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30 anni fa cadeva il Muro di Berlino: il racconto del crollo minuto per minuto

Dall’alba al tramonto, tutto quel che è successo nel giorno che ha cambiato la Storia e ha chiuso il Novecento: da Schabowski a Krenz, dagli agenti della Stasi alle oscure guardie di frontiera, ecco cos’è successo davvero in quelle ventiquattro ore, a Berlino Est. Un estratto del libro di Francesco Cancellato, vicedirettore di Fanpage.it, intitolato “Il muro”.
A cura di Redazione
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La sera del 9 novembre 1989 il muro di Berlino cessa di esistere, e la capitale dell’allora Repubblica Democratica Tedesca torna a essere una città aperta e unita. È un evento che cambia la storia del Novecento, che chiude definitivamente la Guerra Fredda e che fa da spartiacque tra l'era dei blocchi contrapposti e quella della globalizzazione. È un evento, al pari, che come gran parte degli accadimenti della Storia è figlio del caso, di errori, di scelte prese con leggerezza, di pachidermi burocratici incapaci di gestire l'imprevisto. La cronaca completa di quella giornata, dall’alba al tramonto, è stata raccontata da Francesco Cancellato, vice direttore di Fanpage.it, nel suo libro “Il Muro. 15 storie dalla fine della Guerra Fredda” (Egea, 2019), di recente pubblicazione. Pubblichiamo, col permesso dell'autore e della casa editrice, un estratto del libro intitolato “1989. Quella volta in cui cadde un Muro a Berlino”.

Ore 8. L'alba di un giorno come gli altri

«Potete accomodarvi qui. Il signor Lauter vi riceverà a breve».

I due uomini si accomodano senza dire una parola. Nemmeno alzano la testa per incrociare lo sguardo della segretaria del ministero che li ha accompagnati lì. Nemmeno lei, del resto, si aspettava chissà quali convenevoli. Sentono il rumore dei tacchi sul linoleum, sempre più distante. Poi silenzio. Il più alto dei due uomini si accende un Club e la offre al collega. Lui la rifiuta con un gesto della mano. Attorno a loro, nei corridoi, negli uffici, non c’è nessuno. Dalla finestra qualche Trabant ferma al semaforo lungo la Mauerstraße, la via del Muro, e poi riparte. È già albeggiato da più di un’ora, su Berlino Est, ma del sole nemmeno l’ombra. Il più alto dei due uomini fa un tiro profondo, poi sbatte la cenere in un vaso. In lontananza, il rumore dei tacchi che torna da loro: «Prego, signori». L’uomo più alto spegne la sigaretta nel vaso. Il suo collega tocca un calorifero nel corridoio. Spento. Fa freddo, anche nella stanza del signor Lauter.

«Herr Lauter, generale Hubrich», «Compagno Lemme, compagno Krüger», si salutano. L’uomo più alto si accende un’altra sigaretta. Gerhard Lauter gli porge un posacenere. «Dal ministero vogliono sapere come procede la nuova legge sui viaggi», rompe il ghiaccio l’uomo più alto. Lauter apre una cartella di finta pelle accanto a lui e gli porge un documento di due pagine, senza dire una parola. L’uomo più alto lo sfoglia attentamente, dando ampie boccate alla sigaretta. «Passaporti, viaggi senza restrizioni, partenza definitiva dalla Repubblica Democratica Tedesca, nessuna prova di idoneità, autorizzazioni rilasciate in tempi brevi», scandisce, scorrendo il documento col dito. Poi alza la testa: «Lei capisce, Herr Lauter che tutto questo è un problema». Gerhard Lauter si toglie gli occhiali e incrocia le mani sul tavolo in fornica scura. Sorride. Sopra di lui, un ritratto di Egon Krenz, il nuovo segretario della Sed, il nuovo presidente della Repubblica Democratica Tedesca. Per un secondo, all’uomo più alto sembra che i due, Lauter e il ritratto di Krenz, abbiano lo stesso sorriso: «Questo è quel che mi ha chiesto il Politburo, compagno», gli risponde, e fino a qualche giorno prima sarebbe bastato quello, a chiudere la conversazione. Oggi no. Oggi Lauter prosegue: «Come sapete, la mia visione delle cose era un po’ diversa. Trenta giorni all’anno di permesso, per ciascun cittadino, previa autorizzazione». Silenzio. Si alza. Comincia a camminare attorno alla scrivania: «Herr Krenz – li interrompe il generale Gotthard Hubrich, capo del dipartimento del Ministero degli Interni della Repubblica Democratica Tedesca – ritiene che non sia sufficiente. Herr Dickel, il nostro ministro, ritiene che non sia sufficiente. La Camera Popolare ritiene che non sia sufficiente. Mosca ritiene che non sia sufficiente. Che senza una legge che permetta a tutti di viaggiare senza condizioni, la gente continui a fuggire. Che la Cecoslovacchia decida di chiudere le frontiere. Che Gorbaciov decida di fare altrettanto. Che la situazione degeneri, nelle piazze». Ora è di fronte all’uomo più alto, che scorre di nuovo il testo: «Che l’Armata Rossa prenda le difese dei ribelli».

