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backstair / Shalom, la comunità degli orrori

Comunità Shalom, come è andato davvero il processo che ha assolto Rosalina Ravasio

Nel 2012 la comunità terapeutica Shalom finisce al centro di un’indagine giudiziaria, che sfocerà in un processo che si chiuderà definitivamente nel 2019: tutti i 42 imputati verranno assolti, molte nuove testimonianze però raccontano una verità diversa sul processo.
A cura di Backstair
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La comunità terapeutica Shalom in provincia di Brescia, al centro dell'inchiesta di Fanpage.it, era già stata in passato oggetto di indagini per il metodo applicato dalla fondatrice Rosalina Ravasio sui circa 250 ragazzi ospiti della comunità che secondo alcune evidenze e molte testimonianze venivano maltrattati e umiliati. Nel 2012, infatti, la Procura di Brescia iniziò a indagare sulla comunità che fino ad allora era considerata un fiore all'occhiello del territorio. A processo 36 testimoni (29 ragazzi e 7 ragazze) dichiararono che la fondatrice e leader della comunità Rosalina Ravasio e i suoi collaboratori usavano su di loro un metodo fatto di botte, schiaffi, lavori massacranti, umiliazioni, giornate trascorse in isolamento e notti insonni a lavorare.

Dopo anni di indagini nel 18 giugno 2018, 40 dei 42 imputati del processo Shalom vengono assolti a vario titolo dai reati di maltrattamento e sequestro di persona perché "il fatto non sussiste", si legge nella sentenza di assoluzione. Solo due di loro, Luca Fucci e Marco Belotti, vengono condannati a quattro mesi per sequestro di persona, ma saranno assolti meno di un anno dopo in secondo grado, nel gennaio del 2019.

L’inizio delle indagini

Tutto ha inizio nell’estate del 2011 quando un gruppo di quattro ragazzi fugge dalla comunità di recupero di Palazzolo sull’Oglio. Dopo aver eluso il controllo dei "vecchi", i quattro riescono ad allontanarsi dalla comunità. Come confermano molte testimonianze, in questi casi, dalla comunità partono delle auto per la ricerca dei ragazzi: anche in quell’occasione le auto della Shalom cercheranno in lungo e in largo i quattro, fino a riportarne dentro due. Gli altri due, invece, non torneranno più in comunità.

Gli episodi dell’inchiesta

Uno dei due ragazzi che viene riportato dentro, Federico Tozzo, racconta il retroscena della fuga: “Sono stato tra i primi a organizzare le fughe ‘di massa', avevo cominciato a organizzare gruppi con persone fidatissime, ma con degli obiettivi precisi. Eravamo in quattro, prima della fuga ci siamo messi d'accordo: se qualcuno fosse riuscito ad arrivare a casa, avrebbe fatto la denuncia ai carabinieri – non della zona, perché non ci fidavamo di quelli di Palazzolo". Dopo tre giorni di fuga, prima a Milano e poi a Bologna, Tozzo decide di tornare a casa: "Arrivato in stazione a Vicenza, mi trovo quelli della comunità che mi stavano aspettando. Siamo andati alle mani, mi hanno bloccato, mi hanno impacchettato nel furgone e riportato in comunità". Uno dei due rimasti liberi, però, mantiene la promessa fatta agli amici e il 3 ottobre 2011 va in caserma a denunciare tutto. “L’importante per noi era che ci garantissero che non ci sarebbero state ripercussioni contro di noi da parte della comunità. Io sono stato il primo a denunciare e lì si aprì il vaso di Pandora”, ci dice il primo denunciante, che vuole restare anonimo.

Il domino dei nomi

Come conferma negli atti del processo Gian Luca D’Aguanno, all’epoca dei fatti Capitano del nucleo investigativo di Brescia, tutto inizia quando “una fonte confidenziale” segnala ai carabinieri di Palazzolo sull’Oglio “l’esistenza di una serie di maltrattamenti o abusi nei confronti di ospiti”. La fonte fa il nome di una delle presunte vittime, che i carabinieri prelevano da Shalom e portano in caserma con una scusa: è Federico Tozzo. "Sono arrivati i carabinieri dentro la comunità per prelevarmi, mi hanno portato in questura e mi hanno iniziato a fare delle domande. Io lì ho sporto denuncia, per maltrattamento e sequestro di persona". Tozzo in quell'occasione fa il nome di altri ragazzi e, come un domino, i carabinieri si ritroveranno ad ascoltare decine e decine di ospiti della comunità guidata da Rosalina Ravasio.

Nel marzo del 2013, l’indagine passa sotto la Procura di Brescia e viene affidata ai pm Leonardo Lesti e Francesco Piantoni, che da quel momento guidano il Nucleo investigativo di Brescia. In quei mesi i carabinieri ascolteranno circa duecento persone, tra chi ancora era ospite della comunità e chi non lo era più. I pm chiedono che vengano posizionate delle telecamere: “Abbiamo ascoltato decine e decine di persone. Le testimonianze che abbiamo raccolto ci hanno parlato della legnaia, per questo abbiamo messo la telecamera lì, in alto, su un traliccio”, ci dice uno degli uomini che ha lavorato all’indagine. Dal 12 aprile, su un traliccio nei campi fuori dalla comunità, una telecamera è puntata proprio sulla “legnaia”, luogo in cui, secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti – e confermate anche dalle voci che Backstair è riuscito a raggiungere – si sarebbero consumate punizioni e violenze.

