggirare i regolamenti che vietano la tratta dei calciatori minorenni.

I giovani calciatori di Yaoundé, capitale del Camerun, li chiamano “sognatori”, perché permettono loro di realizzare il sogno di diventare calciatori professionisti. Quello che scopriranno solo poi è che quei procuratori generosi altro non sono che truffatori, businessman senza scrupoli che guadagnano sul loro destino. Sono circa 8mila ogni anno ad arrivare in Italia, come denuncia Jean Claude Mbvoumin, ex calciatore camerunense e fondatore di Foot Solidaire, l’organizzazione che dal 2000 è attiva per la tutela dei giovani calciatori.

Gli ex baby calciatori oggi alla Casa della Carità

A Milano abbiamo incontrato alcuni di loro: i baby calciatori che oggi vivono alla Casa della Carità.  “Un procuratore senegalese mi ha portato qui per un provino con una squadra di Padova,  – ci racconta Momo – ma ho giocato una sola partita. Poi sono venuto da solo a Milano”, ci racconta un altro ragazzo. Le loro sono storie fotocopia: le famiglie che ipotecano una vita, si indebitano sborsando dai 3mila ai 10mila euro per finanziare viaggio e permanenza in Europa, i procuratori che promettono e spariscono e, infine, l’abbandono in cui sono costretti a diventare grandi. “Purtroppo ci sono tantissimi ragazzi a Milano che hanno avuto la mia stessa storia: un procuratore li ha portati qua e poi li ha lasciati soli”.

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La rivincita di Minala

Joseph Maria Minala oggi veste la maglia dell’Olbia calcio e gioca nel ruolo di centrocampista, con alle spalle anni di professionismo. Ha 26 anni, Minala, e prima di Olbia ha indossato parecchie maglie: la prima è stata quella della Lazio, che l’ha lanciato nel mondo del calcio che conta.

Ma per arrivare a questo livello, Minala ha dovuto risalire gli inferi, anche se oggi guardando indietro sorride: “Ho avuto la possibilità che tante persone non hanno e sono riuscito ad arrivare qua, i miei sforzi sono stati ripagati”. Anche la sua storia comincia a Yaoundé, la sua città natale. “Mio fratello mi portava tutte le mattine con lui all’allenamento, mi piaceva”. L’occasione arriva quando un uomo si presenta da lui e gli dice che gioca bene, ha un futuro nel calcio: “C’erano sempre delle persone che venivano a vedere dei tornei, in Camerun, e già mi facevo notare. Parlai con mio padre, che non c’è più oggi, e la mia famiglia ha fatto tutti gli sforzi per permettermi di arrivare qua”.

Quell’uomo gli promette l’Italia e, soprattutto, un provino a Milanello. Ha 16 anni, è il 2013, dal Milan se ne sono appena andati Nesta, Gattuso e Seedorf, ma resta pur sempre il club italiano più titolato d’Europa. Per Minala quella promessa vale l’addio alla famiglia, e, soprattutto, un sacrificio economico enorme dei genitori che lo affidano al procuratore e lo salutano.

La promessa di quell’uomo dura il tempo di un volo da Yaoundé a Roma Fiumicino. Arrivati alla stazione Termini, il sogno di Minala inizia a perdere forma: “Mi aveva dato un telefono, ma non potevo sapere che non c’era una scheda. Mi aveva lasciato lì dicendomi che andava a prendere chi ci avrebbe portato a Milano, ma il telefono non ha mai squillato”. Minala oggi parla di “truffa” e riconosce di essere stato vittima di un fenomeno più grande: “Come è successo a me, è successo a gente prima di me e succederà ancora”.

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Perfection inghiottito dal vuoto

Minala ce l’ha fatta e col suo talento ha ribaltato un destino segnato. Anche Joseph Bouasse Perfection, un suo giovane connazionale, arrivato in Italia allo stesso modo ha provato a farlo. Ma la storia di Perfection è finita nel più tragico dei modi: muore nel 2021 a 21 anni per un un malore, le cui cause non sono mai state accertate. “Era partito dal Camerun con una promessa, ma al suo arrivo niente di quello che gli era stato detto era vero”, dice Jean, amico di Perfection. “Quando è arrivato non sapeva dove dormire, poi l’ha ospitato un connazionale. Era forte, lo paragonavo a Iniesta”. Così si è fatto notare e ha iniziato a giocare nella squadra romana di Liberi Nantes, l’associazione sportiva nata a Roma nel 2007 per promuovere lo sport come strumento di inclusione sociale. Viene segnalato al procuratore Diego Tavano, che segue tanti giovani dell’As Roma, e finisce anche lui nella Primavera. Lo status di minorenne extracomunitario non accompagnato complica le cose, così nel frattempo Perfection si allena a Trigoria per un anno e mezzo, diventa maggiorenne e viene tesserato.