L’uomo più alto, Udo Lemme, il capo dell’ufficio legale del ministero per la sicurezza dello Stato, meglio noto come Stasi, e il suo collega Hans-Joachim Krüger  si guardano negli occhi. Gerhard Lauter nel frattempo è tornato a sedersi alla sua scrivania, e li guarda mentre si guardano. «Allora?», rompe il silenzio. L’uomo più alto si alza in piedi, imitato immediatamente dal collega. «Allora non c’è molto da dire, herr Lauter», risponde, e appoggia sul tavolo le due pagine che ancora teneva tra le mani. Poi apre, la sua borsa di pelle e vi estrae un timbro in plastica blu e una vaschetta di inchiostro nero. Il colpo sordo della matrice sul foglio rimbomba per i corridoi del ministero, ripetendo l’operazione di tre giorni prima, quando l’uomo più alto autorizzò in nome e per conto della Stasi, allo stesso modo, la prima bozza della legge sui viaggi di Gerhard Lauter, quella bocciata da Egon Krenz, dal Politburo, dalla Camera Popolare, da Mosca. «Herr Lauter, lei sa cosa succederà da domani», gli chiede mentre si congeda, sebbene il tono non sia quello di una domanda. «Così vuole il Politburo», gli risponde Lauter, giustificando in una battuta la sua carriera lampo dal dipartimento passaporti e segnalazioni ai vertici del ministero dell’interno, in soli tre mesi. L’uomo più alto si accende la terza sigaretta del mattino. L’orologio a muro segna le 9:47 del 9 novembre 1989. I corridoi del ministero sono ancora deserti. «Domani è tutto finito», dice l’uomo più alto. Ma Gerhard Lauter si è già chiuso la porta alle spalle.

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Trabant in coda ai checkpoint tra Berlino Est e Berlino Ovest

Mentre i due uomini, Lemme e Krüger, si dirigono verso la sede del Ministero per la Sicurezza dello Stato al numero 103 di Ruschestrasse per informare il ministro Erich Mielke, un’agente della Stasi si sta annoiando. Si chiama Harald Jäger, ha 45 anni e ufficialmente controlla i passaporti al valico di confine che attraversa Bornholmer Strasse, a nord della città. Nemmeno i suoi tre figli sanno della sua doppia vita. Nessuno lo deve sapere. Il compito di Harald Jäger, a quel valico, è quello di raccogliere informazioni sulle aspirazioni anti-statali delle "forze ostili-negative" alla Repubblica Democratica, conversando con tono affabile con chi, autorizzato, attraversa il confine. È un valico cruciale, quello di Bornholmer Strasse. Situato tra Prenzlauer Berg e Pankov è una zona in cui abitano numerosi potenziali dissidenti. Le guardie devono controllare chi entra in Germania Est, per evitare che si metta in contatto coi nemici della Ddr. Soprattutto, devono stare attenti a non far entrare i “codice 210”, i rifugiati politici dell’Est socialisti, ora diventati cittadini dell’Ovest capitalista. È lavoro che Harald Jäger affronta con lo zelo del militante, convinto che la Ddr sia ancora, nonostante tutto, l’utopia in terra del socialismo reale.  Non il giovedì, però. Il giovedì la gente non attraversa il muro e Harald Jäger si annoia a morte. E quando si annoia, pensa. Pensa ai vecchi ruderi della Sed che stanno rovinando il partito e non lasciano spazio ai giovani. E pensa ai giovani emergenti del partito, blandi riformisti come Egon Krenz e Gunther Schabowski, il portavoce del nuovo governo. Uno che difende pubblicamente il prezzo della nuova Wartburg – 40mila marchi, perché la qualità merita il suo prezzo, alla faccia del socialismo – e che ha visto coi suoi occhi salire su una Volvo. Forze ostili-negative, pensa Harald Jäger. Magari un giorno toccherà a loro, pensa, mentre il campanile della vicina chiesa di San Pietro, sempre su Bornholmer Strasse, ma dall’altra parte del Muro, batte dieci rintocchi.