Il finto tirocinante infiltrato

Negli atti del processo leggiamo che il maresciallo Edi Tosone, in servizio presso la Sezione Investigazioni scientifiche del Comando provinciale di Brescia, riferisce di aver eseguito prima un’attività di “osservazione indiretta”, visionando i filmati, poi di essersi introdotto sotto mentite spoglie dentro la comunità di Palazzolo: “La prerogativa era anche di visionare dall’interno come realmente era la struttura e le disposizioni dei locali, se vi erano delle telecamere di videoripresa interne, se c’era la possibilità di installare ulteriori telecamere”, afferma davanti ai giudici. Tosone, entra il 15 aprile del 2013 come “osservatore”, presentandosi come tirocinante della Asl, e afferma di non notare niente di “strano” a differenza di quanto aveva potuto vedere nei filmati: “Nel momento in cui siamo entrati logicamente l’attività all’interno della comunità si è un po’ bloccata, perché vista la nostra presenza erano tutti un po’ restii a parlare”. Il maresciallo, però, avrebbe notato alcuni dettagli: nessuna via di fuga, il cancello sorvegliato da un guardiano, rispetto ai "gruppi di persone in laboratorio, chi si proponeva al personale della Asl era solo uno […] gli altri erano fermi, non avevano voce in capitolo”. Tosone entra negli edifici e si introduce nelle camerate: “C’era una certa congestione”, dice, parlando del sovraffollamento nelle camere, in cui c’erano dai 4 agli 11 letti per stanza.

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Dopo quella visita, gli inquirenti decidono di piazzare un’altra telecamera, perché la prima, posizionata su un traliccio della luce “non prendeva parte del piazzale scoperto”, spiega Tosone. Con la seconda telecamera, invece, i carabinieri riescono a riprendere chiaramente le punizioni: “Soggetti che trainavano una carriola piena di legna o di altri oggetti pesanti […] loro compivano un giro circolare che era continuo, ogni tanto questi ragazzi si fermavano perché pareva che avessero dolori agli arti, alle braccia, poi riprendevano a fare questo percorso”.

I mancati controlli della Asl

In quel momento neanche i carabinieri sapevano chi ci fosse dentro la comunità. Nelle dichiarazioni del Capitano D’Aguanno si legge che “in quel momento noi non potevamo accedere all’interno della comunità, quindi non sapevamo chi fossero le persone”. E non solo: “Quando abbiamo fatto gli accertamenti presso la Asl, che è stato il nostro primo punto di contatto, non riuscivamo neanche a sapere chi ci fosse all’interno della comunità perché alla Asl non esistevano elenchi" perché – precisa D'Aguanno –  “i controlli non c’erano mai stati”. “Quando la Asl ha visto il nostro interessamento per la comunità, all’improvviso decide di attivarsi, quindi decide in quel momento di interessarsi alla comunità”: la Asl, come spiega D’Aguanno davanti ai giudici, decide di fare una prima ispezione nell’aprile del 2013, cioè quando Tosone entrerà in veste di osservatore.

E sempre rispetto al rapporto con la Asl, l’allora Capitano afferma che nel maggio del 2008 venne redatta una relazione di uno studio condotto dall’Università di Verona che la Asl utilizzerà per autorizzare in via definitiva la struttura nell’agosto di quell’anno. Lo studio era guidata da Angelo Lascioli, professore all’università di Verona, volontario della Shalom dal 1987 e  responsabile della progettazione pedagogica della comunità, come si legge negli atti della procura. “Noi abbiamo notificato un ordine di esibizione al rettore – spiega D'Aguanno – per acquisire formalmente questa relazione ma l’Università ci ha comunicato che ai loro atti non risultava la presenza di questa relazione né un numero di protocollo o una lettera di trasmissione verso la Asl”. Quello studio era stato commissionato dalla Regione Lombardia, che per quella ricerca dispose 75mila euro.

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I video delle violenze

Come spiega ancora D’Aguanno, le telecamere piazzate fuori dalla Shalom riprenderanno degli episodi significativi, come quello del 15 maggio 2013: “Si vede quest’uomo brizzolato, che poi noi abbiamo identificato in [omissis], reagisce con calci e spintoni con questo soggetto che tenta di scappare, poi lo riprendono e si nota questa colluttazione. Dopo un quarto d’ora finisce e poi questo ragazzo va via”. La colluttazione di cui parla D’Aguanno verrà messa agli atti.

Backstair ha rintracciato l’uomo brizzolato in questione, chiedendo conto di quell’episodio: “A volte a un ragazzo serve una sberla”, dice. “Non erano calci e pugni, stavo cercando di togliere il coso… non erano calci e pugni”, si giustifica, prima di alterarsi e aggredire i reporter verbalmente fuori dalla sua abitazione.

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Forti anche di questo video i pm chiederanno il rinvio a giudizio di 42 persone: oltre alla fondatrice della comunità, Rosalina Ravasio, a processo finiscono anche i suoi collaboratori, i cosiddetti “vecchi” – ospiti con più anni di anzianità e investiti di responsabilità di coordinamento e organizzazione – che dentro la comunità di Palazzolo sull’Oglio, secondo quanto testimoniano gli ex ospiti, avrebbero perpetrato violenze e soprusi sugli altri ospiti. L’accusa, a vario titolo, è quella di maltrattamenti e sequestro di persona.

L’accusa di sequestro di persona

Il reato di sequestro di persona viene contestato nell’ambito di due episodi differenti, ma è uno in particolare a catalizzare gran parte dell’attenzione – anche mediatica – dell’intero processo Shalom. Tra le persone che testimoniano contro la comunità, infatti, c’è anche il figlio di un magistrato. Si chiama Gianmarco Buonanno e suo padre, Tommaso, quando lui entra in comunità nel 2009, è il procuratore capo di Lecco. L’ingresso nella comunità di Gianmarco diventa un caso: davanti ai carabinieri, il ragazzo, allora 23enne, racconta di essere stato trattenuto a Shalom con l’inganno e con la forza.

