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Colosseo chiuso: se tutto diventa “servizio pubblico essenziale”, allora nulla lo è

Dopo la serrata – per assemblea sindacale regolarmente autorizzata – di tutti i principali musei romani all’aperto, dal Colosseo al Palatino agli scavi di Ostia antica, il ministro Franceschini presenta un decreto lampo che inserisce l’apertura dei musei e dei luoghi d’interesse culturale fra i “servizi pubblici essenziali”. Ma se per risolvere una questione spinosa si trasforma tutto in “servizio pubblico essenziale” allora nulla lo è più.
A cura di Andrea Esposito
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Foto Mauro Scrobogna /LaPresse
Foto Mauro Scrobogna /LaPresse

Fino a metà del III secolo, quando l’Imperatore Costantino li abolì, il Colosseo è stato teatro dei cosiddetti “Munera sine missione”: letteralmente, scontri all’ultimo sangue. Proprio come quello andato in scena ieri tra governo e sindacati in merito agli scioperi nei musei e nei siti archeologici.

Già perché il Ministro Dario Franceschini ad appena poche ore di distanza dalla notizia della serrata, causa assemblea sindacale preannunciata e regolarmente autorizzata di tutti i principali musei romani all’aperto, dal Colosseo al Palatino agli scavi di Ostia antica, aveva già pronta la sua mossa, il suo colpo letale: un decreto lampo che modifica la legge 146 del 1990 e che inserisce l'apertura dei musei e dei luoghi d'interesse culturale fra i "servizi pubblici essenziali". Un gesto muscolare e risolutivo.

Pur intravedendo una ratio, un interesse nazionale prioritario, in un simile provvedimento, il punto centrale è però un altro: se per risolvere un contenzioso, una questione annosa e storica, tutto deve diventare “essenziale”, allora questo significa che nulla lo è più. Non possiamo certo pensare di affrontare così tutte le infinite emergenze di questo paese. Il Colosseo, così come altri monumenti romani e non solo (si pensi a Pompei), è senza dubbio uno dei simboli più importanti e visitati al mondo, le stime dicono che quest’anno sfonderà il record dei sei milioni di visitatori per un ricavo di circa cinquanta milioni di euro. Ma non è poi così diverso da una Tour Eiffel o un Alhambra i cui dipendenti, però, scioperano e come, senza la tagliola di un decreto lampo.

Per questo forse bisognerebbe metterla giù diversamente e dire: l’Italia è un paese in ginocchio che sta cercando in tutti i modi di risollevarsi. Questa rinascita passa anche e soprattutto attraverso il turismo e la sua capacità di trainare l’economia, anche nell’accezione simbolica di reputazione e affidabilità internazionale. Ogni passo falso segna una battuta d’arresto, una sconfitta per tutti. Per questo lo sciopero di fine agosto a Pompei, che lasciò in coda sotto il sole migliaia di persone, ha destato tante polemiche ed ha posto le basi per quello che sta accadendo ora. Simili questioni vanno affrontate insieme, come sistema Paese, prima che diventino una figuraccia internazionale e che “autorizzino” misure più drastiche e irreversibili.

Il principio alla base dello sciopero, del creare un disagio agli utenti per protesta contro lo Stato, contro il ministero, vale quando Stato e lavoratori sono due antagonisti che si affrontano sul campo di battaglia o in un’arena per l’appunto. Ma qui e non solo, la questione sembra essere molto diversa: l’Italia di oggi ha bisogno di coesione, non di giocare a sciopero e ricatto, come il gatto col topo, perché l’antagonista è altrove. È, ad esempio, quel paese che attrae più turisti di te, che offre servizi migliori, che è riuscito a creare un circuito integrato e funzionale tra accoglienza, servizi e offerta culturale. Non quello dove si sciopera di più o dove non si può più scioperare.

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