Ore 10. Il Gorbaciov di Berlino Est

La Volvo di Gunther Schabowski entra nel parcheggio del Comitato Centrale che le dieci del mattino sono passate da qualche minuto. La seconda giornata della decima riunione del Comitato Centrale della Sed è già iniziata, ma il portavoce del nuovo governo della Repubblica Democratica Tedesca ha ottimi motivi per spiegare il suo ritardo. Non c’è giornale che non parli di lui, quella mattina, e della sua conferenza stampa del giorno prima, aperta alla stampa internazionale e alle domande dei giornalisti. Se li è letti tutti, mentre faceva colazione nel suo appartamento a Waldsiedlung Wandlitz, il quartiere dei Politburuerkraten della Ddr. Curiosamente, quelli dell’Ovest sono pieni di elogi per questo inaspettato comunicatore della Repubblica Democratica Tedesca, lontano anni luce dal grigiore burocratico dei suoi predecessori e dei suoi colleghi. Quelli dell’Est, sempre più vicini alle istanze dei contestatori del regime, biasimano le sue risposte vuote e lo accusano di essere una banderuola del regime, messa lì per far finta che qualcosa sia cambiato. Non bastasse, i membri del Comitato Centrale lo accusano di essere troppo morbido con la stampa della Ddr, di lasciare troppo liberi i giornali di esprimere il loro dissenso verso il Governo e verso il Partito. A scacciare i cattivi pensieri ci pensa Herr Krenz, il Presidente, che lo vede entrare e lo invita a sedersi accanto a lui. Schabowski ne è rincuorato. Del resto, Herr Krenz voleva diventare il Gorbaciov di Berlino Est e gli elogi dell’Ovest, in questo senso, valevano molto più delle critiche che arrivavano da Est. Sorride al pensiero, Schabowski, e degli applausi che riceve quand’è il momento della sua relazione, una vuota e autoreferenziale giaculatoria sulla nuova strategia di comunicazione della Repubblica Democratica Tedesca. Esce dalla sala poco dopo aver finito di parlare, per fumare una sigaretta e a discutere coi membri del Comitato e con qualche giornalista. Alla prima sigaretta seguirà la seconda, poi la terza. In quella sala non ci rientrerà più.

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Egon Krenz, presidente della Repubblica Democratica Tedesca, con il presidente dell'Urss Mikail Gorbaciov, il 1 novembre 1989