Secondo Buonanno, due “vecchi”, Luca Fucci e Marco Belotti, lo avrebbero “bloccato”, trattenendolo con la forza e sbarrandogli la via d’uscita, mentre uno dei legali della Shalom, avrebbe mostrato al 23enne un documento dell’autorità giudiziaria in cui si leggeva che era indagato per traffico internazionale di stupefacenti, ragion per cui, se fosse uscito dalla comunità, sarebbe stato arrestato. I pm quindi indagano per il reato di sequestro di persona, che, in questa fase iniziale del processo coinvolge anche il padre di Gianmarco, Tommaso Buonanno.

Il procuratore di Lecco dai pm

Il 18 aprile del 2013, il procuratore Buonanno davanti ai pm della procura di Brescia Sandro Raimondi e Leonardo Lesti, deposita una memoria e si dice disponibile a rispondere alle domande. Prima di iniziare, Buonanno padre precisa: “Mi viene chiesto di indicare la mia versione dei fatti e dico che sono un padre che si è preoccupato della vita di suo figlio”. Il procuratore ripercorre il giorno del 24 marzo del 2009, sostenendo che il figlio sarebbe entrato in comunità di sua spontanea volontà.

Buonanno davanti ai magistrati dichiara di essere membro del comitato etico della comunità, organo di Shalom composto da figure di spicco della società bresciana e non. D'altronde Buonanno della Shalom ha sempre avuto pareri molto positivi “ho visto dei veri e propri miracoli, con metamorfosi assolute per coloro che erano sottoposti al trattamento di recupero”. Il procuratore capo si dice convinto che nel contesto di Shalom “il ricovero ha sempre avuto come presupposto il rispetto della persona” e che “non avrebbe mai accettato una sorta di carcerazione, cosa che egli (il figlio, ndr) probabilmente ha vissuto nella sua mente”.

La verità di Gianmarco

Sia davanti ai carabinieri che davanti ai pm, però, Gianmarco Buonanno racconta un’altra versione: il giorno del ricovero lo psicologo della comunità gli avrebbe sottratto le chiavi dell’auto con cui era arrivato; poi il ragazzo avrebbe avuto un colloquio per discutere della permanenza in comunità, decidendo però di andare via. A quel punto due “vecchi”, Luca Fucci e Marco Belotti, gli avrebbero impedito “con la forza” di andare via.

Rispetto alla permanenza, Gianmarco denuncia gli episodi di “nonnismo” portati avanti dai “vecchi” della comunità, che usavano violenza sugli altri ospiti. “Io non ho mai denunciato mio padre, – spiega in un'intervista esclusiva a Backstair – quello che ho detto è stato travisato in quel momento”. E difende il padre a più riprese: “Siamo stati vittime due volte della suora, io con quello che ho subito e lui venendo manipolato da lei”.

La posizione di Tommaso Buonanno sarà archiviata il 9 maggio 2013 dal gip Ciro Iacomino: le parole di Gianmarco saranno ritenute dal tribunale come “frutto di un’errata lettura della realtà comunitaria di Shalom”. (2171 1+2)

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Le indagini preliminari nel frattempo continuano e il nucleo investigativo raccoglie le denunce degli ospiti, che vanno dai maltrattamenti all’uso spropositato di psicofarmaci, passando per una terapia che prevedeva punizioni e privazioni di ogni tipo.

La perquisizione

Il 4 ottobre del 2013, alle 9.50, gli agenti di polizia giudiziaria, il capitano dei carabinieri Gian Luca D’Aguanno e il maresciallo Capo Davide Spinelli, insieme ai militari della compagnia di Chiari, quelli del nucleo investigativo dei carabinieri di Brescia e i Nas arrivano alla Shalom per eseguire un decreto di perquisizione e sequestro emesso dalla Procura di Brescia. Spiega D’Aguanno davanti ai giudici: “Noi mappiamo la comunità, la dividiamo in quattro, cinque settori, destiniamo per ogni settore sette, otto carabinieri”. Dentro la comunità entrano circa 40 militari, che portano con sé dei moduli da far compilare a tutti gli ospiti per l’identificazione: “Sapevamo di trovare sprovvisti di documenti”.

Per più di quattro ore gli uomini delle forze dell’ordine hanno perquisito la sede di via Raspina 3 e quella di Pontoglio. Nel verbale dei Nas di cui siamo entrati in possesso si legge che hanno proceduto al sequestro di diversi elementi: il registro degli ospiti, che riporta la presenza di 278 ospiti (120 nella comunità terapeutica pedagogica Shalom e 158 inseriti nella comunità Shalom socio assistenziale); le cartelle personali e la documentazione sanitaria degli ospiti, che risulta incompleta, perché se sono presenti le 120 cartelle della comunità terapeutica pedagogica, delle 158 restanti ce ne sono solo 131.

Come spiega l’allora Capitano D’Aguanno, la comunità era autorizzata ad ospitare 125 persone. Dentro Shalom, nel momento della perquisizione ce ne sono quasi 300, come confermato anche dalla Asl. I carabinieri identificano 254 soggetti all’interno della comunità, di questi 154 riferiscono di trovarsi lì per motivi connessi all’uso di stupefacenti, “quindi in un numero di 34 superiore rispetto all’autorizzazione che c’era”. Gli altri avevano patologie diverse: “Dalla ludopatia all’alcolismo, alla depressione”, precisa D’Aguanno.

“C’erano anche minori – precisa D’Aguanno – 55 e noi abbiamo verificato l’assenza dell’autorizzazione socio-assistenziale prevista per la gestione di minori”.

I Nas sequestrano anche due faldoni denominati “terapie” in cui sono conservate le schede relative alla terapia dei singoli ospiti, ma soprattutto farmaci. I medicinali erano sistemati in cinque armadi nel locale farmacia/infermeria e tra questi i Nas sequestrano, oltre ad antibiotici, antidolorifici e antinfiammatori, anche ansiolitici e neurolettici, come diversi tipi di benzodiazepine. I carabinieri entrano dentro la farmacia/infermeria con una telecamera e immortalano decine e decine di flaconi, circa 200 cassettini in plastica, ognuno contraddistinto da un nome di un ospite e bicchierini da caffè per la distribuzione dei farmaci.

