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Unicredit: la borsa fiuta un maxi aumento di capitale, dopo un ribaltone manageriale

Ancora una giornata no per Unicredit in borsa, col titolo che resta pochi centesimi sopra i minimi a quattro anni visti già ieri. A pesare è il timore che entro giugno possa essere varato un rinnovo dei vertici e delle prime linee manageriali, per poi lanciare un nuovo maxi aumento di capitale tra i 4 e i 7 miliardi di euro…
A cura di Luca Spoldi
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Ancora una giornata negativa in borsa per Unicredit, che chiude sui minimi della giornata in a 2,7920 euro per azione (-1,5%), a pochi centesimi dai minimi degli ultimi quattro anni segnati nel corso della seduta di ieri a 2,756 euro. A pesare sul titolo sono le sempre più insistenti voci di un aumento di capitale che consenta di rafforzare gli indicatori patrimoniali della banca, apparsi di nuovo in indebolimento alla fine del terzo trimestre e ulteriormente indeboliti dall’investimento nel fondo Atlante da 800 milioni, apparso una contropartita dell’accordo tramite il quale il fondo stesso è subentrato alla banca nell’obbligo di sottoscrivere l’inoptato dell’aumento di capitale di Banca popolare di Vicenza (tradottosi in un esborso di 1,5 miliardi di euro per Atlante, divenuto socio al 99,33% di BpVi).

Se a fine dicembre Unicredit dichiarava un Common equity tier 1 (Cet1: rapporto tra capitale azionario e riserve di bilancio provenienti da utili non distribuiti al netto delle imposte, a numeratore, e attività ponderate per il rischio, a denominatore) “fully loaded” pari al 10,94%, a fine marzo il coefficiente era sceso al 10,85%, a causa soprattutto della dinamica degli attivi ponderati per il rischio (pesati per 13 punti base sull’indice) e del calo dei dividendi (-6 punti base), mentre l’investimento in Atlante, avvenuto a inizio mese, ha incrementato dello 0,26% gli attivi ponderati per il rischio, mentre le sofferenze nette già a fine marzo erano di nuovo in rialzo a 52 miliardi dai 51,1 di fine dicembre e ai 51,4 del marzo 2015.

Tra le prime misure varate per cercare di recuperare terreno vi è il lancio di una offerta di riacquisto su 700 milioni di euro di bond (325 milioni di euro su titoli di tipo Tier1 e 375 milioni su un bond Tier2) che si chiuderà il 24 maggio e che segue un’operazione analoga, per un miliardo di ero, conclusa lo scorso 19 febbraio. Con tali operazioni le banche, potendosi finanziare a costi vicini a zero presso la Bce, riescono a ridurre il costo del capitale, ma il miglioramento ottenibile a livello di coefficienti patrimoniali è limitato a pochi centesimi di punto percentuale.

Un altro modo di rafforzare i conti, in attesa di un andamento più robusto degli utili (406 milioni di euro netti nei primi tre mesi dell’anno, contro i 512 milioni del primo trimestre 2015), è attraverso la cura dimagrante della rete di sportelli bancari “fisici”, scesi a 6.842 in tutto il mondo a fine marzo dai 6.934 di fine 2015 (solo in Italia si è passati da 3.873 a 3.805 sportelli) e del middle management (coi sindacati si è concordata la riduzione di 500 posizioni manageriali), che secondo il vice direttore generale, Paolo Fiorentino, prosegue meglio del previsto, tanto che il programma di chiusura delle filiali dovrebbe concludersi a fine anno e l’obiettivo di un risparmio netto sui costi di 800 milioni di euro entro il 2018 potrebbe essere superato.

Nonostante questo, gli analisti temono che il margine risicato che presentano i coefficienti patrimoniali di Unicredit rispetto a quanto chiesto dalla Bce (10,25% dal primo gennaio di quest’anno, destinato a salire di uno 0,25% sino all’11% nel 2019) finirà col richiedere un aumento di capitale che a seconda delle diverse banche d’affari viene stimato tra i 4 e i 7 miliardi. Finora l’amministratore delegato, Federico Ghizzoni, ha sempre negato la necessità di ulteriori richieste di capitali al mercato.

Una posizione che appare molto coerente con la difesa dell’attuale assetto di controllo dell’istituto: con una capitalizzazione di poco superiore ai 17,5 miliardi, un maxi aumento di capitale comporterebbe infatti una diluizione severa per la fondazioni bancarie socie (Fondazione CR Torino, col 2,5%, e Fondazione Cariverona, con poco più del 3,5%) in caso di indisponibilità ad aderire all’aumento. Visto il peso già esiguo che le stesse hanno ormai nel capitale della banca (in cui sono presenti anche il fondo sovrano di Abu Dhabi, Aabar, col 6,5% e la banca centrale di Libia col 2,9%) anche una diluzione del 35%-40% rischierebbe di ridurne il peso ai minimi termini, sotto il 2% per la fondazione torinese e forse appena sopra per quella veronese.

Così l’eventuale ricapitalizzazione potrebbe avvenire, spiegano gli analisti, solo cambiando i vertici manageriali, probabilmente partendo dalle posizioni apicali, per le quali circolano i nomi di Lucrezia Reichlin, già membro del Cda della banca, come nuovo presidente al posto di Giuseppe Vita, e di Marco Morelli, ex direttore finanziario di Mps, come possibile rimpiazzo per Ghizzoni forse già a giugno, per poi estendersi a tutte o quasi le prime linee, cui i soci sembrano essere propensi a imputare una scarsa incisività al di là delle dichiarazioni d’intenti. Una “cura da cavallo” che se a medio termine dovrebbe portare benefici, nel breve periodo rischia di non piacere al mercato e causare ulteriori slittamenti delle quotazioni.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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