Avesse guardato bene sul tavolo cui era seduto, Gunther Schabowski, si sarebbe accorto di due fogli davanti a Egon Krenz. Due fogli scritti a mano e timbrati dalla Stasi e dal Ministero dell’Interno. Due fogli che raccontavano di nuove disposizioni in materia di viaggi per i cittadini della Germania Est. Egon Krenz, presidente della Repubblica Democratica da pochi giorni, freme dall’idea di annunciare quelle nuove disposizioni. Sa benissimo che quelle disposizioni sono l’unica cosa che può salvare il suo Paese dall’isolamento e dalla rivolta. Soprattutto, sa benissimo che in caso di rivolta, il potere tornerebbe nelle mani di Mielke e dei duri del regime. Tra le mani, tuttavia, ha anche un appunto di Friedrich Dickel, il vecchio e malato ministro dell’interno della Ddr. Dice, quell’appunto, di non diffondere quelle disposizioni fino al giorno seguente, e di comunicarle nel primo notiziario delle quattro del mattino del giorno seguente, per non dare a sovietici e cecoslovacchi il tempo di chiudere le frontiere. Soprattutto, Krenz sa che la bozza è ancora in preparazione, che Lemme e Krüger sono tornati al ministero dell’interno, che Dickel ha dato ordine a Gerhard Lauter di lavorarci ancora. Krenz, tuttavia, vuole almeno accennare al fatto che il Comitato Centrale sta approvando un nuovo regolamento sui viaggi. Vuole che rimanga agli atti, soprattutto. Ne approfitta in pausa pranzo, quando legge a otto membri del Politburo in sala, su diciassette, le due pagine di memorandum e le sottopone alla loro approvazione. In pochi capiscono di cosa stia parlando, ma nessuno ha nulla da eccepire. Nemmeno Schabowski, che nel frattempo sta fumando l’ennesima sigaretta nell’atrio, mentre discute animatamente con alcuni colleghi.

Alla stessa ora, sulla Unter der Linden, dall’ambasciata sovietica parte un fax verso Mosca. A inviarlo, è l’ambasciatore Vyacheslav Kochemassov in persona. I destinatari sono il presidente Mikhail Gorbaciov è il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze. Sul documento inviato c’è l’accordo che Mosca ha negoziato con Berlino Ovest pochi giorni prima: l’apertura di un confine a sud verso lo Schirnding bavarese per i tedeschi dell’est che avessero voluto raggiungere volontariamente la Germania Ovest. A Mosca, tuttavia, sono nel pieno del 72esimo anniversario della rivoluzione d’ottobre e nessuno risponde. Berlino, tuttavia, ha bisogno di un’approvazione immediata, che arriva dal vice ministro degli esteri sovietico, l’unico raggiungibile, quel pomeriggio. Nessuno legge il testo. Nessuno sospetta che in quelle due pagine ci sia un regolamento che riguarda tutti i viaggi e tutti i confini della Germania Est. Nessuno sa del lavoro di Lauter e Hubrich, di Lemme e di Krüger. Nessuno sa che il Comitato Centrale della Sed ha approvato un regolamento diverso da quello. Nessuno sa quelle due pagine di documento, in realtà, riguardano anche il Muro di Berlino.

Ore 17. Il primo errore

Sono le cinque del pomeriggio e la giornata sta volgendo a termine. Tutti sono contenti. Lauter ha finito il suo lavoro, cesellando il regolamento secondo le ultime disposizioni del Comitato Centrale e della Stasi, e non vede l’ora di tornare a casa per andare a teatro con la moglie, cui ha regalato i biglietti del "Reineke Fuchs" di Goethe. Egon Krenz ha concluso il suo primo Comitato Centrale da Presidente della Repubblica Democratica Tedesca, portando a casa la mancata chiusura dei confini sovietici e cecoslovacchi. I sovietici hanno celebrato il loro settantaduesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre senza particolari seccature. E pure il noiosissimo turno del giovedì di Harald Jäger sta volgendo al termine.

L’unico che non è contento Gunther Schabowski, cui ancora tocca la quotidiana conferenza stampa con i giornalisti della stampa nazionale e internazionale. Quello che il giorno prima gli sembrava esaltante, nel giro di ventiquattro ore si è già trasformato in una gigantesca seccatura. Da giornalista al servizio di un regime totalitario Schabowski non è abituato alle critiche, né tantomeno alle domande. Non è abituato, lo innervosiscono parecchio. E i giornalisti stranieri sembrano fare apposta a incalzarlo, a metterlo in difficoltà. «Tenetevi la Volvo e ridatemi un potere che terrorizza», pensa, ma è solo un attimo. Guarda l’ora. Sono le 17,20. Si alza dalla scrivania, pronto a dirigersi al Centro della Stampa Internazionale a Mohrenstrasse, poco lontano da lì. Ma prima, come per un ultimo scrupolo di coscienza, si dirige verso l’ufficio di Herr Krenz, per fare un ultimo punto sulle cose da dire.