I Nas consegnano ai magistrati un altro verbale, in cui elencano decine e decine di confezioni di cibo scaduto, alcune anche da molti mesi, tra cui: confezioni di uova scadute da più di un mese, 6 confezioni di salame scaduto da quattro mesi, 67 bottiglie di tè alla pesca scadute da tre mesi, latte in polvere per neonati scaduto un anno prima della perquisizione; un salame privo di indicazione invaso da muffa; 9 confezioni di lasagne scadute a maggio; 15 confezioni di gnocchi al ragù e 8 confezioni di pollo scadute sette mesi prima, e due confezioni di cannelloni scadute oltre un anno prima. Quella della distribuzione del cibo scaduto è testimoniata da moltissimi ospiti.

Anche i carabinieri del nucleo di investigazione durante la perquisizione acquisiscono diversi documenti, tra cui l'elenco degli ospiti di tutta la comunità, l’organigramma della comunità, l’atto costitutivo del comitato etico, lo statuto dell’associazione che sta dietro Shalom “Regina della pace”, due contratti di comodato tra questa e un’altra associazione, quella delle Piccole Apostole, il protocollo dei farmaci, la formazione degli operatori e il programma terapeutico.

Il 10 ottobre arriva la notifica di chiusura delle indagini e due mesi dopo, il 10 dicembre, Piantoni e Lesti chiamano Suor Rosalina Ravasio, che arriva nell’ufficio al quarto piano del Palazzo di Giustizia di Brescia con un faldone di prove tecniche e scientifiche sulla validità del suo metodo: “Sono assolutamente estranea a questi fatti”, dice Ravasio respingendo ogni accusa e dichiarandosi innocente.

Il 16 maggio 2015 il giudice per le indagini preliminari dispone il rinvio a giudizio per 42 persone e il 5 maggio di un anno dopo inizia il processo Shalom.

Il nuovo procuratore capo di Brescia

Nel frattempo, però, alla Procura di Brescia c’è stato un cambio importante ai vertici: Tommaso Buonanno ha lasciato la Procura di Lecco e l’8 ottobre 2013 il Csm lo ha nominato a capo della Procura di Brescia, che da qualche mese aveva archiviato la sua posizione da indagato per sequestro di persona. Buonanno così si insedia in Procura e diventa il capo dei pm che indagano contro la comunità Shalom, di cui era membro del comitato etico.

Tra gli investigatori, alcune fonti che hanno scelto di rimanere anonime ci parlano di un clima particolarmente teso in procura: “C’era un clima allucinante, tra il 2015 e il 2016. C’erano dei pessimi rapporti in procura. Si è trattato di un’indagine difficile per l’aspetto ambientale”.

Nel giugno del 2016, sotto la guida di Tommaso Buonanno, nove pm lasceranno la procura. Tra questi anche Leonardo Lesti e Francesco Piantoni, che, a un mese dall’inizio del processo, lasceranno il posto ad Ambrogio Cassiani.

Durante la prima udienza del processo Shalom il legale di Rosalina Ravasio chiede che il procuratore Buonanno entri nel procedimento come parte offesa accanto a Gianmarco. In questo modo i difensori della Shalom chiedono che il processo venga spostato a Venezia, competente per le questioni che coinvolgono i magistrati di Brescia. Ma questo non succede e il processo va avanti.

Le testimonianze

A processo, uno dopo l’altro, i 36 ex ospiti presentati come parti offese raccontano la loro vita dentro la comunità. Una mamma con una bambina di 4 anni racconta di essere stata messa in punizione perché la figlia aveva rotto un giochino: “Sono stata prelevata, mi hanno portato in questa stanza e mi hanno detto ‘tu stai in punizione, tua figlia non la vedi più’” e per tre mesi quella donna non avrebbe visto la sua bambina; un ragazzo afferma di essere stato “quattro anni e qualcosa in punizione”, tra “maltrattamenti, punture” e aggressioni; un altro testimone davanti ai giudici afferma di essere andato in punizione per essersi rifiutato di prendere la terapia farmacologica “spropositata” a cui era sottoposto: “Mi addormentavo sempre. Me la spruzzavano in gola con una siringa. Quando non volevo prenderla, mi obbligavano tenendomi il naso chiuso, con la testa per terra, tenendomi la bocca aperta con due dita, e me la spruzzavano in gola con una siringa".

L’interrogatorio di Gianmarco Buonanno

Anche Gianmarco Buonanno viene ascoltato, il 22 febbraio 2017. Ripercorre il suo ingresso in comunità, quel 19 marzo 2009, quando era andato a Palazzolo a portare dei vestiti al fratello: “Mio fratello mi aveva già avvertito di non andare, perché c’era il rischio che mi chiudessero dentro, solo che io non gli credevo, perché ero maggiorenne, per cui pensavo che erano suggestioni sue. Invece, tempo che tiro fuori i borsoni, lasciando le chiavi in macchina, come al solito, il dottor [omissis] mi tolse subito le chiavi della macchina”. A quel punto arrivano anche altre persone: l’avvocato [omissis], Luca Fucci e Marco Belotti, e il padre. Lui non ha nessuna intenzione di restare, “mi hanno messo le mani addosso, fermandomi, bloccandomi”. Il colloquio si conclude: “Mi hanno tenuto lì con la forza”. La permanenza dentro Shalom non è stata semplice: “Più ti ribellavi e più loro ti creavano disagi, punizioni, fino ad arrivare alle botte”. Buonanno parla delle punizioni e dei maltrattamenti vissuti in circa tre anni di permanenza, prima di riuscire a scappare, dopo vari tentativi, nel 2011. "Sono riuscito a scappare, dopo due anni e mezzo. Mi sono guadagnato, diciamo, la loro fiducia. […] era verso le sette di sera. Erano andati a farsi la doccia tutti e noi siamo saltati fuori. Dalla parte dei cavalli, dalla rete dietro i cavalli".

