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La sagra del “Possibile” nella stagione della “Grande incertezza”

La politica, avvinta dal trauma della crisi, è arrivata in ritardo all’appuntamento con la Storia. Da Obama a Podemos, Da Veltroni a Civati il possibilismo s’è fatto strada come alternativa al socialismo, sconfitto dal pensiero unico neoliberista. Per le nuove generazioni è più comprensibile il richiamo alla giustizia sociale contenuto nella canzone “Essere umani” di Marco Mengoni che quello proclamato, ma non attuato, dai partiti e movimenti della sinistra italiana.
A cura di Marcello Ravveduto
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Dopo la vittoria a Madrid e a Barcellona si torna a parlare di Podemos come la novità politica del Vecchio continente. L’appeal del soggetto politico risiede nella sua caratura post ideologica, senza rinunciare alla giustizia sociale. L’altra caratteristica affascinate è la ricongiunzione tra la sfera intellettuale e l’azione politica. Infatti, il gruppo che ha dato vita al soggetto politico è composto da docenti, ricercatori e precari della Complutense (il campus universitario di Madrid) appartenenti in gran parte alle facoltà di sociologia, scienza della politica e filosofia. Le loro fonti d’ispirazione sono i testi di Gramsci, Spinelli, Pasolini e Bobbio, oltre a riferirsi alle più innovative esperienze di governo dell’America latina (la Bolivia di Morales e l’Ecuador di Correa).

Un partito pensato con la logica del movimento: c’è un segretario, un vice, una segreteria, una direzione, ma la scelta delle cariche avviene tramite web, così come le iscrizioni. Usano, inoltre, il crowdfunding come forma di finanziamento elettorale. Sono critici verso l’Unione europea ma non sono euroscettici, né schierati contro la moneta unica. Il comune dominatore è l’analisi “scientifica” e spietata delle trasformazioni sociali avvenute con la globalizzazione; una critica, interventistica e non platonica, divenuta urgente di fronte al montare della corruzione, delle caste di privilegiati e del sequestro di sovranità nazionale da parte di poteri economici extraterritoriali.

È, dunque, un partito alla cui base c’è una preparazione culturale che ha consentito di compiere una diagnosi del divenire storico post novecentesco mettendo fine al secolo delle ideologie. L’obiettivo, da quel che comprendo, è sostituire l’era del centralismo politico, come luogo di equilibrio tra forze contrapposte, con la centralità sociale. Una centralità che si conquista con la logica del conflitto che, privato dell’additivo ideologico dell’estremismo extraparlamentare, smorza eventuali rigurgiti di lotta armata.

Del resto, la Democrazia è scontro tra posizioni diverse che aspirano ad ottenere consenso maggioritario nel rispetto delle regole costituzionali. Il fulcro della battaglia di Podemos è la contrapposizione all’egemonia del pensiero neoliberista che ha condizionato negli ultimi quarant’anni il modo di pensare e gli atteggiamenti quotidiani. Gli alfieri dell’austerity ci hanno convinto che l’unica società plausibile sia quella dell’egoismo e della competizione; ci hanno persuaso che il privato sia migliore del pubblico (ma ovunque in Europa le privatizzazioni hanno comportato aumento dei costi e diminuzione dei servizi) e che il solo modello di vita ideale sia quello del desiderio di consumo.

Insomma, leggendo le tesi di Podemos ti pare di sfogliare un libro di Bauman o di Bourdieu e di ritrovare le tesi storiche di Judt sulla sconfitta antropologica della sinistra europea che, folgorata sulla strada dei mercati finanziari, ha immaginato di poter realizzare un “neoliberismo social”, ovvero un ossimoro indigesto da cui, in Italia, ha preso forma il Partito democratico. Un cartello elettorale che si attarda ad inseguire il centralismo politico perdendo di vista la centralità sociale.

Come si combatte l’egemonia culturale del neoliberismo? La strada indicata dagli spagnoli è chiara: sfruttare i social network, con una narrazione alternativa, per aggirare la barriera ideologica e di potere dei media Broadcast (controllati da monopoli privati o dai governi in carica). Aumentando il flusso delle informazioni, che rimbalzano tra new e old media, si può passare dalla scena underground a quella mainstream raggiungendo il pubblico distante, e deluso, dalla politica.  Si è riconiugato, in soldoni, il sentire comune alla rappresentanza democratica occupando uno spazio (l’enorme area dell’astensionismo) – lasciato vuoto dai partiti eredi del Novecento – che rischia di essere conquistato da forze avvezze all’uso della violenza politica.