Egon Krenz, nel frattempo, è appena tornato in ufficio, dopo un lungo, ulteriore, colloquio con alcuni membri del Politburo. Schabowski capita a fagiolo: Krenz ha appena finito di discutere con il ministro degli Interni Friedrich Dickel, che non vuole prendersi la responsabilità del regolamento. Per questo, ritiene giusto che ad annunciarlo sia l'ufficio stampa del Consiglio dei ministri. Schabowski, quindi. Krenz acconsente, e commette il primo errore. Krenz chiede a Schabowski di parlarne alla conferenza delle sei, dimenticandosi dell’embargo del provvedimento fino alle 4 del mattino del giorno dopo, come da richiesta di Lauter, e commette il secondo errore. Krenz affida a Schabowski il compito di comunicare al mondo questo regolamento per i viaggi senza che quest’ultimo sia al corrente delle ultime due versioni, avendo passato la giornata a discutere coi giornalisti, lontano dai lavori del Comitato Centrale, lontano dalle discussioni del Politburo, lontano dagli ultimi due giorni di modifica del testo e commette il terzo errore: «Questo regolamento ci aiuterà a riconquistare popolarità», gli dice Krenz, consegnandogli le due di Lauter, Hubich, Lemme e Krüger. Schabowski annuisce, infila quelle due pagine nella sua borsa di pelle e si congeda, senza nemmeno avere lo scrupolo di leggerle prima di entrare in sala stampa. Quando la Volvo accosta davanti Centro della Stampa Internazionale mancano sette minuti alle diciotto e un’ora esatta all’appuntamento con la Storia.

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Gunter Schabowski, portavoce del governo della Repubblica Democratica Tedesca nella conferenza stampa del 9 novembre 1989, che fa crollare il muro di Berlino

Ore 18,53. Appuntamento con la Storia

Sul palco della sala stampa già sono seduti Helga Labs, storica presidente dell'organizzazione pioniera "Ernst Thalmann" della Repubblica Democratica Tedesca, ora presidente del Consiglio centrale del sindacato Istruzione e formazione, Manfred Banaschak, giornalista, in rappresentanza della Sed, e Gerhard Beil, ministro del commercio. I giornalisti hanno facce annoiate. Molti sono lì solo per passare la serata, alcuni perché obbligati dalle loro testate. I cinesi sono già andati a dormire, e il loro interesse, in ogni caso, è tutto per il ritiro dalla vita pubblica di Deng Xiaoping, lo storico leader del dopo Mao, che era tornato dalla pensione solo per reprimere nel sangue le proteste di Piazza Tien An Men, poco meno di un mese prima. Schabowski appoggia la borsa in pelle sulla sedia di fianco a lui, e sprofonda nello schienale della poltroncina, con aria annoiata e stanca. E così rimane, a inondare di chiacchiere inutili sulle mirabolanti svolte, tutte a parole, del Comitato Centrale.. Fino alle 18,53. Fino a che Riccardo Ehrman, giornalista italiano dell’Ansa, pone a Gunther Schabowski la fatidica domanda: «Cosa ci può dire della legge sui viaggi che avete approvato?». Schabowski va in tilt e comincia ad abbozzare: «Poiché riteniamo inaccettabile che questo movimento stia avvenendo attraverso il territorio di uno stato alleato, abbiamo deciso di attuare un regolamento che consenta a ogni cittadino della Repubblica Democratica Tedesca di lasciare il Paese attraverso uno qualsiasi dei valichi di frontiera», spiega. La risposta sveglia i giornalisti, che cominciano a tempestare Schabowski di domande, costringendolo ad aprire la sua borsa di pelle per recuperare le due pagine di decreto, leggendo in diretta televisiva, per la prima volta, il testo di Lauter: «Le domande di viaggio all’estero da parte dei privati possono ora essere fatte senza i requisiti precedentemente esistenti», scandisce ad alta voce Schabowski, scorrendo con una matita un documento che non aveva mai letto: «È una decisione che abbiamo preso oggi, per quanto ne so», tracheggia Schabowski, guardando Labs e Banaschak nella speranza di una conferma. Labs e Banaschak annuiscono, ma Schabowski ormai è in pieno psicodramma. Inforca gli occhiali: «Vedete, compagni, io sono stato informato oggi, ma  questo annuncio è già stato distribuito prima di oggi quindi dovreste già averlo». I giornalisti fanno segno di no, con la testa. Schabowski si mette a leggere, per se stesso e per loro: «Primo: le domande di viaggio all’estero da parte dei privati possono ora essere fatte senza i requisiti precedentemente esistenti e i motivi per il rifiuto possono essere applicati solo in casi eccezionali – enumera -. Secondo: i dipartimenti responsabili del passaporto e del controllo di registrazione negli uffici distrettuali della polizia popolare della Repubblica Democratica Tedesca sono incaricati di rilasciare visti per l’uscita definitiva senza ritardi e senza presentazione dei requisiti esistenti per l’uscita permanente». Schabowski rialza la testa. Riccardo Ehrman ha ancora la mano alzata: «Quando entrerà in vigore questo regolamento?», chiede. Schabowski dovrebbe rispondergli che non ne sa nulla, che non ne ha idea. Nessuno gliel’ha detto, del resto. Ma non vuole fare ulteriori figuracce. Apre un foglietto in cui c’è scritto tutt’altro e fa finta di leggere: «Ab sofort», dice. Da subito. «Vale anche per Berlino Ovest?», lo incalza un altro giornalista. Schabowski annuisce.

