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Giovanni ucciso dalla mamma: i diritti dei genitori non possono essere più importanti della vita dei loro figli

Giovanni, ucciso dalla madre a Muggia e gli altri minori che hanno perso la vita per mano di un genitore: quando non riusciamo a proteggere i bambini in nome di un diritto che rischia di diventare un paradosso.
A cura di Margherita Carlini
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Giovanni a 9 anni è stato ucciso da sua madre a Muggia con una coltellata al collo. I genitori erano separati da tempo e il bambino era stato collocato presso l’abitazione paterna. Questa decisione era stata presa prevalentemente, a quanto si evince dai dati in nostro possesso, perché la mamma era già stata violenta nei suoi confronti ed era seguita dal Centro di igiene mentale per problemi psichici. Ciò nonostante, sarebbe stato stabilito che Giovanni potesse stare con la mamma, in incontri liberi, a casa sua, due giorni alla settimana. Sembra che fino a poco tempo fa la mamma potesse incontrare il bambino solo nel corso di incontri protetti, quindi alla presenza di professionisti che potevano garantire che i suddetti incontri avvenissero in condizioni di tutela per il minore, poi la liberalizzazione. Due settimane prima che Giovanni venisse ucciso sembra che gli incontri con la mamma fossero stati liberalizzati, avvenivano cioè senza la presenza di un operatore, perché si apprende, “nulla poteva far presagire” quello che poi è successo.

La morte di Giovanni, così come quella di altri minori, ci riporta necessariamente a dover fare una serie di considerazioni sul funzionamento del nostro sistema in materia di affidamento dei figli in casi di separazioni o divorzi.

In queste situazioni, infatti, nella determinazione di quelle che sono le miglior condizioni di affido e collocamento dei figli e delle figlie di due genitori che decidono di separarsi, deve essere tenuto in considerazione il rispetto del superiore interesse dei minori stessi. Le scelte, che spesso i Giudici (qualora i genitori non riescano ad accordarsi autonomamente) sono chiamati a prendere, devono tenere in considerazione quelle che sono le condizioni che maggiormente tutelano i minori. Si cerca pertanto di garantire a quest'ultimi di poter mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori. Un diritto questo, della bigenitorialità, in capo al minore, introdotto dalla legge 54 del 2006, che rischia, in determinati casi, di diventare quasi per paradosso, ostativo della tutela dei più piccoli.

Lo si verifica più frequentemente nei casi di separazioni o divorzi in cui vi sono allegazioni di violenza domestica, casi cioè in cui, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, le condotte del genitore maltrattante pregiudicano anche il rapporto dello stesso con i minori, che spesso sono stati testimoni di quelle stesse violenze. In questi casi, o in generale, in tutti quelli in cui uno o l’altro genitore abbia posto in essere condotte o manifestato problematiche che possono esporre a rischi psicofisici il minore, il diritto alla bigenitorialità andrebbe sempre subordinato al diritto di sicurezza.

Nella pratica però, come ci ricorda duramente il caso di Giovanni, o di Federico B., ucciso a 8 anni dal padre in occasione di un incontro che doveva essere protetto ma che in realtà sarebbe stato gestito in modo che quest’uomo sia potuto restare solo con il bambino ed ucciderlo, spesso il diritto alla bigenitorialità viene anteposto a qualsiasi cosa. Diventando di fatto più un diritto degli adulti che non dei minori. Ciò è possibile solo all’interno di un sistema che non riesce o non vuole (spesso perché non ne è in grado, pur possedendone gli strumenti) rilevare i fattori di rischio che dovrebbero essere posti a fondamento di un’esigenza di tutela dei bambini e delle bambine. Il diritto alla bigenitorialità infatti non è e non può considerarsi come un diritto assoluto, non può e non dovrebbe cioè essere applicato a tutti costi. Non dovrebbe pertanto essere applicato in quei casi in cui un genitore sia stato violento (e lo sappiamo, la violenza può essere esercitata in molti modi) con il minore.

Nei casi di violenza domestica e maltrattamenti, dovrebbe essere pacificamente condivisa la consapevolezza che un genitore che ha agito forme di violenza nei confronti dell’altro genitore ha posto in situazione di pregiudizio anche i propri figli, che possono aver assistito a quella violenza, possono averla ascoltata o possono averne visto le conseguenze sul corpo o sulla psiche del genitore abusato. Un partner abusante, pertanto, non dovrebbe mai essere considerato un buon genitore. La convivenza con un genitore violento è e dovrebbe essere perciò un motivo per escludere la possibilità di mantenere un rapporto ed un contatto tra il minore e quel genitore. La violenza è quanto di più lontano possa esserci dall’esercizio di una buona genitorialità. Principi questi che dovrebbero essere condivisi e tenuti in preminente considerazione quando ci si esprime su quelle che dovrebbero essere le condizioni di vita dei più piccoli, preservando il diritto che appare ed è fondamentale, quello alla vita, alla crescita, alla tutela.

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