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Femminicida morto di Covid in carcere: lo scorso febbraio aveva ucciso la madre

Giovanni Marzoli, il 59enne arrestato per avere ucciso lo scorso 16 febbraio la madre Cesarina, è morto la notte scorsa in carcere per Covid19. L’uomo, accusato di omicidio e maltrattamenti in famiglia, aveva picchiato e accoltellato all’addome l’anziana madre di 86 anni nell’abitazione in via Francesco Nullo, zona Savena, dove i due abitavano.
A cura di Angela Marino
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Giovanni Marzoli, il 59enne arrestato per avere ucciso lo scorso 16 febbraio la madre Cesarina, è morto la notte scorsa in carcere per Covid19. L'uomo, accusato di omicidio e maltrattamenti in famiglia, aveva picchiato e accoltellato all'addome l'anziana madre di 86 anni nell'abitazione in via Francesco Nullo, zona Savena, dove i due abitavano. L'allarme era stato dai vicini, spaventati dalle urla della donna, ma all'arrivo dei poliziotti  il 59enne, ubriaco, aveva opposto resistenza all'arresto aggredendo anche gli agenti, che avevano dovuto ricorrere all'uso dello spray urticante per neutralizzarlo. Già altre volte i vicini avevano sentito le grida della madre e del figlio, che litigavano spesso.

Marzoli era stato portato in carcere il 18 febbraio e si era ammalato, ma dopo poche settimane si era ammalato e a fine marzo era stato ricoverato una prima volta all'Ospedale Sant'Orsola. Rientrato nel penitenziario della Dozza, era stato nuovamente trasferito in ospedale nel reparto Covid, perché risultato positivo. Come riportano le cronache locali, il 59enne era un ex tossicodipendente e soffriva già di altre patologie. "Ora le polemiche imperversano e il ministro Bonafede è nell'occhio del ciclone – scrive in una nota Gennarino De Fazio, del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria – ma noi lo avevamo detto per tempo che l'emergenza pandemica, sommandosi alle inefficienze ancestrali del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e alla disattenzione della politica, avrebbe prodotto conseguenze nefaste sia sotto il profilo sanitario sia per la tenuta della sicurezza". Secondo il sindacalista è presumibile che proprio durante la carcerazione l'uomo possa aver contratto il virus.

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