La frittata è fatta. Lauter ha preparato un regolamento condiviso nei minimi dettagli con il Comitato Centrale e la Stasi, ma Schabowski ha presentato alla stampa un appunto del mattino, privo di qualunque dettaglio. Il ministro dell’interno Friedrich Dickel ha più volte richiesto che il documento fosse presentato il mattino seguente, alle quattro, comprensivo degli ordini di servizio per gli agenti di frontiera, ma il presidente Egon Krenz ha deciso di presentarlo la sera prima, senza preallertare nessuno, e Schabowski ha messo la ciliegina sulla torta col suo ab sofort, da subito. In tutto questo, nessuno è stato avvisato di nulla. Non la Germania Ovest, non l’Unione Sovietica. E nessuno, soprattutto, non Lauter, non Dickel, non Krenz e non Schabowski si accorge che non c’è niente che sta andando come dovrebbe andare, che la Repubblica Democratica Tedesca sta collassando su se stessa, vittima della sua burocrazia e della sua tracotanza.

Sono gli unici a non accorgersene, peraltro. Al checkpoint di Bornholmer Strasse, Harald Jäger assiste alla conferenza di Schabowski mentre sta cenando e non riesce a credere alle sue orecchie. Urla contro chiunque gli si pari di fronte, e cerca spiegazioni tra i suoi colleghi negli altri checkpoint, al comando di polizia, dalla Stasi: "Immediatamente … senza indugio … Berlino-Ovest. Qualcuno mi può cosa sta parlando Herr Schabowski?", sbraita alla cornetta, invano.

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Trabant in arrivo da Berlino Est, che vengono “battezzate” con le bottiglie di birra dai berlinesi dell'Ovest

All’ambasciata sovietica, sull’Unter der Linden, l'ambasciatore Vyacheslav Kochemassov non si capacita. Forse, pensa, Herr Krenz ha preso contatto diretto con Gorbaciov, forse attraverso la Stasi, con la leadership del partito sovietico. Forse Mosca sa quel che sta succedendo. Chiama Mosca. Mosca non risponde.

Anche Egon Krenz, peraltro, sta cercando di mettersi in contatto con Gorbaciov, ma Mosca è silenziosa anche per lui.

Nel frattempo le agenzie cominciano a battere la notizia che i cittadini della Repubblica Democratica Tedesca possono andarsene liberamente, ab sofort, da subito. Alle 20, il telegiornale dell’emittente tedesca occidentale Zdf apre con il titolo: “La Ddr apre il confine”. Nel servizio, si dice che anche il Muro di Berlino dovrebbe essere aperto, durante la notte.

