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Senza ripresa il debito/Pil italiano torna a salire

Il debito/Pil italiano continua a peggiorare come conferma Eurostat: dal 132,6% di fine 2013 al 135,6% di fine marzo. Colpa dell’assenza di crescita che impedisce di tener dietro al costo del debito pubblico. Così quella sulla “flessibilità” in Europa rischia di essere una battaglia difensiva, non certo in grado di favorire la ripresa…
A cura di Luca Spoldi
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Doveva stabilizzarsi già quest’anno e poi iniziare a calare dal 2015, ma se le cose continueranno ad andare come negli ultimi mesi, il rapporto debito/Pil italiano rischia di esplodere. Secondo l’Eurostat, infatti, il rapporto è già salito a fine marzo scorso al 135,6%, dal 132,6% di fine 2012. Un anno prima il rapporto si attestava al 130,2% ed in assenza di crescita ormai da oltre 16 anni appariva, per usare un eufemismo, una mina vagante non solo per i conti pubblici ma per l’intera economia italiana. Inutile cercare di rassicurare i mercati (che per fortuna finora si sono dimostrati molto pazienti, evitando di far precipitare la situazione): ai livelli attuali solo la Grecia, che a fine primo trimestre presentava un rapporto debito/Pil pari al 174,1%, era messa peggio dell’Italia.

Ma il Pil italiano (lo scorso anno pari a 1.362,5 miliardi di euro, contro i 1393,5 miliardi del 2012 e i 1425,5 miliardi del 2011) è un multiplo di quello di Atene (attorno a 180 miliardi di euro, equivalente a poco più di un mese e mezzo di Pil italiano), così come lo è il debito pubblico tricolore (salito a fine maggio a 2.166,3 miliardi, contro i 315 miliardi di euro scarsi del debito di Atene) e dunque dovrebbe fare più paura. Dovrebbe dico, perché a giudicare dal dibattito parlamentare, tutto incentrato sulla “imprescindibile” riforma/abolizione del bicameralismo perfetto, non si direbbe.

Per la verità delle ormai mitologiche riforme “strutturali” si continua a non veder traccia se pure si volesse prendere per strutturale la riforma del mercato del lavoro legata al “jobs act” il cui esame resta in alto mare (non se ne parlerà di sicuro prima di settembre, quando tre trimestri del 2014 saranno già alle spalle) e se anche quest’unica venisse varata entro fine anno sarebbe lecito dubitare della sua capacità di far ripartire una ripresa che al momento continua a soffrire della totale mancanza di domanda interna (e delle incertezze a cui è sottoposta quella internazionale, complici tra le altre le tensioni geopolitiche che, a partire dalla crisi tra Russia e Ucraina, rischiano di avere pesanti ripercussioni sulla Germania e sull’Europa tutta).

Questo quadro è oggettivamente preoccupante e non servirà continuare a ripetere il mantra renziano del “datemi mille giorni e vi sistemo tutto” cha ha ormai sostituito l’abusato “ghe pensi mi” di berlusconiana memoria. Il perché è presto detto: come ribadito più volte, il solo costo medio rappresentato dagli interessi sul debito pregresso è attualmente pari a circa il 3,5% annuo lordo (il costo marginale, ossia quanto lo stato paga sugli ultimi titoli emessi, prendendo a riferimento i tassi sui soli titoli di stato a 5 anni, è invece leggermente inferiore al punto percentuale, cosa che ha finora dato una grossa mano a tenere in carreggiata i conti pubblici).

Sinora il governo ha “fatto finta” di credere che il Pil 2014 possa salire dello 0,8% reale e già questo sarebbe del tutto insufficiente a centrare l’obiettivo di non far salire ulteriormente il rapporto debito/Pil (che si calcola sul Pil nominale, ossia sul Pil reale aumentato dell’inflazione), dato che l’inflazione a sua volta resta “cocciutamente” al di sotto del punto percentuale e difficilmente potrà balzare oltre il 2% da qui ai prossimi mesi per consentirci di chiudere il “gap” tra crescita del Pil e costo medio del debito. Non solo: la Banca d’Italia ha appena rivisto al ribasso, da +0,7% ad appena +0,2%, le proprie previsioni di crescita del Pil italiano in questo 2014, come dire che se andrà bene riusciremo a evitare di chiudere in recessione anche quest’anno ma non è per nulla certo.

Così se il numeratore cresce e il denominatore resta sostanzialmente fermo o comunque cresce di meno della metà di quanto cresca il numeratore, il rapporto è destinato a peggiorare. Questo farà sì che il ministro dell’Economia e finanze, Pier Carlo Padoan, debba giocare in difesa sia in patria sia soprattutto in Europa, provando a far passare un qualche concetto di “flessibilità” nell’interpretazione delle norme europee che nel caso migliore eviterà che scatti, puntuale come ogni anno,  l’ennesima “manovra correttiva” autunnale.

Una manovra che i più quantificano già tra i 20 e i 30 miliardi di euro di controvalore, non si sa bene se raggiungibili attraverso tagli alla spesa (il che potrebbe dire bloccare nuovamente il turnover nel pubblico impiego o persino accennare a qualche riduzione di organico, sindacati permettendo, visto che le spese per investimenti sono già ridotte al lumicino e solo la spesa corrente può ancora essere, in modo non indolore peraltro, aggredita) o ulteriori incrementi d’imposta (e qui la fantasia si spreca, ma visto che i redditi sono da tempo in calo l’unica voce che si può concretamente andare a tassare è a questo punto il patrimonio, con tutto quello che ne consegue). Vogliamo sperare che sia solo un “temporale estivo” e che con l’autunno miracolosamente la ripresa torni a manifestarsi in qualche angolo del globo raggiungibile dalle imprese italiane.

Il rischio tuttavia è che, dato che le condizioni non sembra stiano cambiando, di imprese in Italia siano destinate a rimanerne sempre meno e che chi può sia sempre più invogliato (vedi Fiat) a trasferire all’estero non solo le proprie produzioni ma anche la propria sede legale e fiscale. Col che oltre ad avere periodicamente nuovi “allarmi” sulle statistiche della produzione e degli ordini alle industrie tricolori si avrebbero sempre più consistenti “ammanchi” nei futuri flussi di entrate fiscali. Immaginate cosa questo potrà significare e poi, se volete, pensate a prenotare le vacanze per voi e i vostri figli. Magari in qualche paese che possa offrire qualche possibilità a questi ultimi per far esperienza, non solo di svago.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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