I preti non possono tacere se ricevono la confessione di uno stupro: lo dice la Cassazione

I sacerdoti non possono ricorrere al "segreto professionale" se – durante una confessione – sono venuti a conoscenza di fatti penalmente rilevanti: essi devono rivelare ciò di cui sono a conoscenza se interrogati dai magistrati. Secondo la Cassazione, infatti, sebbene il "segreto del confessionale" rientri nei doveri degli ecclesiastici, ciò "non rientra certamente nell'esercizio diretto della fede religiosa", unico ambito per il quale è permesso, per le norme concordatarie del 1985, di evitare di rispondere.
Un prete e una suora non rivelarono ai magistrati gli abusi subiti da una tredicenne
E' quanto sottolinea la Suprema Corte nelle motivazioni, depositate ieri, in base alle quali il 15 dicembre scorso i giudici hanno confermato le condanne a un anno di reclusione ciascuno con pena sospesa, per falsa testimonianza, nei confronti del sacerdote Antonio Scordo e della suora Cosima Rizzo che negarono di aver appreso delle violenze sessuali subite da Annamaria Scarfò ad opera di un gruppo di ragazzi – dei quali i religiosi non rivelarono i nomi – in Calabria, a San Martino di Taurianova, quando la donna che oggi ha 31 anni, e vive sotto protezione, era appena tredicenne.
Il segreto del confessionale riguarda solo "le attività connesse all'esercizio del ministero religioso"
Secondo la Cassazione il segreto del confessionale, al quale si erano appellati Scordo e Rizzo, non può "investire qualsiasi conoscenza dell'ecclesiastico bensì riguarda solo quella acquisita nell'ambito di attività connesse all'esercizio del ministero religioso", e quindi non tutela tutte le "confidenze" delle quali viene a conoscenza. Per i giudici, "correttamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto che si tratti di tutelare comportamenti od atti conosciuti dall'ecclesiastico con riferimento all'esercizio della fede religiosa e non anche, fra l'altro, nell'ambito di attività sociale, anche essa tipicamente svolta dagli ecclesiastici. Ad esempio – spiega la sentenza 6912 – l'attività di assistenza a soggetti deboli, pur rientrante nella generica missione dell'ecclesiastico (tanto da esistere specifici enti a ciò deputati nell'ambito della religione di appartenenza dei ricorrenti) non rientra certamente nell'esercizio diretto di ‘fede religiosa".
I giudici della Suprema Corte hanno quindi concordato con i colleghi della Corte d'Appelloche hanno accertato che Annamaria Scarfò si era rivolta al prete "per ragioni diverse da quelle dell'esercizio dell'attività religiosa", cioè perché in lui vedeva una "autorità morale". Per questo don Antonio Scordo avrebbe dovuto rivelare ciò di cui era venuto a conoscenza ai magistrati.