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“Per quello che ho vissuto lì dentro, – racconta a Backstair – più che una comunità, mi sembrava più vicina a un lager. Quando lo racconto, le persone pensano che le mie siano cose inventate, che sono fuori dal mondo”. Lì dentro, continua a spiegare Gianmarco, “la gente arriva a farti star sveglio la notte, a metterti le mani addosso, a farti le siringhe”. Rispetto al processo, “le cose che ho detto non le ho dette perché mi desse soddisfazione che a quattro infami venisse inferta una pena, ma perché mi sembrava giusto che un posto del genere venisse chiuso”. Buonanno si dice convinto che ognuno abbia “diritto a disintossicarsi senza che subire quello che ti fanno lì, lì ti fanno il lavaggio del cervello”.

Le testimonianze della difesa

Il pm Cassiani interroga i 36 ex ospiti, parti offese nel processo. "Sembrava molto motivato all’inizio, – ci racconta un ospite sentito al processo – mi dicevo ‘dai, ha capito com’è la situazione, quindi giustamente andrà fino in fondo contro la comunità”.

Secondo alcuni testimoni sentiti a processo, qualcosa cambia dopo il 16 maggio 2015 quando i giudici fanno un sopralluogo nella comunità. La decisione di visitare la comunità viene presa dal presidente Giuseppe Spanò al termine dell’udienza del 14 febbraio dedicata ai testimoni della difesa, che avevano descritto la figura di suor Rosalina “come una madre”, la comunità “come una casa”, assolvendo anche le sessioni alla legnaia come momenti di sfogo.

Rosalina Ravasio respinge ogni accusa

Il 6 giugno 2018 Rosalina Ravasio arriva davanti al giudice Spanò, ma prima di parlare avrebbe chiesto che quell’udienza fosse preclusa ai giornalisti. Il giudice accoglie la richiesta e precisa: “Abbiamo i carabinieri che vigileranno rigorosamente sul fatto che non abbiano accesso in aula i giornalisti in base alla promessa che le ho fatto”. “È tranquilla, suor Rosalina?”, chiede il giudice, “Male non fare, paura non avere”, risponde pronta la consacrata, che continua: “Non ho studiato gli atti, li ho letti per vedere le balle e per farmi una risata”. Le “balle” a cui fa riferimento Rosalina Ravasio sono le accuse di maltrattamenti, secondo lei frutto di “influenze esterne”. Rispetto a Shalom, spiega: “Noi non abbiamo una comunità per tossici, ma una comunità di vita, ci mandano gente di ogni tipo, a volte siamo un cesso, ci scaricano di tutto”, si legge negli atti del processo. Rosalina spiega così la sua contrarietà alle comunità finanziate dallo Stato: “Prendendo 140 euro pro capite, lei non può essere libero di correggere l’individuo, perché quello se ne va” (2028). Riferendosi al tipo di ragazzi che arrivano in comunità, “nessuno li vuole”, “ce lo sbarcano lì… la cosa positiva della nostra comunità, riconosciuta da tutte le psichiatrie, che se lei chiede, lì risanano […] c’è una sopportazione collettiva, quindi la fatica psicologica di queste alterazioni è molto spalmata su un gruppo di ragazzi che sono bravi, dottore. Altro che indagati, bisogna faga el monument (bisogna fargli un monumento, ndr)”.

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I bravi ragazzi di cui parla la suora sarebbero i "vecchi". Interrogata sui testimoni dell'accusa, la suora risponde in maniera molto netta: “Questa è squinternata”, dice di una ex ospite, “questa ha fatto morire il papà, adesso non sto qui a dire […] mi diceva ‘io sono qui che faccio la volontaria’ ho detto oddio che brava che sei, se tu riuscissi a gestire un bellissimo volontariato, al tuo cervellino appena appena, ciao che volontariato”. A proposito di un altro ex ospite la suora afferma: “Lui c’entrava per niente con la nostra comunità. Era considerato lo scemo del villaggio, tutti lo prendevano in giro […] Noi magari prendiamo fino per dire a 40 o 43 anni, perché la nostra è una comunità viva, noi danziamo, balliamo, cantiamo, siamo sempre in giro. Questo qui era lì come uno zombie, con la bava. Io avevo anche vergogna perché ci scambiavano per un reparto interni di psichiatrico, quindi l’ho preso solo per far piacere al parroco”.

A proposito di Gianmarco Buonanno, Suor Rosalina risponde così: “Grazie al cielo io faccio la suora e me ne frego dei cognomi, perché le regole valgono per tutti nella mia comunità. A me non interessa se il papà è il presidente del tribunale di Brescia o è il presidente della Repubblica, facendo gratuitamente io sono liberissima da pseudo condizionamenti”.

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La suora spiega di aver incontrato Gianmarco Buonanno prima dell’ingresso in comunità, in occasione di una manifestazione organizzata alla Shalom, il “capodanno alternativo”: “Era venuto in uno stato psicofisico pietoso e l’avevo mandato via. […] miscelava anfetamina e whiskey, noi lo chiamiamo cocktail”. Il presidente chiede alla consacrata come facesse a saperlo: “Dopo 32 anni che si fa questo lavoro siamo diventati un po’ sgamati, lei sarà sgamato come giudice, io con i ragazzi”.

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Davanti ai giudici, Rosalina Ravasio dice che Buonanno “mente”, perché sapeva che sarebbe entrato in comunità: “Lui sapeva da tempo anche la famiglia, il fratello me lo diceva, che doveva prendere una strada […]”. La responsabile di Shalom quel giorno non era presente, ma ricorda di averlo visto quella sera stessa: “L’ho visto sorridente, il Signore mi è testimone”.

