Genova: “Vieni, ho sparato alla mamma”. Al processo video in cui l’ex capitano Bregante uccide la moglie

Si è aperto ieri, presso il tribunale di Genova, il processo a carico di Gian Paolo Bregante, 73 anni, ex capitano di navi accusato dell’omicidio della moglie, Cristina Marini, avvenuto a Sestri Levante nel settembre del 2024. Immagini drammatiche, riprese dalle telecamere di sorveglianza domestiche, sono state mostrate in aula, lasciando i presenti in un silenzio carico di tensione.
Nel video si vede la coppia litigare furiosamente. Lei urla: "Vai via, non voglio più vederti", poi gli spintoni, la pistola, lo sparo. Pochi istanti dopo, le due chiamate: prima al figlio – "Vieni, ho sparato alla mamma" – poi ai carabinieri.
Assente in aula per motivi di salute, Bregante è stato difeso dagli avvocati Sara Bellomo e Paolo Scovazzi. Il pubblico ministero Stefano Puppo ha affiancato al processo principale un’inchiesta parallela su presunte mancanze da parte del Centro di Salute Mentale, al quale l’ex comandante si era rivolto più volte, denunciando uno stato di forte instabilità emotiva.
"È stato un raptus improvviso", ha dichiarato l’imputato durante gli interrogatori letti in aula. "Mi ha aggredito, volevo solo spaventarla". Un racconto che si intreccia con la testimonianza del figlio: "Litigavano ogni giorno. Mia madre era depressa, aveva smesso di seguire la terapia e rifiutava il ricovero. Mio padre aveva un revolver in casa, regolarmente detenuto".
Tra le testimonianze più toccanti, quella di una cugina della vittima: "Cristina mi mostrò un livido sulla fronte. Le dissi di denunciarlo, ma non poteva: dipendeva da lui economicamente". In aula sono stati inoltre esaminati messaggi, video inviati via WhatsApp e il racconto di un’aggressione avvenuta due mesi prima del delitto.
Un medico del Centro di Salute Mentale ha confermato di aver visitato Cristina un anno prima, prescrivendole farmaci e accertamenti ai quali però non si era mai sottoposta. L’ex ufficiale, dal canto suo, aveva inviato più email per segnalare la propria sofferenza, ma il medico ha spiegato che non vi erano i presupposti legali per un trattamento sanitario obbligatorio.