“Era arrivato addirittura ad allenarsi con la prima squadra e Spalletti, se non ricordo male, aveva espresso giudizi positivi su di lui”, dice Odoacre Chierico – ex giocatore della Roma e allenatore della Primavera insieme a mister Alberto De Rossi – che Perfection l’ha conosciuto bene. Dalla Roma va in prestito al Vicenza e poi torna, ma non viene più convocato. Joseph viene abbandonato a se stesso: “Tante cose sono cambiate all’improvviso, ma il fatto che non abbia più giocato l’ha penalizzato tantissimo”, aggiunge Chierico. Finisce in un vuoto che lo inghiottisce. Sulla sua morte si sa poco, quello che si sa è che non giocava più, faceva provini su provini, senza successo. Dopo la pandemia, sarebbe andato a giocare in Spagna, dicono gli amici. Ma Joseph se ne è andato prima che la sua carriera potesse sbocciare.

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Il sistema di Sidy Fall

La storia di Perfection è un caso limite, ma come lui ancora tanti giovanissimi hanno creduto alle promesse di affaristi senza scrupoli, finendo vittime del sistema. Ci siamo messi sulle tracce di questi agenti e abbiamo scoperto che tra i protagonisti di questo mercato dei giovani talenti africani in Italia spicca il senegalese Sidy Fall. “Andate a piazza Lima, chiedete ai ragazzi senegalesi del procuratore che porta qua i giocatori”, ci dicono.

Lo rintracciamo e lo incontriamo. Ci presentiamo a lui come uomini d’affari intenzionati a entrare nel business dei baby calciatori. Mentre si fa largo negli hotel lussuosi del calciomercato, stringe mani a procuratori e agenti, e ci racconta la sua versione di sé. Sidy in Senegal ha un’accademia dove cresce i suoi talenti: “Si chiama Angelo Africa. Ho un vivaio di 150 ragazzi, dai 13 al 23 anni”. Prende il cellulare e ci mostra la sua merce: decine di ragazzini in posa, pronti per essere venduti al mercato del calcio europeo. Quello che ci offre il procuratore è l’acquisto dei baby calciatori direttamente dall’accademia: 5mila euro per svincolarlo, “dopo si fa un accordo 50 e 50 fra me e te”. Ovvero: in futuro, quando il ragazzo sarà venduto a una squadra, metà del provente andrà a lui.

Sidy Fall si vanta di aver portato in Italia molti baby calciatori: il suo specchietto per le allodole è Elhadji Babacar Khouma, l’attaccante senegalese classe 1993 che oggi gioca nell’Fc Copenhagen. “All’Inter ho portato dei ragazzini: avevano 14 anni. Hanno fatto dei provini, sono andati bene, ma abbiamo problemi di burocrazia in Italia per quanto riguarda il tesseramento”. Ma questo non è un ostacolo, perché Sidy trova una soluzione “per portarli senza avere nessun problema con la legge del calcio, con la Fifa”.

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Come si aggira la legge

L’articolo 19 del regolamento Fifa, in ambito della protezione dei minori, parla chiaro, infatti: “I trasferimenti internazionali dei calciatori sono permessi solo se il calciatore abbia più di 18 anni”. “Ma noi non dobbiamo dire che il ragazzo arriva in Italia per calcio: è un ragazzo che sta qua a studiare a cui piace andare a giocare a calcio”, precisa. È il socio di Sidy, che incontriamo in un seminterrato della periferia milanese, a spiegarci che cosa intende il procuratore: “In Italia, per un ragazzo di meno di 16 anni c’è l’obbligo scolastico, non può giocare solo a calcio”, per questo i baby calciatori vengono fatti entrare con un visto studenti della durata di un anno, da rinnovare allo scadere dei 12 mesi, dietro compenso di mille euro al procuratore senegalese.

“E poi deve avere una tutela, i genitori devono affidarlo a un rappresentante”, continua, introducendo la figura del “tutor”, un altro sotterfugio per aggirare la legge, che specifica che il minorenne debba avere un tutore legale. “Bisogna trovare una persona che può fare da tutor. Una persona di colore, così è meno complicato”: il costo è di duemila euro, più le spese per mantenere il ragazzo, di circa mille euro al mese. Sidy ci propone una persona di fiducia: suo fratello. A questa somma va aggiunto il costo della fideiussione di 450 euro e quello di 500 euro per il socio di Sidy che si occupa delle pratiche. Una cifra irrisoria, se si paragona al volume enorme di soldi che questo traffico muove sfruttando i sogni di giovani atleti.

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Il traffico di migranti è anche questo: i minorenni, ingannati da queste promesse, sono indifesi di fronte a pratiche di questo tipo, impossibilitati a esercitare diritti che nemmeno sanno di avere. È così che si consuma il dramma di questi baby calciatori, che, a differenza dei loro giovani pari età italiani, si ritrovano soli, senza nessuno al loro fianco, e senza la forza di rispondere all'ingiustizia che stanno subendo.

