La sorella di Denis Bergamini a Fanpage: “Mio fratello non si è ucciso, ho cercato la verità per più di 30 anni”

Il 18 novembre 1989 il corpo di Donato ‘Denis' Bergamini, calciatore 27enne del Cosenza, venne trovato sulla Statale 106, nei pressi di Roseto Capo Spulico. La sua morte per anni è stata etichettata come "suicidio", fu raccontato che il ragazzo si era lanciato sotto un camion.
Ma, grazie agli sforzi della famiglia, che non ha mai creduto all'ipotesi del gesto volontario, nell'ottobre 2024 si è arrivati a una prima verità: Denis non si è ucciso. L'ex fidanzata del 27enne, Isabella Internò, è stata condannata per omicidio.
Per i giudici di primo grado, che hanno stabilito una sentenza a 16 anni di carcere, quello di Bergamini fu un delitto passionale, "realizzato allo scopo di dare una lezione al calciatore […] da cui l'imputata non accettava il distacco". Il 24 ottobre scorso è iniziato il processo di appello.
Nei 35 anni passati tra l'omicidio e la sentenza c'è un persona che non si è mai arresa, Donata Bergamini, la sorella del calciatore. Di una cosa è certa, "le indagini che andavano fatte non furono fatte", ha detto a Fanpage.it.
Donata, chi era Denis?
Denis era mio fratello, avevamo solo 15 mesi di differenza. Abbiamo vissuto tutto il nostro percorso insieme. Era nato con il pallone fra i piedi, amava il calcio fin da piccolo.
Ha iniziato nel campetto di paese, senza spinte, senza aiuti. Venne notato dal presidente del Boccaleone e falsificarono addirittura il suo cartellino per farlo giocare in prima squadra.
Poi passò all'Argentana, all'Imolese e al Russi. Qui il direttore sportivo Roberto Ranzani, che era lì per visionare un altro calciatore, rimase colpito dalle doti di Denis e chiese di cederlo al Cosenza.
I vostri genitori come reagirono al fatto che Denis dovesse andare così lontano?
Hanno sempre espresso il loro parere senza mai ostacolarci. Ovviamente, quando l'abbiamo saputo siamo rimasti tutti dispiaciuti del fatto che così sarebbe diventato più difficile seguirlo, come avevamo sempre fatto. Ma vedemmo la sua felicità, era giusto che andasse a Cosenza.

Vi sentivate spesso? Come si trovava a Cosenza?
All'epoca i cellulari non c'erano e la comunicazione non sarebbe mai stata come quando era a casa ma il contatto non l'abbiamo mai perso. Aveva giornate impegnative ma durante la settimana, lo sentivamo a turno, io e i miei genitori. Quando era possibile, lo seguivamo anche in trasferta, avevamo organizzato un gruppo insieme ad altri genitori delle nostre zone.
A volte andavamo anche a vederlo in casa a Cosenza. Eravamo sempre in contatto, a volte andavano a trovarlo anche i genitori di Luigi Simoni, il portiere che condivideva la stanza con lui. La paura di non riuscire ad avere un rapporto diretto inizialmente c'era, ma poi alla fine il rapporto era quotidiano.
Ci diceva che si trovava benissimo a Cosenza, con la gente e i tifosi, che erano davvero calorosi, molto più di quelli delle nostre zone. Manifestavano un grande attaccamento ai colori rossoblu. Quando Denis si infortunava o non poteva entrare in campo, guardava la partita con loro e non in tribuna.

Si era anche formato uno spogliatoio bellissimo, all'interno della squadra erano amici. Lavoravano tutti insieme.
Quando vi è arrivata la notizia della sua morte, come hai reagito?
Non capii subito che Denis non c'era più, il primo a ricevere la comunicazione fu il mio ex marito. Io ero convinta che mio fratello fosse in ospedale, ho scoperto il resto strada facendo. La prima cosa che chiesi fu: ‘Ma chi c'era con lui?', mi dissero che c'era Isabella Internò. In quel momento non sono riuscita più a pensare a una cosa normale.
Questo perché il 13 novembre Denis era a casa. In quell'occasione gli chiesi come andava con lei, se la vedeva ancora, lui mi disse che non ne voleva più sapere e che lei era ‘come l'Attak (la colla, ndr)', e aggiunse: ‘Me la trovo dappertutto'. In più, mio fratello non avrebbe mai abbandonato il ritiro perché non l'aveva mai fatto, non aveva mai saltato nemmeno un allenamento.
Per lui il calcio era tutto, oltre che la sua professione. E queste sono le prime cose che ci hanno fatto pensare che c'era qualcosa che non andava. La certezza l'abbiamo avuta nel momento in cui siamo arrivati a Cosenza, quando abbiamo visto il viso di Denis.
In che senso?
Ci dissero che il corpo era stato trascinato per 60 metri sotto un camion, ma quando arrivammo lì il suo viso non aveva nulla, c'era solo una macchia sulla tempia sinistra. Mia madre voleva baciarlo, le dissero di non toccarlo perché era distrutto ma, quando riuscimmo a scoprire le gambe di nascosto, vedemmo che erano intatte.
Non ci fecero nemmeno vedere dove era stato trovato il corpo di Denis, ci portarono proprio da un'altra parte. Noi lo scoprimmo molto dopo, quando al rientro da Cosenza ci fermammo in un'area di sosta e vedemmo alcune immagini riprese da un giornalista Rai che era andato sul posto.