Gli atti relativi a Buonanno, continua la suora, “li ho letti e riletti e ridevo dalle balle che raccontava” e “no, è una versione a cui non ho mai creduto”, quella secondo cui Fucci e Belotti avrebbero bloccato con la forza il ragazzo. “Fra l’altro è una cosa inverosimile per un altro motivo, che c’era il fratello già da 3-4 anni dentro, il fratello di cui lui è sempre stato un po’ geloso, perché bisogna… qui non posso esprimere sentimenti umani, però dietro c'è tutto un mondo di codificazione del disagio che è molto importante. Quando lo vidi io non ci credevo, perché conoscendo l’ostilità del Gianmarco, mi sembrava inverosimile. Dice ‘no, proviamo’, sorridente. Quando ho letto gli atti, veramente, questo ha una metamorfosi incredibile, di parole, di pensiero e di azione, perché a me personalmente non ha mai detto una volta che voleva scappare”.

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Intervista da Backstair sul tema Buonanno sostiene che “Non l’ho vista la suora. Ma quale sorridente?! Ero molto incazzato, stavo dando fuori di matto. Mi sono calmato solo perché mio fratello mi aveva avvertito che mi avrebbero sedato se non fossi stato tranquillo. Lei è una manipolatrice. Ha giocato tanto anche su questo: diceva che ero geloso di mio fratello, quando siamo sempre andati d’accordo. Addirittura faceva dire ai vecchi che mio fratello non mi voleva bene perché non seguivo la terapia”.

In tribunale, Rosalina Ravasio nega l’uso del termine e del metodo della “cristoterapia” e rigetta con forza l’accusa di maltrattamenti, così alle notti insonni risponde: “Noi li facevamo stare su di notte quando cominciano a dire che sentono voci […] la notte serviva a spostare i pensieri”. A proposito della “legna”, il luogo in cui secondo gli ex ospiti si consumerebbero le violenze più gravi, la consacrata risponde: “In tutte le nostre sale ci sono i camini […] e dato che l’abbiamo la legna, perché ce la regalano e ce la portano… Come si dice, per paradosso la legna nel 99% è richiesta da loro ‘non mi potresti suora mandare alla legna?'. Se è molto agitato dico ai ragazzi non dategli la sega, perché ho paura che si facciano anche del male, capito? Perché non c’è mai successo niente, io non vado mai a dormire senza aver detto quattro rosari, però non è successo mai niente, questo è un dato di fatto. Perché noi non possiamo proteggere tutti e non siamo nella mente bacata di molte persone, però non è mai successo né un suicidio né una disgrazia e nemmeno un confronto fisico, mai”. Rispetto alla punizione della carriola, Rosalina Ravasio risponde così al giudice che le chiede dei “giri a vuoto”: “No, a vuoto no, perché el ha tanta legna e bisogna metterla. La carriola serve anche a portare via il letame”. "Quindi non è vero che girassero a vuoto coi sassi per stancarli?", chiede il giudice: “Magari li avessimo, è impossibile perché i sassi li abbiamo usati tutti per costruire, però se ce n’erano degli altri….”. Non era una punizione, spiega la suora, ma “è letta da menti così borderline come punizione”.

Anche rispetto alle violenze la responsabile di Shalom afferma di non aver mai picchiato nessuno, nemmeno un buffetto,  al massimo “un dito sulla loro fronte per dire ‘aziona questo cervello’”.

Il pm e il lancio di pomodori

Dopo la deposizione di suor Rosalina arriva il momento del pm Ambrogio Cassiani, che inizia la sua requisitoria paragonando Shalom a lo Chateau d'If dei romanzi del Conte di Montecristo, dove vengono mandati “quelli di cui si vergognano”: qui arrivano “persone che hanno una insofferenza patologica alle regole, al lavoro, alla socialità”, che vanno "ricostruite", dice Cassiani rispetto agli ospiti della Shalom, e “questa ricostruzione avviene attraverso passaggi molto dolorosi”. Rispetto alla violenza, Cassiani afferma: “L'esercizio della violenza, della vessazione poteva essere un metodo logicamente applicabile per tenere in piedi quotidianamente 350 disadattati? Perché qui c'abbiamo il depresso, chi tenta il suicidio, il tossicodipendente, chi ha picchiato mamma e papà, i violenti, psicosi di ogni tipo, ma voi vi immaginate se la suora, o i collaboratori della suora avessero preso a schiaffi quotidianamente queste persone cosa poteva succedere lì dentro? Non potevano dormire più con la porta aperta, come diceva la suora, che gli avrebbero tagliato la gola, forse dopo la terza notte, ci sarebbe stato il delirio totale. Il metodo violento in uno spazio ristretto con soggetti di questa natura, a mio modo di vedere, non è completamente applicabile, al di là della non valenza terapeutica, perché sarebbe stata una follia, mancanza proprio di senso di autoconservazione”.

