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400 anni fa moriva Cervantes: Don Chisciotte, il simbolo della “saggezza dell’incertezza”

Il 23 aprile 1616 muore Miguel de Cervantes: sono trascorsi ormai quattrocento anni dalla scomparsa del famoso autore del Don Chisciotte. Scopo del romanzo, quello di ridicolizzare i libri di cavalleria e di satireggiare il mondo medievale: ma la storia del folle condottiero della Mancha è diventata molto di più. Da Michel Foucault a Luigi Pirandello, da Dickens a Borges: il Don Chisciotte è a una metafora esistenziale profondamente significativa, che ha percorso tutta la storia della riflessione filosofica e della letteratura.
A cura di Federica D'Alfonso
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"Feodor Chaliapin as Don Quichotte", illustrazione di Alexandre Jacovleff per il "Don Quichotte" di Jules Massenet, 1910
"Feodor Chaliapin as Don Quichotte", illustrazione di Alexandre Jacovleff per il "Don Quichotte" di Jules Massenet, 1910

Miguel de Cervantes Saavedra nasce in Nuova Castiglia, il 9 ottobre del 1547. Arruolatosi nell’esercito, combatte la guerra contro i Turchi prendendo parte alla battaglia di Lepanto, nel 1571, "la più grande occasione che videro i secoli passati, e presenti, e che vedranno i futuri", come dirà nel Prologo del Don Chisciotte. Catturato dai corsari turchi, resta cinque anni prigioniero ad Algeri, e a causa delle gravi ferite riportate nella battaglia perderà per sempre l’uso della mano sinistra. Quella di Cervantes è stata una vita avventurosa, proiettata a pieno nella propria epoca storica, ma segnata irrimediabilmente dall’amarezza per il mancato riconoscimento dei suoi meriti di soldato: sempre più respinto ai margini della storia ufficiale, soffocato dai debiti e dalle ristrettezze e dal carcere, Cervantes inizia a guardare il suo tempo con uno sguardo acuto e doloroso, lo stesso che fa nascere il mito di Don Chisciotte. A 400 anni dalla morte del grande romanziere, avvenuta il 23 aprile 1616, è impossibile non riscordare la sua opera più famosa, il Don Chisciotte, e il fascino che ancora oggi, dopo secoli, essa esercita sull'immaginario collettivo.

"Un’opera maestra che fissa in immagini il contrasto tragicomico tra le sovrastrutture mitiche e la realtà dei rapporti umani. E il vecchio mondo, dal delicato amante di poesia pura fino a colui che è minacciato dalla fame, si riconosce nell’opera e si ama nell’eroe. La crisi ha fatto nascere un interprete della sua natura". La Spagna del 1600 è ricca e povera al tempo stesso: banchetta e muore di fame, custodisce imperi ed è ormai priva di uomini. L’impero spagnolo aveva conquistato il Mondo Nuovo, ma nel XVII secolo è ormai al tramonto: la coscienza della crisi e delle sue contraddizioni è il contesto in cui il folle condottiero di Cervantes si muove.

Il protagonista della vicenda è un uomo sulla cinquantina, un hidalgo spagnolo di nome Alonso Quijano, morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi. Le sue letture avventurose lo condizioneranno a tal punto da trascinarlo in un mondo fantastico, convincendolo di essere diventato un cavaliere errante chiamato a difendere i più deboli e riparare i torti, insieme al fedele scudiero (che in realtà non è altro che un contadino) Sancio Panza.

Tanto s’immerse nelle sue letture, che passava le nottate a leggere da un crepuscolo all’altro, e le giornate dalla prima all’ultima luce; e così, dal poco dormire e il molto leggere gli s’inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio. La fantasia gli si empì di tutto quello che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste ed altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d’immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa.

Lo scopo del romanzo, per ammissione dello stesso Cervantes, era quello di ridicolizzare i libri di cavalleria e di satireggiare il mondo medievale: ma la storia di Don Chisciotte è diventata molto di più. Ha avuto una straordinaria influenza su scrittori e filosofi, da Foucault a Pirandello, da Dickens a Borges: perché Don Chisciotte non è altro che una metafora umana profondamente significativa. Il personaggio di Don Chisciotte incarna lo spirito filosofico di un'epoca che cambia gradualmente ma inesorabilmente: il Seicento non è più il secolo dei grandi romanzi cavallereschi, ma non è ancora quello dei grandi racconti realisti. Non è un secolo pienamente consapevole della propria storicità, ma è in continuo conflitto con il suo presente: l'uomo stesso è contraddittorio, alla perenne ricerca di una sintesi interiore e civile che arriverà solo molto tempo dopo.

Don Chisciotte, l'avventura folle della realtà

Don Quichotte, illustrazione di Honorè Daumier (1868)
Don Quichotte, illustrazione di Honorè Daumier (1868)

Nel Cinquecento la follia è un elemento persistente nella letteratura e nella riflessione filosofica: si pensi a Erasmo, ad Ariosto e allo stesso Shakespeare. Una follia che viene ancora sentita come parte integrante della ragione umana, perché mette a nudo le contraddizioni, le paure e le passioni degli uomini. Ma verso la metà del Seicento il modo d’intendere la follia cambia, cessando di essere un’immagine grazie alla quale si possono rappresentare gli aspetti più inquietanti della condizione dell’uomo.

La follia diviene un elemento negativo, viene considerata come non-ragione, assumendo nella coscienza sociale una dimensione nuova inglobando tutti gli aspetti considerati "devianti": il pazzo, il diverso, non può più confondersi con il resto della società, e non può e non deve più parlare. Questa è stata una delle eredità più importanti lasciate dall'opera di Cervantes: una grande antologia dell'uomo presente, capace di indagare a fondo gli elementi più contraddittori della storia. Così, almeno, la leggeva Michel Foucault in una delle sue opere più famose, "Le parole e le cose":

Don Chisciotte è la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all’infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa, spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato letteratura; poiché la somiglianza entra così in un’età che per essa è quella dell’insensatezza e dell’immaginazione. (…) La sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero. Don Chisciotte legge il mondo per dimostrare i libri. (…) Perché la scrittura e le cose non si somigliano, e tra esse, Don Chisciotte vaga all’avventura.

La saggezza dell'incertezza

Don Chisciotte ha influenzato, per questo suo carattere esistenziale, anche molta letteratura, a partire soprattutto dall’Ottocento: dal Circolo Pickwick di Dickens all’Idiota di Dostoevskij, fino ai Promessi Sposi di Manzoni. L'intellettuale cui Cervantes è intimamente più congeniale però, è sicuramente Jorge Luis Borges, il quale ha sempre considerato Don Chisciotte “il libro in cui tutto viene dato come possibile e dove la letteratura agisce come la vita; e i personaggi diventano romanzi e i romanzi personaggi”.

Borges sostiene che Don Chisciotte è un romanzo profondamente “realista”, ma di un realismo del tutto particolare, diverso da quello conosciuto e possibile nel XIX secolo. “Nel Don Chisciotte a un mondo poetico, immaginario, viene contrapposto un mondo vero e prosaico; alle vaste geografie dell’Amadigi di Gaula, le piste polverose e le sordide osterie della Castiglia”. Se Descartes fu eroico nel porre l’uomo da solo di fronte all’universo, dice Borges, altrettanto eroico fu Cervantes nell’affrontare il mondo come ambiguità, possedendo come sola certezza "la saggezza dell’incertezza".

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