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Come vivono le mamme detenute con i loro figli: “Così cerchiamo di proteggere i minori”

Fanpage.it ha dato voce al racconto di quattro donne impegnate all’interno della casa circondariale torinese “Lorusso e Cutugno” che ospita una delle cinque Icam del Paese. Delle strutture pensate per le mamme detenute che decidono di crescere con sé i propri figli.
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Struttura Icam della casa circondariale di Torino "Lorusso e Cutugno"
Struttura Icam della casa circondariale di Torino "Lorusso e Cutugno"

"A un bambino non si deve mentire. Bisogna solo trovare le parole giuste per spiegare il perché di certe cose. Ci devono essere sempre risposte adeguate". Con le parole di Marisa Brigantini, psicologa e criminologa dell'Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) di Torino ha inizio l'intervista di Fanpage.it che ha coinvolto ben quattro voci, tutte provenienti dalla struttura torinese.

Grazie alla dottoressa Marisa Brigantini, alle educatrici penitenziarie Simona Massola e Claudia Rucco e alla sovrintendente capo della polizia penitenziaria, Annamaria Cappitella, è stato possibile attraversare virtualmente le mura della casa circondariale "Lorusso e Cutugno", la quale ospita una delle cinque strutture Icam presenti in Italia.

Una stanza dell'Icam di Torino
Una stanza dell'Icam di Torino

Che cos'è un istituto Icam e come si presenta

"Questi istituti nascono nel 2006 per poter offrire una detenzione diversa non tanto alle mamme, quanto ai bambini di queste donne che decidono o per costrizione, perché all’esterno non possono contare su una rete parentale, o per scelta personale, di voler crescere i propri figli con loro" spiega Simona Massola, arrivata come educatrice venti anni fa, insieme con la collega Rucco.

"Il giorno in cui sono arrivata per la prima volta in carcere — ricorda  —  ero tanto emozionata. Il direttore di allora ci portò a fare un giro per temprarci, eravamo nuove e non sapevamo nulla di questo mondo. Quando ci fermammo all'ultimo piano in una delle sezioni nido del padiglione femminile, vidi una bambina dietro le sbarre che ci salutava. Mi colpì molto quell'immagine".

Come confermato dalle educatrici, nel 2004 le strutture Icam non esistevano ancora e i minori si trovavano con le proprie madri in carcere a tutti gli effetti. Solo qualche anno dopo fu realizzata una struttura distaccata dal padiglione, dove le detenute potevano crescere i figli in un ambiente comune, costruita in modo tale da poter ricordare il più possibile una casa.

Oggi la struttura torinese si trova in quella che viene definita l'intercinta del carcere. Superata la porta carraia, nello spazio di mezzo tra le palazzine degli uffici della direzione e le caserme degli agenti. "L'edificio è stato costruito seguendo strategie precise: dal punto di vista strutturale presenta delle vetrate e le stanze sono state progettate affinché possa entrare tanta luce. Poi ci sono gli spazi comuni, la cucina, la sala ricreativa, una stanza dedicata alle lezioni didattiche per le mamme" spiega Rucco.

Una stanza dei giochi per i bambini dell'Icam di Torino
Una stanza dei giochi per i bambini dell'Icam di Torino

E aggiunge: "Negli ultimi quattro anni il numero degli ingressi è calato vertiginosamente. Oggi ospitiamo due mamme e quattro bambini. Nel periodo pre-pandemia invece si parlava anche di dieci, dodici coppie. Il motivo di questa caduta credo sia dovuto a una maggior precauzione da parte delle forze dell'ordine e delle autorità nel carcere di limitare gli ingressi di madri con figli".

