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Guerra a Gaza: Israele è alle corde, Hamas isolata guarda con timore all’Iraq

Il rinnovo della tregua nella striscia di Gaza sembra l’unica soluzione possibile per una crisi avviata allo stallo. Tel Aviv ha perso l’appoggio incondizionato degli Usa ed è a un bivio: accettare la pace o promuovere un’altra offensiva militare, ancora più grande, che tuttavia avrebbe pesanti e negative ripercussioni internazionali.
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Israele è alle corde. Hamas isolata. La tregua rimane appesa ad un filo, mentre sporadici combattimenti proseguono nella striscia di Gaza. A poche ore dal rinnovo del cessate il fuoco tra l'esercito di Tel Aviv e le milizie palestinesi, il quadro politico rimane tutt'altro che chiaro. I colloqui di pace, svoltisi per tre giorni al Cairo grazie alla mediazione egiziana, sono per il momento riusciti a raggiungere come unico obiettivo il blocco delle ostilità fino a lunedì, data entro cui o verrà raggiunto un accordo tra i due contendenti o riprenderanno le operazioni militari dell'Idf nella Striscia di Gaza così come il lancio di razzi dai territori palestinesi verso le colonie israeliane.

Sul tavolo delle trattative ci sono le richieste dei palestinesi di eliminare l'embargo economico a Gaza, riaprire lo spazio aereo e marittimo e concedere possibilità di movimento ai suoi residenti. Dall'altra parte Tel Aviv pretende la fine del lancio di razzi in territorio israeliano. Due posizioni che al momento sembrano inconciliabili, ma che potrebbero trovare un punto d'accordo grazie alla mediazione dell'Egitto e alle pressioni della comunità internazionale, schierata in maggioranza per la fine dell'invasione militare di Gaza.

Il prolungamento del cessate il fuoco e dei tentativi di dialogo, sembra suggerire che in questo momento il governo di Benjamin Netanyahu è alle strette e che abbia bisogno, quanto meno, di tempo sia per riorganizzarsi dal punto di vista strategico-militare che per provare a riconquistare credibilità internazionale e l'appoggio del suo alleato più grande: gli Stati Uniti d'America. L'operazione militare Protective Edge, lanciata poco più di cinque settimane fa dall'esecutivo di Tel Aviv con l'obiettivo dichiarato di bloccare il lancio di razzi al Qassam e distruggere i tunnel del contrabbando filoarabo, ha sollevato un rinnovato sentimento di condanna verso l'establishment politico israeliano, accusato di aver agito in modo disumano e di aver ucciso civili inermi ed innocenti.

L'isolamento di Israele si è palesato durante la seduta dell'Unhrc (ovvero l'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite) tenutosi il 22 luglio scorso, quando è stata proposta ed approvata un'indagine per appurare se Tel Aviv, così come Hamas, abbia commesso crimini di guerra. I numeri del conflitto parlano chiaro e, al momento, riportano circa due mila palestinesi uccisi da raid aerei e bombardamenti operati dall'Idf (di cui il 75 per cento è composto da civili), mentre le vittime israeliane ammontano a circa 70 persone, di cui poco meno di cinquanta militari deceduti durante l'invasione di terra.

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Le parole di condanna espresse dai rappresentanti delle Nazioni Unite sono risultate essere chiari schiaffi verso la politica estera di Tel Aviv, che ha provato a contrastare in tutti i modi l'inizio delle indagini definendole inique e con “una sentenza di condanna già scritta”. Il 22 luglio gli Usa, unico paese, ha votato contro l'apertura delle indagini mentre i paesi dell'Unione Europea, più meschinamente forse, si sono astenuti dal voto (in diciassette), mentre tutte le altre nazioni presenti alla votazione (ventinove) si sono espresse a favore dando così il via libera all'inchiesta, guidata dal canadese William Schabas che dovrà fare chiarezza su quanto avvenuto a Gaza in queste settimane. Il contraccolpo più forte alla solidità internazionale di Israele è, tuttavia, venuto dagli incidenti diplomatici intercorsi di recente tra il governo di Netanyahu e quello di Barak Obama.

