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È “illegale” avere figli con l’utero in affitto senza legame biologico

Ribaltando la sentenza emessa nel 2015, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito la possibilità per le autorità italiane di non riconoscere la legittimità di una pratica di maternità surrogata effettuata all’estero.
A cura di Charlotte Matteini
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Ribaltando una precedente sentenza sempre relativa allo stesso caso, depositata il 27 gennaio del 2015, questa mattina la Corte europea dei diritti dell'Uomo ha emesso una sentenza nella quale sostanzialmente si ammette la possibilità per lo Stato italiano di non riconoscere la legittimità di una pratica di maternità surrogata effettuata all'estero in assenza di legame biologico con i nuovi genitori. La vicenda giudiziaria che ha portato al pronunciamento della sentenza da parte della Corte europea dei diritti dell'Uomo è molto complessa e ha origine dal ricorso promosso dalla famiglia Paradiso – Campanelli, coppia residente a Colletorto, in provincia di Campobasso. Esauriti tutti i tentativi di fecondazione assistita, nel 2010 i coniugi molisani hanno deciso di ricorrere alla maternità surrogata in Russia pur di riuscire ad avere il figlio tanto desiderato. Il bambino nasce nel marzo 2011 e viene immediatamente riconosciuto dalla autorità russe come figlio legittimo della coppia, con tanto di regolare iscrizione all'anagrafe, su dichiarazione della madre gestante che ha portato a termine la gravidanza.

Qualche mese dopo, però, una volta che i coniugi Campanelli – Paradiso hanno fatto ritorno in Italia, le autorità italiane hanno avanzato dubbi sul certificato di nascita russo, sostenendo che il documento contenesse informazioni false, e hanno disposto l'esame del Dna per verificare l'esistenza di un legame biologico tra il bambino e la coppia. I risultati degli esami, però, hanno evidenziato l'assenza di qualsivoglia legame biologico e, dunque, le autorità italiane hanno provveduto a dichiarare lo stato di abbandono e ad allontanare il bambino dalla coppia, disponendo l'affidamento del piccolo a un'altra famiglia.

I coniugi molisani, quindi, decidono di ricorrere in Corte europea dei diritti dell'uomo sostenendo che lo Stato italiano provvedendo all'allontanamento del bambino dalla famiglia avrebbe violato l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, ovvero quello che tutela il diritto di ogni cittadino al rispetto della vita privata e familiare. Dopo un lungo percorso giudiziario, il 27 gennaio del 2015 la Corte emette una sentenza sostanzialmente opposta a quella odierna. Nelle carte pubblicate online, infatti, si legge che i giudici della Seconda sezione – cinque voti contro due, quindi non all'unanimità – all'epoca diedero ragione alla famiglia Campanelli – Paradiso, condannando l'Italia per la violazione dell'articolo 8 della Cedu: "Nel caso di specie, ai ricorrenti è stato negato, da parte del tribunale per i minorenni di Campobasso e della corte d’appello di Campobasso, il riconoscimento della filiazione stabilita all’estero e gli stessi sono stati oggetto di decisioni giudiziarie che hanno portato all’allontanamento e alla presa in carico del minore. Secondo la Corte questa situazione si traduce in una ingerenza nei diritti sanciti dall’articolo 8 della Convenzione", sottolineando inoltre che "la Corte non è convinta del carattere adeguato degli elementi sui quali le autorità si sono basate per concludere che il minore doveva essere preso in carico dai servizi sociali. Ne deriva che le autorità italiane non hanno mantenuto il giusto equilibrio che deve sussistere tra gli interessi in gioco", ovvero che lo Stato italiano all'epoca dei fatti non tenne conto degli interessi del nascituro, sia pur ribadendo che trascorsi ormai 2 anni dall'affidamento del piccolo a un'altra famiglia, il pronunciamento non potesse in alcun modo essere interpretato come un obbligo per le autorità italiane a riconsegnare il bambino alla coppia di ricorrenti.

La decisione del gennaio 2015, però, venne appellata dal governo italiano, che chiese l'intervento della Grande Chambre di Strasburgo. A distanza di un anno, dunque, viene emessa un'altra sentenza, questa volta sostanzialmente opposta a quella del 2015. Secondo i giudici della Grande Camera, infatti, nel caso di specie non ci fu alcuna violazione dell'articolo 8 della Convenzione europea per due motivi: quando il bambino venne allontanato dalla famiglia molisana erano trascorsi circa 9 mesi dalla nascita, un lasso di tempo considerato molto breve per poter sostenere l'esistenza di un legame famigliare tra i soggetti. "Tenuto conto dell'assenza di qualsiasi legame biologico tra il bambino e i ricorrenti e la breve durata della loro relazione con il bambino, e l'incertezza dei legami tra loro dal punto di vista giuridico, e nonostante l'esistenza di un progetto parentale e la qualità dei vincoli emotivi, la Corte ha ritenuto che non esisteva una vita familiare tra i ricorrenti e il bambino", si legge nella sentenza, che inoltre sottolinea "che il bambino non avrebbe sofferto di danno grave o irreparabile, come risultato della separazione", ma soprattutto evidenzia in più passaggi che il legame famigliare tra la famiglia molisana e il bambino sarebbe stato stabilito illegalmente, non rispettando le leggi nazionali.

In seconda istanza, poi, la Corte rileva il diritto per l'autorità italiana il diritto di riconoscere o meno l'esistenza di un legame famigliare e di stabilire quali pratiche possano essere considerate vietate o lecite: "Le misure contestate hanno perseguito l'obiettivo legittimo di prevenire disordine e proteggere i diritti e le libertà degli altri. A questo riguardo considera legittimo il desiderio delle autorità italiane di riaffermare la competenza esclusiva dello Stato di riconoscere la relazione parentale legale di un bambino, e questo esclusivamente nel caso di un legame biologico o di un'adozione legale, con l'obiettivo di proteggere i bambini".

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