Le regole di convivenza e la giornata tipo delle detenute

Ad Annamaria Cappitella, sovrintendente capo della polizia penitenziaria, Fanpage.it ha chiesto di descrivere una giornata tipo delle detenute madri e dei propri figli. "C'è un orario ben preciso per svegliarsi. Dopodiché si prepara la colazione, si sistemano i piccoli prima che essi escano per andare al nido o alla scuola materna e, infine, ci si dedica alla cura degli ambienti comuni. Tutto ciò che riguarda la pulizia e il riordino spetta alle mamme, alcune di esse vengono di fatto assunte dall'amministrazione penitenziaria in qualità di addette alla pulizia. Hanno incarichi precisi e si occupano di aree specifiche".

Si tratta dunque di una serie di mansioni e obiettivi che tendono a responsabilizzare la donna concedendole la possibilità di sentirsi anche gratificata. Così come si è attenti nei riguardi delle mamme, lo stesso succede per i piccoli del centro.

Lo conferma Cappitella che descrive lo speciale rapporto che si instaura tra polizia penitenziaria e minori, per i quali si tenta in tutto e per tutto la massima protezione. "Vestiamo in borghese per evitare che possano avvertirci come figure insolite o sulle quali porsi domande. In questo modo gli diamo il senso della comunità.

Certamente all'interno della struttura ci sono delle regole da rispettare, ma avendo a che fare con minori non funziona proprio come nelle carceri tradizionali. È giusto pensare che siamo degli agenti di polizia penitenziaria ma è anche giusto tener presente chi abbiamo di fronte.

Una stanza all'interno dell'Icam di Torino
Una stanza all'interno dell'Icam di Torino

Quando mi chiamano e arrivo lì da loro per risolvere alcune problematiche, mi saltano addosso e mi abbracciano. Allo stesso tempo conoscono bene l'esistenza di regole e anzi, è capitato spesso che la maggior parte di essi le inglobino, il che non è poi così normale.

In questo senso c'è un aneddoto che ricordo con simpatia. Un giorno prestammo per qualche secondo un accendino a una detenuta. Poco dopo sentii: ‘Sovrintendente le devo dire una cosa. La mamma ha l'accendino nella tasca e non me lo ridà. Per favore glielo ritira lei?‘. Ecco che quindi entra in gioco quel meccanismo per cui il bambino riconosce che la madre sta facendo qualcosa di sbagliato, che va contro le regole".

Il ruolo della psicologia

Un meccanismo che secondo la psicologa Marisa Brigantini, apre le porte al cosiddetto rischio di interiorizzazione. I piccoli in questo modo finiscono per elaborare e trasferire su loro stessi esperienze punitive.

"Questa non rappresenta l'unica criticità. C'è anche tutta la questione che riguarda lo scontro tra la vita ideale e la vita reale dei bambini. — spiega la dottoressa — Per quanto l'Icam possa rappresentare una soluzione ottimale per le donne detenute, della quale sono fermamente convinta, allo stesso tempo bisognerebbe riconoscere anche la grossa incognita che rappresenta per i figli: trascorrono i primi anni di vita a farsi tante domande. ‘Perché sono qui?', ‘Perché non è la mia mamma ad accompagnarmi a scuola?' ‘Come mai le maestre vengono in centro a trovare la mamma?'. C'è una discrasia continua e quest'esperienza per forza di cose limita il proprio sviluppo cognitivo.

Per quanto mi riguarda, è impensabile inserire un minore all'interno di una struttura dove gli è data possibilità di istruirsi, giocare, andare in piscina, partecipare a compleanni e ricorrenze, per poi doverla abbandonare. E una volta fuori, ricominciare da capo.

Proporre qualcosa a un bambino che però una volta fuori sai non avrà più, non so se sia così educativo alla fine. Si instaura un meccanismo di abbandono e privazione che difficilmente egli riuscirà a colmare".

Interni dell'Icam di Torino
Interni dell'Icam di Torino

Un ulteriore complessità messa in evidenza dalla dottoressa riguarda poi il tema della genitorialità: "Non c'è attenzione alla parte assente della coppia genitoriale. Nel caso dei colloqui, ad esempio, sarebbe opportuno fare formazione sugli incontri nello spazio neutro (luogo predisposto per tutelare il rapporto genitori-figli). Potrebbe essere un'occasione d'oro per la crescita genitoriale dei due adulti.

