
L’Ospedale Indonesiano di Gaza raso al suolo dalle forze israeliane: “Era casa mia, voglio diventare medico”

Ieri mattina sono arrivate le ruspe. E con loro la fine di un altro simbolo della sopravvivenza possibile nella striscia di Gaza. L’Ospedale Indonesiano di Beit Lahia, nel nord della Striscia, è stato demolito dalle forze israeliane dopo essere stato assediato per mesi, evacuato con la forza e trasformato in uno scheletro di cemento crivellato dalle bombe. Le immagini dei bulldozer israeliani tra le macerie sono state pubblicate in alcuni gruppi Telegram e poi riprese da Middle East Eyes. Ma dietro quelle immagini, c'è anche la storia di chi lì ci ha vissuto, ci ha lavorato, e ci si è rifugiato quando non aveva più nulla.
Hamzah ha 22 anni ed è uno studente del quarto anno di medicina. Fino a poche settimane fa, faceva tirocinio e volontariato proprio all’Ospedale Indonesiano. “Lo consideravo la mia seconda casa”, racconta a Fanpage.it Hamzah. "Oggi ho pianto quando ho visto le immagini. Ci ho lasciato dentro tutto: ricordi, fotografie, e la speranza di poter aiutare qualcuno”, aggiunge.
“Vivevo a Beit Lahia con la mia famiglia”, continua, “più di due settimane fa la nostra casa è stata colpita da un bombardamento israeliano all’improvviso, senza alcun avvertimento. Sono morti mio padre, mio fratello maggiore, mia sorella e mia nonna. Io e la mia sorellina di dieci anni siamo rimasti feriti. Da quel momento, siamo soli”.
Dopo l’attacco, Hamzah e sua sorella Sarah sono stati portati proprio allOspedale Indonesiano per ricevere le prime cure, Hamzah con due fratture una alla gamba e l’altra alla clavicola, la piccola Sarah con tre ferite gravi agli arti. “Siamo rimasti lì qualche giorno, ma quando l’esercito ha circondato la struttura, siamo stati costretti a lasciare il nostro ultimo e unico rifugio. Era troppo pericoloso restare”, continua lo studente.
Da allora, il rifugio è diventato una chimera: “Siamo stati accolti da alcune famiglie, temporaneamente. Non avevamo dove andare. È così che viviamo: ogni giorno è provvisorio, ogni notte è un’incognita. Ora siamo ospitati da una famiglia che ci ha trovati per strada. Ci stanno aiutando, ma la vita è durissima. Mancano cibo, medicine, sicurezza. E soprattutto manca una casa. La nostra non esiste più”.
All’Ospedale Indonesiano, Hamza non era solo un paziente: continuava a dare una mano, per quanto poteva e lo raccontava nei suoi profili social. “Anche se non mi sono ancora laureato”, spiega il giovane, “cercavo di essere utile. Conosco la medicina, volevo imparare, aiutare i dottori. Volevo fare quello che mio padre sognava per me: diventare un medico”.
Quel sogno ora sembra sepolto sotto le stesse macerie dell’ospedale. “Non ho più nulla. Nessuna certezza, nessun reddito, e ora neanche un ospedale dove formarmi. Ma il mio sogno è ancora lì. Voglio laurearmi, per mio padre. Voglio prendermi cura di mia sorella e dare un senso a tutto questo dolore. Ma ho bisogno di aiuto: non abbiamo cibo, non abbiamo cure mediche adeguate, il mio sogno è continuare gli studi e laurearmi, ma adesso devo prima pensare a salvare mia sorella”.
Hamzah oggi studia di notte, aggrappato al desiderio di fuggire, almeno tramite le pagine di quei libri, via dalla tragedia in corso a Gaza.
L’Ospedale Indonesiano era uno degli ultimi presidi sanitari funzionanti nel nord della Striscia. Ora, al suo posto, restano le macerie e le storie spezzate come quella di Hamzah. “Piango per ciò che ho perso. Ma non mi arrendo. Mio padre avrebbe voluto vedermi con il camice. Devo trovare il modo di continuare”.