Questo il primo “approdo logico”, secondo il pm, che nella requisitoria ammette di aver mandato egli stesso delle persone alla Shalom: “Quando poi ti chiamano durante il turno ‘Dottore, abbiamo trovato questa signora alle due di mattina che non sa dove andare, completamente fatta, completamente ubriaca, magari all'ottavo mese di gravidanza, che cosa ne facciamo di questa signora?’. Perché i servizi sociali non li vogliono. E nel frattempo tu questa gente dove la metti? Certo, io potrei dire ‘Ma lasciatela in mezzo alla strada, ma chi se ne frega’, no. La Shalom è uno di questi posti che ‘No’ difficilmente lo dice”, continua il pm. Cassiani sembra riferirsi anche al lavoro dei pm che l'hanno preceduto, parlando così della documentazione prodotta rispetto ai mancati controlli della Asl: “Ho parlato prima di 300, 350 persone, l'ufficio del pm vi ha prodotto una marea di cartaccia che riguarda cosa? Non avevano le autorizzazioni. C'è sovraffollamento, l'Asl non c'è mai andata a fare i controlli. Ora, come ho detto questa è cartaccia, perché delle volte capita che uno manda una persona in comunità in maniera urgente perché lì per lì non sai dove sistemarla, ti chiama poi il direttore della comunità: ‘Noi siamo solo una comunità per alcolisti, noi siamo solo una comunità per tossicodipendenti, noi siamo solo per chi ha la ludopatia’ […] la Shalom invece non ha specializzazioni. La Shalom accoglie tutti e quindi noi ci dobbiamo chiedere: ma questo è un demerito?”, chiede il pm. E parla di due testimonianze di persone “che ce l’hanno fatta” e sono stati “illuminanti, innanzitutto perché hanno confermato tante cose che ha detto oggi la suora […] hanno confermato molti dati. Quindi la suora dobbiamo presumere che oggi ci abbia detto la verità”. Cassiani affronta il tema delle punizioni: “Abbiamo visto come innanzitutto la vicenda del taglio della legna e anche dello spostamento dei sassi era davvero una misura per annichilire moralmente la persona, per vessarla? Ma certamente no, perché abbiamo visto noi fisicamente i camini, l’utilità che questa benedetta legna aveva e pure la suora ce lo ha detto “senti, se uno è agitato che cosa dobbiamo fare? Lo faccio sfogare", allora “taglia la legna, spingi la carriola”.

Tutti inattendibili

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Il pm passa in rassegna le parti offese e di ognuno smonta le accuse, dichiarando inattendibili quelle voci e confermando la validità del metodo. A proposito del caso di un ex ospite rimasto a lungo in isolamento, Cassiani afferma: “Io ho una comunità con 300 disadattati. Secondo voi posso mettere [omissis] in una stanza insieme ad altri ragazzi che hanno già le proprie fragilità? Oppure non conviene, per il bene dello stesso in questione, e per il bene degli altri ragazzi che per qualche ora il ragazzo che debba sfogarsi non se ne stia buono buono da parte?”. E ancora: “C’è quel ragazzo che mi viene a dire ‘non mi lasciavano mai solo’. Poi andiamo a vedere, ma questo ragazzo perché veniva seguito anche al gabinetto? Perché veniamo a scoprire dalle cartelle cliniche che aveva tentato il suicidio due volte”. “Non rapportiamoci a queste persone offese come ci rapporteremmo con una persona, diciamo, normodotata. Parliamo di persone – continua il pm nella sua requisitoria – in un momento di enorme fragilità e di insofferenza a tutto, compreso rifarsi il letto”. E ancora: “[omissis] è l’altro caso simpatico. [omissis] racconta di persecuzioni fisiche e psicologiche. Nessuno, anche degli altri sentiti, quando gli si chiede ‘ma lei l’ha visto picchiato?’, nessuno dice nulla. Poi scopriamo il perché: [omissis] viene buttato alla Shalom perché nessuno se lo voleva prendere, comprese le sue sorelle che poi si lamentano, perché nemmeno loro lo volevano prendere a casa, la diagnosi dice disturbo paranoico di personalità di adattamento, tendenza all’interpretabilità e alla costruzione di azioni prevalentemente di tipo persecutorio […] ma nessuno ha mai visto nulla, perché come ha detto la suora si aggirava come uno zombie nella comunità”. “[omissis] è la mia preferita, ma perché sul capo di imputazione c’è scritto ‘da parte di [omissis] di lasciare la comunità nella quale stabilmente dimorava in veste di volontaria’. L’abbiamo vista, è completamente fuori dalla grazia di Dio. […] quindi anche le dichiarazioni di [omissis], anche solo per il modo in cui sono state raccontate, impongono di considerare che il fatto non sussiste. [omissis] è un mio cliente, perché uno dei miei primi clienti bresciani è proprio il padre, in una rapina legata a degli autotrasportatori, uno dei miei primi procedimenti, e [omissis] ce l’ho avuto anche ultimamente per rissa. Gli ho notificato un 411 bis. Quindi forse quello che dice la suora sul fatto che [omissis] era un ragazzo che creava qualche problema in quanto violento, aggressivo nei confronti degli altri ragazzi credo che sia degno di (fiducia, ndr)”.

Cassiani si fa una domanda che diventa determinante nelle sue conclusioni: “Ci saranno che escono ogni anno quei 50, 60 ragazzi che finiscono il periodo, perché questi non sono stati sentiti? Perché io qua ho 36 persone che ne parlano male, ma perché non sono mai state sentite le altre centinaia, centinaia non 36, che hanno invece ottenuto, non dico enormi benefici, ma la salvezza della propria esistenza?”.

Dopo aver esaminato e smontato tutti i 36 testi, Cassiani chiude il suo discorso in aula chiedendo l’assoluzione per tutti e 42 gli imputati: “Tocca a me il lancio dei pomodori. Questo secondo me è l’unico modo di vedere i fatti che sono emersi dal dibattimento. Quindi il pm chiede che il tribunale emetta una sentenza di assoluzione nei confronti di tutti e 42 gli imputati, perché i fatti non sussistono”.

La sentenza

Il 28 giugno 2018 il Tribunale di Brescia si pronuncia: 40 assoluzioni e due condanne, per il caso di sequestro di persona di Gianmarco Buonanno. Nella comunità, secondo quanto stabilito dal collegio presieduto da Roberto Spanò, non ci sono stati maltrattamenti: “Il fatto non sussiste”.

Nella sentenza si legge che non sono state prese in considerazione le testimonianze di “coloro che hanno negato – o fortemente ridimensionato – le accuse, nonché le ricostruzioni del tutto disancorate dalla realtà provenienti dagli ospiti ritenuti intrinsecamente inattendibili”.

