Caro Serra, per difendere Eataly non offenda l’intelligenza

Caro Michele Serra,
In uno dei suoi poemi più celebri Baudelaire sosteneva l’importanza di stare ‘mbriachi sempre e comunque: "Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza la schiena e vi piega a terra, dovete ubriacarvi senza tregua. Ma di che cosa? Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare. Ma ubriacatevi”. Chi come il sottoscritto lavora nel mondo dell’informazione sa bene che c’è una forma di ebbrezza assai a buon mercato, ed è quella provocata dall’eccesso di notizie: ci arrivano addosso ad un ritmo frenetico, sotto forma di articoli, commenti, input, e quasi sempre ci fanno sentire in dovere di reagire, fosse anche solo con l’indifferenza. Molto spesso ci viene chiesto di prendere posizione, di giudicare, e non di rado perdiamo la bussola.
È quello che è successo, credo, quando Lei si è trovato davanti il commento di un politico del Movimento 5 Stelle (un tale Andrea Coletti) che invocava fucilate partigiane per Oscar Farinetti, in risposta ad un'intervista del patron di Eataly in cui auspicava una nuova Liberazione per l’Italia sotto il segno di Renzi. Lo scrittore Federico Campagna paragona, a ragione, il M5S ad una crociata di fanciulli: diretta verso il disastro, ognuno convinto della propria innocenza. Insomma quel commento medievale invocava una reazione sdegnata, com’era giusto che fosse.
Ma il giudizio che Lei ha espresso nell' "Amaca" del 29 aprile va al di là della condanna per le parole violente del grillino. Si spinge, sia pur nella ristrettezza di quello spazio, a chiedersi cos’abbia fatto di male Farinetti per meritarsi tanta attenzione da parte dei giornalisti. “Poi si capisce”, Lei scrive, “Farinetti è renziano. Lo è con un’ingenuità e un trasporto imperdonabili in un Paese cinico e prudente come il nostro”. E conclude domandandosi se non sia, in fondo, il suo successo la causa di tanta ostilità.
Serra, se mi permetto di rivolgerLe una lettera forse un po' oziosa è perché la lettura dell' "Amaca" (e di Repubblica) è stata per anni un rituale importante della mia adolescenza, nonché formativo per l'identità del nido familiare – e la mia era una famiglia legata non (ancora) all’anarcosocialismo, ma al Pci napoletano più moderato. Se uno dei piaceri dell’avventura è quello di vedere capitarci cose strane e nuove, un’altro piacere, e forse ancora più profondo, è quello di vivere momenti di conferma, proprio lì, tra le pagine di un libro e di un giornale "amico" – momenti in cui possiamo dire: “Sì, è proprio così, questo è ciò che volevo leggere, questo è ciò che volevo trovare scritto qui”.
Nel leggere le Sue poche righe su Farinetti mi sono trovato nella spiacevole posizione di vivere sì un momento di conferma, ma che confermava un timore: cioè che ci sia una frattura sempre più grave tra la “vecchia” (non si offenda) generazione di commentatori professionali e la società che vorrebbero descrivere. Nello scegliere di liquidare con parole come “ingenuità” e “successo” la figura di un'imprenditore centrale nel "racconto" renziano, che mobilita centinaia di milioni di euro all'anno e decide delle vite di migliaia di lavoratori, che ha ottenuto un appalto fantascientifico all’Expo virtualmente senza concorrenza, Lei ha preferito una scorciatoia rozza nei confronti della nostra intelligenza, oltre che dannosa per chi si scervella cercando di “fare ricerca” sul campo.
Io da Eataly ci ho lavorato. Non a lungo, e non per necessità, ma per documentare la condizioni di chi ci vive. È successo a New York, due anni fa. Mi sono finto un sudamericano che cercava lavoro, e in un batter d’occhio, senza tirocinio né interviste sono stato “assunto". Sono finito sottoterra. Nelle cucine, per la precisione: un labirintico inferno di calore e fatica come pochi ne ho visti nei miei quindici anni da reporter. Gli elementi di forza dell'idea di Farinetti sono due: il puntare alla fetta più facoltosa di New York che, nonostante la crisi, affolla sempre di più Manhattan, e una disponibilità pressoché illimitata di manodopera a basso costo, proveniente dall’America Latina, senza documenti e, in pratica, senza diritti. Ho visto gente di cui nessuno sapeva il vero nome tagliarsi un dito affettando cipolle e venire sostituita il giorno dopo da un cugino diciassettenne venuto da chissà dove. Certo, non è colpa di Farinetti se il capitalismo va così, se i cuochi di Eataly non possono lavorare regolarmente, e per turni meno massacranti. Quello che succede da Eataly non poi così diverso da ciò che avviene in altri ristoranti newyorchesi o europei.
