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Suicidi, denutrizione infantile e altri danni collaterali del trattamento greco

Suicidi in piazza, bombe esplose nei pressi di edifici pubblici, malnutrizione diffusa che colpisce oltre 400.000 bambini, scioperi prolungati a tutti i livelli. Questo il breve resoconto dell’ultima settimana di eventi in Grecia. La tensione sociale torna a crescere.
A cura di Anna Coluccino
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Lo scorso 5 aprile, un pensionato si è tolto la vita in piazza Syntagma. Un uomo di 77 anni, ex farmacista, appartenente a una categoria sociale che, da sempre, annoveriamo tra quelle privilegiate ha deciso di manifestare davanti agli occhi dell'intero paese e del mondo la sua condizione di disperazione. Una disperazione senza via d'uscita che si è conclusa con la decisione di abbandonare la vita. Ma quello del pensionato non è stato gesto privato, silenzioso. Si è trattato invece di un grido – per dirla con Holloway –  plateale e finale, di un J'accuse chiaro e sonoro, di una condanna senza appello che vive nero su bianco ed è chiaramente indirizzata a quanti – in questi anni – si sono resi attivamente colpevoli dell'impoverimento senza scrupoli di milioni e milioni di persone, e in particolare di un paese, la Grecia, ormai degradato a colonia priva di qualsivoglia sovranità. "Il governo collaborazionista Tsolakoglou ha azzerato, letteralmente, la possibilità che io sopravviva, la quale si basava su una pensione dignitosa che io solo (senza l’intervento dello Stato), ho pagato per 35 anni. Siccome ho un’età che non mi consente di reagire dinamicamente (anche se non escludo che qualora un greco si armasse di kalashnikov, io non sarei il secondo), non trovo altra soluzione che una morte dignitosa, prima che cominci a cercare fra la spazzatura di che nutrirmi. Credo che i giovani, senza futuro, un giorno imbracceranno le armi e impiccheranno, a testa in giù, i traditori della nazione, come hanno fatto gli italiani nel 1945 con Mussolini (piazza Loreto di Milano)". 

Non c'è spazio per l'interpretazione. Il parallelo è chiaro. Il suicidio del settantasettenne e militante di sinistra Dimitris Christoulas ha dato voce a un sentimento diffuso in Grecia, molto più diffuso di quanto non si creda: l'antigermanismo. Gran parte del popolo ellenico vede nell'odierna egemonia finanziaria tedesca e nei dictat imposti al governo greco nient'altro che il volto nuovo dell'occupazione nazista del 1941-42. Il "governo collaborazionista Tsolakoglou" – infatti – era il governo che firmò la resa incondizionata alla Germania nazista, atto che ancora oggi viene ricollegato all'idea di supremo tradimento, ed è a quel governo che Christoulas ha paragonato l'attuale governo Papademos, augurandosi che i giovani sappiano rimettere al loro posto i traditori della nazione: vale a dire "a testa in giù". Eppure, al di là della durissima condanna personale non è possibile non leggere in questo suicidio l'intenzione di una rivendicazione che è pienamente e indubbiamente collettiva. Non è possibile dimenticare che la rivoluzione nord africana è iniziata con il suicidio del fruttivendolo e attivista tunisino Mohamed Bouazizi, non è possibile non vedere quanti in Italia – durante questi primi mesi del 2012 – hanno deciso di ammazzarsi perché stanchi di lottare contro i sacerdoti del dio mercato, contro i finanzieri e i governanti che continuano a ripetere salvaci se vuoi salvarti, contro i mulini a vento del neo-liberismo che per alimentarsi domandano continui sacrifici; non è possibile non vedere come il suicidio stia tramutandosi nell'estremo gesto di resistenza. Il paradosso è evidente: per essere visti, molti si tolgono la vita, augurandosi d'essere d'ispirazione, di esempio, augurandosi che dopo il sacrificio qualcosa si muova e il mondo cominci a cambiare.