Nel frattempo Gunther Schabowski è tornato a casa e ha appena finito di cenare quando il telefono comincia a squillare all’impazzata.

Gerhard Lauter, invece, è ancora a teatro e pensa che quando finirà lo spettacolo tornerà al ministero in Mauerstrasse per programmare l’invio del regolamento di viaggio, via telex, per le 4 di mattina del giorno seguente. «C’è la segreteria telefonica piena di messaggi», gli dice sua moglie, una volta rientrati a casa. Lauter non si è nemmeno tolto le scarpe e il cappotto. Non è un nemmeno un presentimento il suo. È una certezza. «Non aspettarmi sveglia», è l’unica cosa che riesce a dire a sua moglie. Quando Lauter arriva al ministero i corridoi sono deserti e le uniche luci accese sono quelle verdi del suo centralino. Agenti della Stasi, guardie di frontiera, poliziotti, capi distrettuali: tutti vogliono sapere cosa sta succedendo, cosa bisogna farne di queste nuove regole di viaggio. Lauter si siede alla scrivania: qualcuno ha parlato prima del previsto, pensa. Aveva ragione Udo Lemme, quella mattina. Oggi finisce tutto.

Ore 22,53. Il Muro non esiste più

Le prime persone arrivano al checkpoint di Bornholmer Strasse che sono da poco passate le 20,30. Dopo mezz’ora sono quasi un centinaio. Alle 21,30 quasi mille persone, contate male, hanno invaso entrambe le carreggiate. Jäger prende in mano il megafono e inizia a parlare: «Il compagno Schabowski ha annunciato un nuovo regolamento di viaggio, ma è per passare il confine è necessario un permesso che si ottiene dalla polizia popolare, non qui». «Il compagno Schabowski ha detto immediatamente!», risponde la folla. Arriva la polizia popolare, ma anche loro non sanno cosa dire, e non hanno ricevuto alcun ordine. Chiede alla gente di andare via, di tornare la mattina dopo. Jäger spera sia solo una strategia per prendere tempo, che la polizia stia preparandosi ad aprire un ufficio in grado di concedere visti nel più breve tempo possibile. Non è così. La folla si disperde, solo per tornare ancora più numerosa e arrabbiata, pochi minuti dopo. Dietro alla folla, comincia a formarsi una colonna di Trabant. Non sono nemmeno le 22 e di quella colonna, dal checkpoint di Bornholmer Strasse, non si vede la fine. Jäger sospira, poi decide di aprire le porte. A chiunque passi di là, tuttavia, viene requisito il passaporto. Se vuole l’Ovest, sarà Ovest per sempre.

Sono le 23:35. Lauter sta cercando di parlare con qualcuno al Comitato Centrale e nessuno risponde. L’ambasciatore dell’Unione Sovietica Vyacheslav Kochemassov  sta cercando di parlare con qualcuno del Comitato Centrale e nessuno risponde: «Sembra che l'intera leadership della Repubblica Democratica Tedesca sia stata inghiottita dalla terra», commenta. Intanto Schabowski è salito sulla sua Volvo e sta girando Berlino in silenzio, e ovunque attorno a lui ci sono automobili e persone, migliaia, decine di migliaia, che si dirigono verso il Muro. Anche Jäger sta cercando di parlare con qualcuno del Comitato Centrale e nessuno risponde. La folla continua a premere. Ormai ci saranno quindici-ventimila persone di fronte al varco di Bornholmer Strasse. Far passare le persone una a una è impossibile. Jäger guarda i suoi uomini, poi guarda la folla. Poi immagina cosa potrebbe succedere se quella folla decidesse di forzare il blocco con violenza, o se i suoi soldati decidessero di rispondere col fuoco. Nessuno risponde. «Aprite l’autostrada», ordina. Il varco è aperto. Nel giro di qualche minuto, altri sei ufficiali di valico decidono di fare altrettanto. Quando rintocca la mezzanotte tra il 9 e il 10 novembre 1989, Berlino è già, di nuovo, un’unica grande città. Fa freddo, ma nessuno sembra farci caso.

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