In primis lo smacco al tentativo di missione di pace condotta dal Segretario di Stato Usa John Kerry, messo di fatto alla berlina dalla controparte israeliana che ha prima divulgato la proposta di piano di pace – ancora sotto segreto –, non concedendo poi neanche una risposta alla missiva inviata dal capo della diplomazia Nordamericana. Un atteggiamento, quello di Tel Aviv, che ha fatto di molto storcere il naso ai diplomatici a Stelle e strisce. E che poco dopo hanno dovuto fronteggiare un nuovo caso: l'acquisto di materiale militare americano – mortai da 120mm, e granate da 40mm e missili aria terra Shellfire – da parte di Israele. Un acquisto definito “un'imboscata” negli ambienti della diplomazia Nordamericana, perché quelle munizioni, acquistate senza l'autorizzazione del Presidente Obama e frutto di accordi intermilitari tra i due paesi, hanno bombardato e distrutto, il 30 luglio scorso, la scuola dell'Onu di Jabaliya, attrezzata a campo di rifugio per circa 3mila sfollati, uccidendo circa venti palestinesi e ferendone un numero superiore ai cento.

Al bombardamento della scuola sita nel Nord della Striscia, ne sono susseguiti altri che hanno avuto come obiettivo strutture similari, contribuendo così a far crescere il sentimento di condanna internazionale verso le operazioni militari israeliane persino a Washington, storico alleato e protettore di Tel Aviv. L'acquisto con “furbizia” del materiale militare da parte di Israele ha indispettito non poco l'amministrazione Obama, che in questo momento deve fronteggiare già la gravissima crisi irachena, legata alla crescita e avanzata delle forze jihadiste dell'Is, e alla complessa situazione in Europa orientale.
Le affermazioni di condanna provenienti da Washington suggeriscono che Obama – in evidente difficoltà in tutto il Medioriente –, non può concedersi in questo momento anche di appoggiare apertamente le operazioni militari israeliane che hanno causato un numero elevatissimo di vittime civili.

Anche il governo conservatore di James Cameron, ha annunciato nelle scorse ore che il Regno Unito interromperà la fornitura di armamenti ad Israele (per la precisione sono state sospese le licenze a dodici industrie militari che riforniscono l'Idf) nel caso in cui dovessero riprendersi le ostilità nella Striscia di Gaza, dimostrando ulteriormente il crescente isolamento internazionale di Israele.

Sul fronte palestinese, tuttavia, la situazione è tutt'altro che semplice. Se da un lato c'è la consapevolezza che la partita in corso non possa essere persa e che questa volta la comunità internazionale è propensa ad ascoltare ed aiutare la popolazione araba, ci sono dall'altro le profonde divisioni all'interno delle componenti palestinesi che potrebbero lavorare contro la soluzione della crisi.
Uno dei punti nodali ruota attorno alle prospettive ed al potere che Hamas continuerà ad esercitare sui territori. La formazione palestinese, la cui posizione secondo molti analisti risulta essere indebolita dal conflitto sia dal punto di vista militare che economico, è quella che sembra essere la più schiacciata tra le posizioni più possibiliste sia di Fatah che dei rappresentanti del Jihad Islamico. In queste ore i rappresentanti delle tre formazioni stanno viaggiando verso i loro quartier generali, rispettivamente Doha (Qatar, dove risiede Khaled Meshal di Hamas), Beirut (Libano, dove risiede Abdullah Shalah del Jihad Islamico) e Ramallah (Palestina, dove riesiede il Presidente di Fatah Mahmud Abbas) per fare il punto della situazione e riprendere i colloqui di pace con le idee più chiare sul da farsi.

Dal conflitto anche Hamas sembra uscirne indebolita sia per le gravi perdite in termini umani, sia per il contesto internazionale che in tutto il Medioriente sta diventando sempre più rovente e dove posizioni più radicali potrebbero facilmente, molto facilmente, venir messe in collegamento con l'avanzata del califfato islamico di Abu Bakr al Baghdadi in Iraq con conseguenze disastrose per gli sforzi di pace in terra palestinese.

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