Il suicidio è ormai ovunque il definitivo gesto di ribellione. La morte diventa strumento di condanna; la vita è qualcosa che si è disposti a sacrificare affinché si accenda una pur fulminea luce su di un dramma che tutti conoscono ma che nessuno vuole ancora guardare alla piena luce del sole, senza edulcorazioni, senza paillettes, senza ghirigori e approssimazioni, senza sufficienza, senza richiami alla calma, senza  innalzamenti di barriere impastate di cinico realismo, senza il rassicurante cantilenare del così è la vita, c'è chi nasce e c'è chi muore. Il dramma, semplice e inconfutabile, è che sempre più persone vengono portate alla disperazione, arrivando a poter scegliere tra due sole opzioni: uccidersi urlando o lasciarsi morire lentamente, in silenzio, cibandosi di rifiuti e dormendo all'addiaccio. Che ci si voglia credere o meno, esistono persone per cui tutte le opzioni di vita sul tavolo emanano il rancido tanfo dell'ingiustizia.

"Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". È l'incipit della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, eppure ha ormai il suono dello scherzo, della barzelletta di cattivo gusto. Gli esseri umani non nascono, non vivono e non muoiono né liberi né uguali, e qualcuno comincia a trovare tutto ciò insopportabile. Alcuni decidono di morire, altri di far esplodere bombe che danneggiano simboli governativi, altri ancora manifestano senza sosta, ogni giorno, moltissimi scioperano, qualcuno costruisce modelli alternativi ed economie parallele, la maggioranza – come da tradizione – tace e aspetta che si giunga al punto di non ritorno: il momento in cui tutti verranno chiamati a scegliere, se ne avranno ancora facoltà.

Coloro che non possiedono scelta alcuna, sono i bambini. E un recentissimo rapporto dell'UNICEF denuncia che 439.000 bambini greci sono ormai costretti a vivere al di sotto della soglia di povertà; frequenti i casi di malnutrizione, di lavoro minorile, di condizioni di vita malsane. Questo genere di realtà colpisce oltre il 20% dei nuclei familiari greci, non si tratta di casi isolati ma di un problema sistemico, generalizzato, in crescita. Eppure i media greci continuano a parlare di immigrati, di sacrifici necessari e di ripresa ormai prossima. Proprio per stasera è atteso il varo di nuove misure di austerity che prevedono la "restrutturazione delle casse pensionistiche e previdenziali". Contro questo provvedimento è cominciato già in giornata lo sciopero dei marittimi, altri scioperi continuano senza sosta e il clima politico in Grecia ricomincia a scaldarsi. D'altronde, della data elettorale non si ha ancora nessuna notizia certa, si comincia a parlare del 6 maggio ma non c'è stato alcun pronunciamento ufficiale in merito. Il quadro politico greco, infatti, è più che mai frastagliato, quelli che un tempo erano i principali partiti politici ora come ora raggiungerebbero – insieme – uno stentato trenta percento, il che metterebbe in serio pericolo i provvedimenti fin qui adottati in accordo con l'Unione Europea, e pertanto nessuno sembra avere grande interesse a chiamare il popolo al voto.

Questo significa che la tregua pre-elettorale che il marzo greco sembrava aver concesso al governo potrebbe rapidamente sfumare in una rivolta i cui contorni sono più che mai indefinibili, specie se il tutto comincia a configurarsi come una resistenza combattuta a colpi di suicidi e atti dimostrativi.  Il rischio che si corre nel privare un popolo di certezze, futuro, identità e mezzi per la sopravvivenza consiste nel ritrovarsi a fronteggiare un esercito composto da individui che non hanno nulla più da perdere, persone a cui non importa granché neppure di rimanere vivi, individui che  decidono di abbracciare una comunità, una causa per il cui successo sono disposti a tentare l'azzardo della morte, nella speranza che quel definitivo sacrificio assurga a simbolo di rinascita. Sono esattamente questi i momenti in cui i governi dovrebbero cominciare a temere i propri popoli. E per far sì che si comprenda quanto ciò può essere vero, riporto le parole con cui un'amica greca mi ha avvisato di quanto era accaduto in piazza Syntagma lo scorso 5 aprile: "Un pensionato si è appena ucciso a piazza Syntagma. Stiamo organizzando una manifestazione. Tutti gridano che è ora di mandarli  via, il governo è l'assassino!"

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