Diventa complicato anche tutto ciò che concerne la fase post detenzione. Gli assistenti sociali sono pressoché inesistenti. Una volta fuori, senza le apposite figure, i minori possono fare ben poco per cambiare il proprio futuro. Gran parte di essi sono rom e non appena liberi tornano nei luoghi di origine ovvero nei campi e tutto il lavoro svolto fino a quel momento va in fumo. Per questo motivo dico che si dovrebbe dare maggiore priorità al loro reinserimento nella società".

La questione trova d'accordo anche l'educatrice Claudia Rucco che aggiunge: "La recidiva è alta: sono tante le donne che vediamo ritornare in istituto. Questo perché nella maggioranza dei casi non hanno scelta. È molto difficile che le mamme una volta scarcerate intraprendano stili di vita diversi da quelli assunti in precedenza. Crearsi alternative diventa complicato perché significherebbe recidere con il passato, con i propri legami".

La vita dopo la detenzione

Come tutte le altre donne, anche le detenute hanno dei sogni e l'educatrice Rucco ne è testimone: "In tante ci confidano il desiderio di voler regolare la propria vita. Mi dicono: ‘Sai una volta uscita mi piacerebbe studiare', ‘Mi piacerebbe lavorare', ‘Vorrei vedere i miei figli realizzati'. Soprattutto quando si tratta dei propri bambini perché sono consapevoli del fatto che una volta grandi potrebbero finire di nuovo in carcere e rivivere le stesse situazioni di disagio. Ma l'ideale si scontra con la realtà concreta e i loro sogni restano sogni. Tranne qualche eccezione…"

"Questo lavoro mi ha cambiato la vita, – confida – ha cambiato la mia personalità. Per me rappresenta una lotta intestina. Ci sono due forze che si contrappongono: da un lato la passione per il mestiere che ho scelto e dall'altro la frustrazione quotidiana. Il carcere è un'esperienza che ti ingloba totalmente, ti entra dentro le ossa. Si è costantemente a contatto con la sofferenza e non è facile lasciarla dietro quelle mura. Cosa mi ha insegnato? Mi ha resa consapevole di non essere onnipotente".

La pensa così anche la sovrintendente capo Cappitella prossima alla pensione dopo trentacinque anni e più al servizio della polizia penitenziaria. "Vado via da questo carcere con un bagaglio non indifferente, con la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che era nelle mie possibilità. Nonostante il carcere abbia ancora molte cose da rivedere, da cambiare.

La donna ha una serie di problematiche alle quali bisogna trovare delle soluzioni. Bisognerebbe dare loro delle risposte. Il carcere ha lasciato un segno nella mia vita, sia per quanto riguarda le gioie che per le difficoltà. Ho capito che non sempre puoi risolvere tutto, che le storie sono tante ed è impossibile entrare in ognuna di esse. Il momento più duro quest'anno è stato quando ho conosciuto delle persone che volevano togliersi la vita. Mi sono sentita così impotente, frustrata".

"Io invece ho imparato due cose: – aggiunge la dottoressa Brigantini – che prima del reato c'è sempre la persona e il valore delle piccole cose che fuori sono la normalità ma qui dentro diventano delle particolarità. È vero che esiste la frustrazione ma è vero anche che essa ti ridà quella dimensione umana che spesso dimentichi di avere. Tiene lontano quel senso di onnipotenza che è la principale pericolosità di questo mestiere.

Non è una professione che fai per denaro, per carriera; lo fai perché ci credi e pensi di riuscire a fare qualcosa per te stessa e per gli altri. Non bisogna mai pensarsi come qualcosa di diverso dalle persone che seguiamo".

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