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Hillary Clinton cambia idea sull’area di libero scambio del Pacifico

Hillary Clinton spara il primo “missile” della sua campagna presidenziale, prendendo le distanze dal Tpp, il trattato di libero scambio del Pacifico appena siglato tra Usa, Giappone e altri 10 paesi…
A cura di Luca Spoldi
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Nonostante il cognome che porta, o forse a causa di esso, Hillary Clinton, attuale senatrice Democratica di New York, moglie dell’ex presidente Bill Clinton ed ex Segretario di Stato americano durante il primo mandato di Barack Obama, ha tutto meno che una strada spianata per la Casa Bianca. Secondo un sondaggio di Gallup, il margine netto di elettori favorevoli (dato dalla differenza tra le indicazioni favorevoli a un candidato e le indicazioni a sfavore del candidato stesso) è attualmente negativo e pari a -8%.

Il numero di coloro che non vorrebbero Hillary come successore di Obama è dunque dell’8% superiore a chi la vorrebbe e questo è un problema per la Clinton, perché negli ultimi decenni nessun candidato presidenziale è mai riuscito a farsi eleggere partendo da indici di gradimento tanto depressi, con l’eccezione proprio di suo marito Bill, che nel 1992 venne rieletto nonostante partisse da un margine netto pari a -12%.

Tuttavia i “ritorni di fiamma” sono una costante della famiglia Clinton e così nessuno si stupirebbe troppo, tanto meno i mercati finanziari, se nei prossimi mesi Hillary colmasse il gap, tanto più che degli attuali potenziali pretendenti alla presidenza Donal Trump viaggia sul -26% di consensi, Jeb Bush oscilla sul -6% e solo l’attuale vicepresidente, Joe Biden, col suo +7% potrebbe rappresentare un’alternativa credibile per il partito Democratico.

Si vedrà, ma già ora Hillary sembra volersi preparare il terreno, con alcune dichiarazioni decisamente “alternative” a quella degli altri candidati Democratici, dalla proposta per introdurre una tassazione sul trading ad alta frequenza, basato su algoritmi di calcoli e da molti indicato come concausa della crescente volatilità dei mercati a causa degli enormi volumi di scambi che è in grado di generare in pochissimo tempo, assolutamente inavvicinabili a quelli generati da un intermediario in carne e ossa, fino alla contrarietà espressa nei confronti della Trans Pacific Partnership (Tpp).

Quest’ultima intesa, siglata nei giorni scorsi tra Usa, Giappone e altri dieci paesi che si affacciano sul Pacifico (Canada, Messico, Perù, Cile, Nuova Zelanda, Australia, Vietnam, Malesia, Brunei e Singapore), i cui scambi rappresentano il 40% dell’intero traffico commerciale mondiale, è stata fortemente voluta dallo stesso Obama, anche per lasciare un segno tangibile del proprio secondo mandato. Di fatto è il più importante accordo commerciale dai tempi del Nafta (North America Free Trade Agreement), siglato nell’ormai lontano 1994, ed è il primo che venga sottoscritto sia dagli Usa sia dal Giappone.

La presa di distanza della Clinton non è peraltro l’unica: anche in Canada, dove il 19 del mese si svolgeranno elezioni politiche anticipate, il candidato Democratico Tom Mulcair si è detto contrario e pronto a interromperlo nel caso venga eletto. In compenso in Giappone il premier Shinzo Abe si gioca buona parte delle sue possibilità di rimanere in sella e riuscire a varare riforme realmente strutturali superando le fortissime opposizioni delle lobbies locali, senza le quali la Abenomics non sembra in grado di mantenere le sue promesse.

Negli stessi Stati Uniti il dibattito sul Tpp si è tutt’altro che placato e non è ancora certo, nonostante gli sforzi di Obama, che il trattato venga ratificato dal Congresso, perché i dubbi di molti parlamentari sia Democratici sia Repubblicani, sebbene di differente matrice, potrebbero saldarsi facendo blocco. Chi critica il Tpp teme che un simile accordo favorisca sì la circolazione di merci e servizi ma, come si è visto in altri casi (compresa l’area dell’euro) non significhi automaticamente che le differenze tra i singoli paesi aderenti vadano riducendosi, con il rischio, semmai, che ai vantaggi economici si finiscano per sacrificare diritti dei lavoratori e tutele ambientali.

La possibilità che il successore di Obama ci ripensi è dunque destinata ad alimentare discussioni dentro e fuori gli Stati Uniti per tutto l’anno venturo, anche perché sul modello del Tpp dovrebbe essere varato il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), i cui negoziati sono stati avviati fin dal 2013 tra Stati Uniti e Unione europea. Il problema di fondo è che il testo finale del Tpp (e ancor più quello del Ttip) è tuttora segreto e questo ha alimentato i timori di ciascuno dei possibili stakeholder.

I sindacati temono che simili accordi rendano ancora più semplice per le imprese delocalizzare in paesi a basso costo del lavoro, le aziende temono una maggiore concorrenza sul prezzo non potendo più essere protette da dazi, gli ambientalisti che le multinazionali possano avere mano libera senza dover più rispettare i vincoli ambientali dei singoli paesi, la Cina, finora esclusa, teme che possa rivelarsi uno strumento di pressione geopolitica pensato proprio per tarpare le ali a Pechino.

Hillary Clinton con la sua presa di distanza sembra aver fatto propri questi timori, nonostante abbia per anni appoggiato il Tpp definendolo, quando era Segretario di Stato, “proficuo” e “importante per i lavoratori americani, che beneficeranno di una concorrenza regolata in modo più equo e paritario”. All’epoca la Clinton era convinta che il Tpp avrebbe “rafforzato la posizione degli Stati Uniti in Asia” e questo sembra essere una delle motivazioni di fondo per cui l’amministrazione Obama ha lanciato i negoziati sia sul Tpp sia sul Ttip e fatto tante pressioni per arrivare alla loro firma.

Siccome tra gli elettori Democratici i soli che paiono al momento avere un vago interesse per la questione sono quelli più vicini ai sindacati e dunque maggiormente ostili ai trattati (e all’ulteriore globalizzazione dell’economia che comporterebbero), Hillary potrebbe aver pensato di mostrarsi più attenta anche alle loro critiche per cercare di ottenerne i favori e rovesciare un indice di popolarità davvero poco consono a un futuro presidente Usa.

La domanda a questo punto è: una volta che fosse eletta alla Casa Bianca, a governare sarebbe la Hillary “prima maniera”, favorevole all'abolizione di dazi e barriere commerciali, o quella appena tornata sui propri passi, contraria alla globalizzazione economica? Dalla risposta potrebbe dipendere, tra le altre cose, il destino di buona parte dell’export italiano dei prossimi decenni e più in generale della crescita del “bel paese” e del mondo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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