Il mio disagio nasce dalla narrativa: le storie delle catene di montaggio anni Settanta se le ricorda? La vita dei cuochi di Farinetti non è poi molto diversa. Avrebbe descritto in modo così spanzato anche i Riva e gli Agnelli, dopo aver ascoltato dell'abbrutimento dei loro operai?
Per correttezza La rimando anche alle inchieste del sito Clash City Workers (che raggruppa diversi gruppi sindacali attivi in Italia) molto più approfondite della mia. Lì troverà documenti e interviste che raccontano nel dettaglio le pratiche divisorie e antisindacali di Eataly, la cultura corporativa di Slow Food, lo spropositato ricorso a contratti temporanei e della pressione psicologica esercitata sui dipendenti. Ripeto: qui non si parla del vecchio odio nei confronti del “padrone”, ma di etica giornalistica – non oso dire “politica”, perché di questi tempi rischierei di passare per nostalgico di Errico Malatesta.
Un altro esempio: gli chef-star Mario Batali e Joe Bastianich, noti alleati di Farinetti nell’avventura di Eataly a New York, tre anni FA furono costretti a risarcire con cinque milioni di dollari un migliaio di camerieri dei loro ristoranti:: per anni avevano sottratto illegalmente parte delle mance per girarle ai sommelier. La natura umana è contraddittoria e piena di zone grigie, ed è giusto collaborare e dialogare con tutti, anche con gli imprenditori che sbagliano. Ma queste contraddizioni trovano sufficiente spazio nella nostra disastrata stampa? Tra la patina e la retorica da marchetta che spesso fanno l’occhiolino alle agenzie pubblicitarie (che a loro volta cercano di attrarre i lettori più ricchi)?
Per restare con Baudelaire e l’approccio enologico alla memoria: chi se ne frega se il 25 aprile Farinetti metteva in offerta il vino “Resistenza”, ad un prezzo speciale di “5 euro al calice”, dedicato al papà partigiano Paolo! La costruzione della mitologia familiare non è nata certo con l’ex proprietario di UniEuro: ricordiamo l'Onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani, che aveva fatto posizionare una statua della madre nell’atrio della sua azienda nel primo, bellissimo Fantozzi. Paragone esagerato, ovviamente. E Lei mi dirà che Farinetti non fa nulla di immorale o di illegale ad approfittare di una ricorrenza civile per vendere qualche bottiglia in più. Quello che però mi interessa, come scrittore e giornalista, è l’aurea di devozione che accompagna certi brand. E forse ciò che infastidisce molti lettori è l’idea che il consumatore si debba trasformare in fan, o peggio in fedele – un po’ come successe quando venne beatificato San Steve Jobs da Cupertino. Per molti versi, nella “narrazione” renziana Eataly sta diventando davvero la Apple italiana.
Infine quando Lei scrive, facendo torto alla Sua leggendaria vena creativa, che in Italia “Tutto è perdonabile […] Ma il successo, questo poi no. Il successo […] è sempre visto come un furto a danno dei mediocri”, a chi si ispira? Alla fonte originale di quella frase, Enzo Ferrari, o a Flavio Briatore che, – uno tra tanti – qualche tempo fa l'ha tirata fuori per difendere il suo interesse a non essere disturbato? In ogni caso non mi sembrano modelli persuasivi per un quotidiano che mi aspetto per lo meno sobriamente analitico nei confronti dei megadirettori galattici della nostra epoca, e del loro successo.
Tempo fa, commentando il Suo disgusto nei confronti di Twitter, Lei pronunciò parole in parte condivisibili: "Tutto ciò che serve a comunicare non necessariamente contribuisce a creare cultura o socialità. Spesso si risponde solo ad un impulso, quello di dire ci sono”. In questo caso mi permetta di dire che Lei ha usato la sua Amaca in modo non dissimile da molti noi "scriventi" che usiamo i social: per rispondere solo ad un impulso, per dire ci sono, anche se forse non ne era convinto nemmeno Lei.
Il problema che ho avuto con quell'Amaca (e con quanti usano lo stesso linguaggio consolatorio) non è di purezza ideologica, ma di scorrettezza culturale. Io vorrei essere ispirato dalla motivazione, non dalla manipolazione. Né da slogan populisti, né da leccate di scarpe, ma dall’intelligenza di persuasioni serie, anche se avvolte dall'ironia. Ma forse chiedo troppo.