L’amica del presidente e la fabbrica di baby talenti

Il sistema in cui ci introduciamo è ben rodato e per la buona riuscita di tutto Sidy si avvale di una macchina fatta di personalità del mondo del calcio che conta. Per completare la procedura, infatti, ci indirizza a un’altra professionista, un’avvocata che presenta come esperta di diritto sportivo. “Ho lavorato trent’anni in quest’ambiente, dieci anni nella Lega Calcio. All’interno della Lega Calcio conosco tutti. Chi ti parla è molto amica del presidente [omissis]. Io sono qualcuno”, ci dice quando la incontriamo la prima volta in un ristorante milanese insieme a Sidy.

In una chiamata successiva, però, l’avvocata sembra avere altro per noi. Stavolta senza il coinvolgimento di Sidy. L’avvocata ci propone un business ancora più redditizio: invece di singoli calciatori, potremmo acquistare un’intera scuola calcio in Africa, una fabbrica di baby calciatori pronti al tesseramento in Europa. A gestire il tutto sono il direttore sportivo di una squadra di Serie A e un procuratore, che per il ruolo che rivestono non potrebbero essere coinvolti in questo tipo di affari. “Loro questa cosa non la possono fare, perché c’è un conflitto di interessi”, ci spiegano due persone vicine a questi dirigenti. “Sono delinquenti. Una volta ottenuto il guadagno che cercavano, se ne sono fregati dei ragazzi che sono venuti qui. Li hanno abbandonati”.

Dopo mesi di investigazione sotto copertura, riusciamo a entrare in contatto con questi dirigenti che ci spiegano il business: “Noi non giochiamo tanto su quello che prendiamo immediatamente, ma sul fatto di tenerci percentuali. Quindi fai conto che noi abbiamo preso 100mila ora sul ragazzo e 20% sulla vendita futura, se il ragazzo dovesse fare un salto di qualità importante e lo vendi per 4-5 o 6 milioni, noi abbiamo il 20% di quella cifra. Avendo lavorato sei anni su questi ragazzi qui, i più forti erano i più piccolini, che ora sono pronti”. Un business, questo, che “non ha limiti”, soprattutto nel nord Europa, dove il mercato è meno complicato per i tesseramenti di extracomunitari.

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La squadra in Polonia per lanciare i baby calciatori

Tramite l’avvocata conosciamo le altre persone coinvolte nel business dell’accademia. Ci sediamo attorno a un tavolo con un ex calciatore di Serie A e altre personalità di spicco dell’ambiente calcistico: “Vorremmo che diventasse un business importante. In accademia i ragazzi sono pochi, selezionati. I piccoli cominci a incanalarli in un percorso che li prepara a quello che troveranno qua”. Se un ragazzo valido ti arriva pronto, soprattutto l’africano, la società non deve perdere troppo tempo per l’inserimento. A quel punto hai un prodotto che è finito”.

Un “prodotto finito” su cui si punta tutto: su una scala da zero a dieci, “In otto anni siamo partiti da zero e siamo arrivati a dieci, ora bisogna arrivare a 20. È lì che riesci a portare i giocatori in Italia e a fare il lucro sui ragazzi. La legge ci consente di ricevere 400mila euro su ognuno. È vero che vuoi fare qualcosa anche nel sociale, ma è vero pure che dobbiamo cercare di guadagnare”. Il sociale, quindi, diventa una scusa per guadagnare fino a 400mila euro a baby calciatore. E per aggirare l’ostacolo dei limiti di età sul tesseramento in Italia, la strada più facile è quella di acquistare una squadra in Polonia, che gioca in Europa League. L’ex calciatore che siede al tavolo ha giocato in Polonia: ha dei contatti lì che potrebbero tornarci utili per concludere l’affare. “È come prendere la Juventus! Lì gli extracomunitari per tesseramento non hanno limiti”, aggiungono per convincerci. Dalla scuola calcio alla squadra in Polonia, dove il ragazzino viene lanciato a giocare già a 17 anni, il giovane talento può essere esposto nella vetrina europea: “Lo vede l’Europa, quello lo vendi e, per come sono impazzite le cifre ora, non sono più 400mila euro ma 40 milioni”.

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Intanto, però, per uno che ce la fa, resta un esercito di invisibili, costretto a fare i conti con la realtà: “Un ragazzo in Senegal che vede arrivare un procuratore che gli dice che può aiutarlo, la sola cosa che ha in testa è fare il viaggio e andare a giocare. Non pensa al contratto, lui vuole sempre andare e realizzare il suo sogno”. Un sogno, però, che si sgretola sotto il peso dell’inganno e della condanna eterna a un limbo: tornare indietro, quando è possibile, significa ammettere il fallimento di fronte alla famiglia; restare equivale a sopravvivere nell’indifferenza di un mondo che li ha traditi.

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