Tra i secondi, quindi "gli ospiti ritenuti intrinsecamente inattendibili", "vanno annoverati", si legge nella sentenza: “[omissis], che a suo dire era entrata come volontaria, Ravasio: ‘questa è una squinternata.. era violenta.. l’ho mandata via perché la famiglia non mi ha prodotto il certificato di interdizione’; [omissis] ‘era incinta, violenta e aggressiva… non la voleva più nessuno… non potevamo aumentargli la dose perché era gravida’; [omissis] lui era un bullo, un provocatore, un istigatore’; [omissis] Ravasio: ‘era violento con le sorelle, non c’entrava niente con la comunità. […] avevo anche vergogna a tenerlo in comunità.. questo era lì come uno zombo… con la bava’; [omissis] ‘ha fatto otto ricoveri in psichiatria.. ce lo sbarcano lì.. arrivato con la bava alla bocca, uno zombie; discorso a parte merita [omissis] persona estremamente irrequieta e violenta, anche nei confronti degli operatori, tanto da costituire ‘un problema un po' per tutti'”. Tutte le motivazioni riportate nella sentenza sono frutto delle dichiarazioni della difesa.

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Le condanne in primo grado per il caso Buonanno

Le uniche due condanne saranno a carico di Luca Fucci e Marco Belotti, per il caso Buonanno, in relazione all’episodio di sequestro di persone avvenuto il 19 marzo 2009: quattro mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena. Un anno dopo la prima sentenza, nel 2019, Fucci e Belotti verranno assolti in secondo grado: anche in quel caso, “il fatto non sussiste”. Nessun sequestro di persona per Gianmarco Buonanno, che stavolta non viene ritenuto credibile: “Le dichiarazioni di Gianmarco Buonanno sono frutto di una errata lettura della realtà comunitaria di Shalom, indotta da una condizione psichiatrica compromessa e da una totale inconsapevolezza della propria grave tossicodipendenza che molto probabilmente gli ha fatto percepire come segregazione una sinergica opera di convincimento operata nei suoi confronti”, scrive la Corte.

Gianmarco Buonanno commenta a Backstair l’esito del processo: “Non l’ho capito molto. Alla fine eravamo 40 persone: tutti abbiamo descritto dinamiche simili e alla fine sono stati tutti assolti. Eravamo in tanti, ci hanno fatto passare per pazzi, per persone che non hanno le percezioni giuste, ma come è possibile che 40 pazzi dicono le stesse cose? Ci siamo messi d’accordo fuori? Nemmeno ci conoscevamo tutti. È stato chiaramente un processo pilotato”.

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Le false testimonianze

Uno dei teste della difesa, tra i fedelissimi della suora, ha spiegato a Backstair alcuni retroscena delle testimonianze della difesa: “Il processo doveva scoprire la verità, ma non ci sono riusciti per colpa nostra. Siamo stati noi a non permetterlo con le nostre testimonianze. Ho detto che certe cose non esistevano”. Alla domanda se davanti ai giudici ha detto la verità risponde così: “Ho detto cose false. Mi hanno chiesto se accadevano determinate violenze e ho detto di no”. E Rosalina Ravasio aveva istruito altre persone? “Tutti quelli che sono andati a testimoniare”.

Un altro testimone ha spiegato “Mi vergogno di essermi rimangiato tutto, ma avevo paura. Ero in una situazione particolare e davanti ai giudici ho detto che non ricordavo niente. Non era vero, ma in quel momento era troppo spaventato dalle conseguenze di quello che avrei detto”.

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Il processo contro Shalom è al centro della quarta puntata dell'inchiesta di Fanpage.it in cui viene mostrato come al termine di una messa celebrata nella chiesetta della comunità Shalom, la giornalista infiltrata ascolta una conversazione tra Rosalina Ravasio e il sacerdote, alla presenza di un altro uomo: è Paolo Savio, per anni sostituto procuratore a Brescia e oggi nel pool della Direzione nazionale antimafia. La responsabile della comunità annuncia che il 24 settembre 2022 a Shalom si terrà un evento, "ci sarà anche Palamara", dice Rosalina Ravasio. "Ho già pensato al nome: Le ombre nere della giustizia", afferma la consacrata.

Il 24 settembre, confondendoci tra familiari e ospiti presenti all’evento, Backstair si siede in prima fila. Rosalina Ravasio accoglie tutti e presenta i relatori, monsignor Giovanni d'Ercole – prelato da sempre vicino alla comunità – Paolo Savio e Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Nel corso della conferenza si parla di processi e condizionamenti dei magistrati: "Un conto è la verità che viene fuori nei processi e un conto la verità di come sono andate realmente le cose. Spesso sono due verità diverse, perché tante situazioni non vengono fatte conoscere, rimangono un po’ come la polvere sotto il tappeto”, afferma Palamara. “Un controllo che svolga il suo lavoro nel rispetto delle regole e imparzialmente è una garanzia per tutti”, continua l’ex presidente dell’Anm. “Le ombre ci sono – aggiunge – e io mi auguro che però possano lasciare posto alla luce”.

All'incontro è presente anche Amrbogio Cassiani, a cui  Rosalina Ravasio raggiungendolo in prima fila gli porta un dono: lo abbraccia, lo bacia e gli dà una carezza sulla testa. È la fondatrice in persona a presentarlo alla platea: "Ha mangiato qua anche il dottor Cassiani, che è stato pm a Brescia. Io l’ho conosciuto in quella circostanza, è proprio un altro di quei magistrati per cui bisogna pregare che il signore lo aiuti a far carriera perché abbiamo bisogno di persone pulite, così, anche nella magistratura. Al dottor Cassiani, se non altro perché è un magistrato che si è concesso". Si tratta di Ambrogio Cassiani, oggi sostituto procuratore di Velletri. Lo stesso pm che quattro anni prima aveva chiesto l’assoluzione per Rosalina Ravasio e gli altri 41 imputati.

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