In Italia questo spazio è presidiato dal Movimento 5 Stelle, nato come alternativa al continuismo della seconda Repubblica: volti nuovi, atteggiamenti tradizionali, con uno scadimento costante e irrefrenabile della classe dirigente. Eppure il soggetto che avrebbe potuto far saltare il banco della partitocrazia è stato da un lato demonizzato dagli avversari, perseguendo l’obiettivo dell’esclusione come forma di autotutela, dall’altro costretto in un angolo dagli errori prepolitici di militanti e parlamentari: mossi da un perenne diffidare della politica, pur essendone parte attiva, hanno trasformato l’originalità della proposta in ingenuità dell’azione. Si sono attaccati, come il peggiore dei partiti ideologici, alle regole del Movimento rinunciando all’analisi di contesto: in politica, prima ancora degli statuti, vale la capacità di agire dentro la fase storica che si sta vivendo. Una lacuna che impedirà ai pentastellati di sfruttare fino in fondo l’indignazione e la rabbia, scatenata dal ritorno di fiamma partitocratico del giovane Renzi.

Una lezione che gli spagnoli hanno compreso: Podemos nei livelli locali sta sperimentando formule di governo misto; ciò presuppone una capacità coalitiva in grado di scavalcare gli steccati storici di popolarismo e socialismo senza perdere di vista la centralità sociale della classe operaia 2.0, ovvero la gran massa di precari politicamente sottorappresentati. È presto per giudicare, staremo a vedere quel che accadrà.

Un simile obiettivo si sono posti in Italia la “Coalizione sociale” di Landini e “Possibile” di Civati. Nel primo caso mi pare di scorgere un conservatorismo novecentesco tutto legato al revival del sindacato come soggetto politico. Mi posso sbagliare ma quale attrazione può avere questo progetto sulle nuove generazioni che, in virtù del precariato, sono state private dei diritti di cittadinanza derivanti dall’essere lavoratori a tempo indeterminato? Il sindacato è in gran parte costituito da lavoratori garantiti e pensionati tutto sommato benestanti (nel senso che non campano con la pensione sociale).

Nel secondo caso si vuole «costruire un soggetto politico che… abbia autonomie territoriali, che comprenda le esperienze di civismo… senza la necessità di farsi la tessera ma con una partecipazione da una parte più leggera e dall’altra più forte e partecipativa… ci sono molte persone che si sono ritrovate nella mia stessa condizione ed avevano bisogno subito di un riferimento. Io non voglio fare nulla in testa a qualcun altro, anzi: se funziona bene altrimenti mi prendo una pausa dalla politica, senza problemi».

Dovrebbe essere, quindi, una coalizione di sinistra, che punta la Governo, alternativa alla destra e al Partito democratico. Nonostante il coraggio c’è qualcosa che non va in questa formulazione: il socialismo viene accantonato per inseguire il possibilismo snaturando definitivamente la sinistra.

Tutto è cominciato nel 2008 con il “Yes, we can” di Obama, poi arrivò Veltroni e il suo “Si può fare”. Ora c’è Podemos (che è la traduzione spagnola di we can) e su quella scia s’è innestato “Possibile” di Pippo Civati.

Alla fine dell’Ottocento il possibilismo era una corrente riformista francese interna al socialismo: un atteggiamento politico proprio di chi, pur mantenendo fede alla propria ideologia, era disposto a raggiungere soluzioni di compromesso, accordandosi con altri partiti o correnti, rinunciando ad alcuni punti del proprio programma. D’Alema è stato un maestro in questa materia. Oggi, con la sconfitta del socialismo, nella sua forma storica, a favore del pensiero unico neoliberista e con lo stravolgimento di natura e di senso del riformismo (dal “dare di più a tutti” si è giunti al “tagliare senza guardare in faccia a nessuno”), l’essere possibilista vuol dire adeguarsi alle nuove regole date, ovvero annullare la carica utopistica derivante dalla scelta egalitaria, condimento essenziale della giustizia sociale.

Obama nel 2008 doveva incitare gli americani a rialzarsi dalla crisi. Il suo era uno slogan non un orizzonte ideale intorno al quale ristrutturare la sinistra mondiale post ideologica. Dopo sette anni, quando pare che il panorama stia mutando, dichiararsi possibilisti significa confermare la “Grande incertezza” che pervade una parte della società italiana e accreditare la perdita dei riferimenti di valore, istituzionali e normativi, che fornisce la politica, redendo il clima d’opinione deluso, ma ancor di più: disorientato. È una sorta di assestamento tardivo agli effetti della crisi; più che una reazione sembra essere la metabolizzazione di un trauma.

La sensazione è che le preoccupazioni economiche abbiano modificato profondamente la percezione del contesto con una visione, radicata e generale, in cui non è più “possibile” scorgere specifiche distinzioni. In altri termini: l’insicurezza e la precarietà sono divenuti un rumore di fondo e al tempo stesso una prospettiva, una chiave di lettura. Come un paio di occhiali che oscurano e deformano il panorama antistante.

È sicuramente arrivato il momento di liberarsi della retorica del sol dell’avvenire e dare corpo ad una teoria della socialità in grado di dare risposte ai diseredati della globalizzazione, senza temere la sfida della rivoluzione digitale, al di là di ogni possibilismo. C’è più coraggio nel testo della canzone di Marco Mengoni, quando canta “credo negli esseri umani/ che hanno coraggio,/ coraggio di essere umani”, che in buona parte dei soggetti politici appartenenti alla storia del sinistra italiana.

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