Padre Fedele, il monaco che seguiva la squadra, ci disse di prendere i vestiti di Denis ma quando li andammo a chiedere non ci diedero nemmeno quelli. C'erano davvero tante cose che non andavano. E man mano che si andava avanti, tutto quello che sembrava solo una teoria dei familiari si rivelava vero. Sul posto sono andati anche i tifosi.
Tifosi che vi hanno sostenuto tantissimo…
La vicenda di Denis è partita dal basso, dal campo e dal pallone che non l'hanno mai abbandonato. I tifosi lo hanno sempre ricordato, partecipando a ogni evento in un modo davvero rispettoso e umile.
E voi come vi siete mossi?
Noi non ci siamo mai arresi e abbiamo sempre cercato di scandagliare ogni teoria perché i depistaggi ci sono stati fin da subito. Parlarono di droga, partite vendute, ce n'era di ogni. Abbiamo scoperto che il testimone oculare che disse di aver visto tutto non aveva detto la verità.
Andammo sul posto per scoprire come si comportava Denis a Cosenza, visto che viveva lì già da diversi anni, volevamo arrivare alla verità pura. Ovunque chiedessimo, Denis nulla aveva a che fare con le piste che ipotizzarono. Quando chiedevamo informazioni su Isabella Internò e la sua famiglia, invece, nessuno rispondeva. Una cosa molto strana.
Anche quando leggemmo la prima autopsia rimanemmo sbalorditi perché notammo subito la sofferenza polmonare, ma Denis era sempre sottoposto a mille visite e controlli e questa, se ci fosse stata, sarebbe sicuramente emersa. Non eravamo disposti ad accettare ciò che non era.
Lui ti ha mai parlato di Isabella come di un potenziale pericolo?
L'unico momento in cui ho percepito un attimo di fastidio nei confronti di questa persona è stato quel 13 novembre, quando mi disse che era ‘come l'attak', ricordo l'espressione del suo viso. Per un periodo si sono presi e lasciati, ma già dall'87 Denis mi dimostrò di non avere tanta fiducia in lei.
Mi chiamò, mi disse che lei era incinta ma che lui non le credeva. Mi chiese se potevo prenotarle una visita dal mio ginecologo, da Cosenza all'Emilia-Romagna. Se ti fidi di una persona non fai questo.
Il ginecologo confermò la gravidanza ma pure in quel momento continuava ad avere dubbi su di lei. Denis aveva fatto bene a chiudere la relazione, non era un rapporto sano per entrambi. Non poteva continuare, non faceva più bene né a lui né a lei.
Internò è stata condannata in primo grado in concorso. C'è stata una persona che ti ha contattata e ha raccontato di averla vista insieme ad altre persone. Tu hai registrato la telefonata, perché?
Per me è stata una sensazione strana, quando mi ha chiamata ho pensato subito di registrarla. Non so dirti perché, ho avuto come da subito l'impressione che avesse qualcosa di forte da raccontarmi e che aveva paura.
E la certezza l'ho avuta durante la telefonata. Lo si capiva perfettamente.

Quando è arrivato sul luogo dove è stato trovato il corpo di Denis, ha bussato sulla porta del camionista che gli ha detto: ‘Non l'ho visto, era già a terra'.
Quando era stato ascoltato, raccontò invece che si era lanciato sotto il mezzo. E dall'altro lato della strada, questo testimone ha visto Internò con due uomini.
Il corpo di Denis è stato riesumato nel 2017, quando sono arrivati i risultati dell'esame cosa hai pensato?
Io ho voluto assolutamente partecipare all'autopsia, volevo esserci. È stata molto dura ma provenivo da una situazione dove mi avevano raccontato tutto tranne che la verità.
Quando ho visto il corpo, mi sono accorta che alcuni presenti sono sbiancati e altri invece erano "contenti" perché determinate analisi si sarebbero potute fare, viste le condizioni in cui si era mantenuto.
Poi ho assistito a tutto l'esame che è stato eseguito con grande precisione. Appena sono usciti i risultati, ovvero che Denis era già morto quando è stato lanciato sotto il camion, ho pensato: ‘È una vita che lo diciamo'.
E nell'ottobre 2024 siamo arrivati alla condanna di primo grado. Vi ha restituito un po' di pace?
Ovviamente, come familiare, dopo così tanti anni di lotta, quando la verità è emersa, la prima cosa che ho pensato è stata: ‘Finalmente, ci hanno creduti, hanno visto'.
Ci sono evidenze acclarate, anche se continuiamo a lottare perché una verità senza giustizia non può essere completa. La pace a me l'ha data la verità che è emersa, sapere che è stato fatto quello che bisognava fare allora, anche se con maggiori difficoltà.
Ai parenti di vittime che oggi si trovano a combattere la tua stessa battaglia, cosa vorresti dire?
Ogni persona affronta il dolore in modo diverso e la lotta per la verità è molto dura. Però, se le indagini non sono fatte come andrebbero fatte, non bisogna fermarsi. Nel momento in cui parti, non puoi farlo. Queste lotte alla fine non servono solo a noi, ma ai nostri figli, nipoti, al nostro Stato.

Lo Stato di fronte a queste situazioni non deve chiudere gli occhi, deve portare le cose alla luce, e non è giusto che sia il familiare a fare il lavoro che non è il suo, tutto questo non dovrebbe avvenire. Le vittime e i parenti hanno il diritto di essere tutelati. Queste cose non devono più accadere.